Contro la dittatura del tempo. De Chirico neometafisico

26/03/2021

«E tutte le costruzioni del tuo spirito ti applaudiranno insieme. Quel giorno. Applaudirò anche, seduto al centro della piazza piena di sole»: è quanto Giorgio de Chirico auspicava per sé nella prima metà degli anni Dieci, e Lorenzo Canova, ascoltando i desideri del pittore, allestisce con cura la scena e permette alle «costruzioni» il grande ritorno. Celebrare la Neometafisica spogliandola di pregiudizi e preconcetti per renderla statua immortale alle soglie del tempo; rivalutare gli ultimi dieci anni della produzione pittorica dell’Optimus per scolpire l’architettura gloriosa di una grande stagione pittorica; imbarcare il lettore su un piccolo paccobotto e salpare alla riscoperta di un mito tutto moderno: questi gli intenti sottesi all’affascinante e labirintico libro di Lorenzo Canova, appena pubblicato per La Nave di Teseo in collaborazione con la Fondazione Giorgio de Chirico.

Neometafisica, dunque. E sia: nuovo e sempre antico viaggio oltre le cose e al di là del reale, al fine di immergersi nel «flusso ininterrotto di scoperte, ritorni, trasformazioni e rielaborazioni» di temi affrontati e trattati da de Chirico sin dagli albori della sua pittura. Si badi bene però: Neometafisica non come mera spirale di immagini già viste, figlie di una pittura senile che – per esigenze di mercato o vanagloriosi narcisismi – ripropone stancamente sé stessa fino a ripiegarsi in sterili laudationes temporis acti, bensì un’originale creazione del maturo de Chirico che si serve delle repliche «senza mai copiare, ma ricordando». D’altronde, nulla di nuovo sotto il sole: l’autocitazione è conditio sine qua non della poetica metafisica e, perciò, quel ricordo che nel passato presagiva cose nefaste future, nel futuro, ora presente, si trasfigura metamorfizzandosi in inquieti quanto ironici remixaggi; le creazioni dechirichiane, ricordando e ricordandosi, mutano così in qualcosa di totalmente nuovo, di totalmente altro.

È questo quindi «il tempo del grande ritorno: il ritorno del padre e del figlio, del cavaliere e del poeta, del trovatore e dell’Argonauta, del navigatore e dell’eroe», che noi lettori, come l’Ulisse-Ebdòmero chiuso all’interno di una stanza, ci accingiamo a scoprire sotto la guida sicura del capitano Canova, remando tra le tinte acide e i neri luminosi della «nuova felicità cromatica e immaginativa» degli ultimi quadri del pittore greco, navigando alla volta dello svelamento degli enigmi di questa nuova Metafisica, oramai del tutto «schiarita». Secondo la visione nietzschiana di un tempo circolare, ove ogni cosa che torna sarà e – ugualmente – è sempre stata, la Neometafisica si rivela pertanto come una Metafisica «continua» che sfida «la dittatura del tempo e della sua linearità»: essa contiene in sé la prima Metafisica parigina, quella ferrarese, quella «riformata» degli anni Venti e Trenta, anticipando e ripetendo sé stessa in una perenne mise-en-scène.

Ritorno di Ebdòmero

Canova rende palese il trucco di prestigio che, pur mutando regole, sembra ripetersi di «commedie in commedia», mostrando al lettore il «backstage in cui l’artista celebra il suo mestiere e i suoi misteri». Triangoli di occhi curiosi in stanze-teatri ci osservano mentre, giunti al gran finale, assistiamo all’«applauso al poeta costruttore da parte delle sue stesse creazioni»: nel consueto ribaltamento scenico, non siamo noi realmente a guardare, ma noi a venire guardati, spiati e resi, nostro malgrado, attanti dello spettacolo. In questo «tempo alla rovescia», percorriamo allora a ritroso la «lunga visita al palazzo di immagini costruito da de Chirico», per raccontare, in pieno stile metafisico, questo grande ritorno.

Bloccati nel piccolo paccobotto formato dalle 19 stanze che il mistagogo Canova ha allestito per i suoi adepti, iniziamo il percorso immergendoci nell’ultima, la stanza delle onde di parquet, scivolando giù dalle klingeriane scalette, attraversando il «mistero laico» dei bagni della greca infanzia, percorrendo le antiche terme romane, per arrivare a quel «capolavoro di arte urbana» quale è la Fontana dei Bagni Misteriosi, che ancora oggi decora Parco Sempione a Milano, e dove «tutte le rotte intrecciate» convergono. Di qui ci spostiamo a New York alloggiando in alberghi precari ove, di continuo, scocca l’ora fatale; ammiriamo i metafisici grattacieli di Manhattan sorvegliati dall’oniropompo Mercurio, protettore dei viaggi e degli affari, che, nella Grande Mela, presenzia «i culti nei templi della finanza di Wall Street», trasformando i prosastici incassi degli «umani affari» in alchemiche cascate di oro filosofale.  Attraversate poi le fatali arcate del tempo, il sole di Apollo illumina a giorno la stanza dei misteri, mescolando senza sosta «ironia e tragedia, le origini arcaiche al presente, il mito alla quotidianità»: le luci della ribalta rischiarano qui i maggiori protagonisti della mitologia dechirichiana, i manichini dalla testa a ovulo. Questi uomini «cuciti» recitano ora tendenzialmente in coppia e, tra soli neri malinconici legati da «un cordone ombelicale» al loro «doppio luminoso», essi vengono finalmente, e una volta per tutte, consolati (ovvero si trovano soli con). Elettra poggia la mano sulla spalla di un Oreste tormentato e, allo stesso modo, Pilade – che tanto ricorda il fratello del pittore, Andrea (in arte Alberto Savinio) – trattiene l’amico; l’Immortalità ne ripete il gesto con l’eroe, probabilmente lo stesso Ebdòmero che nel 1929 finiva/iniziava il suo viaggio di carta consolato dalla grande dea; il figliol prodigo abbraccia il padre come de Chirico, seguendo la collana dei ricordi, torna a stringere il suo, morto quando egli era solo un ragazzo; tornano a salutarsi gli amanti alle porte Scee, appoggiandosi l’uno all’altro davanti a una Troia geometrica; torna Ulisse ad Itaca remando nel pavimento ligneo della stanza; torna il cavaliere elettrico al castello avito, sotto il segno di un Orfeo-Trovatore riemerso dall’Ade; torna Cristo, sconfitta la morte, trionfante, alla fine dei tempi nel giorno dell’Apocalisse.

Visione metafisica di New York

In questo scavo all’interno della «profondità abitata», tra antichi trofei e gladiatori senza sangue, ci troviamo di colpo nella stanza di coloro che, più di tutti, si dichiarano emblema della memoria: gli Archeologi. Questi esseri ibridi, giganteschi ex voto «poliviscerali» etruschi o romani, sono «una sorta di autoritratto ideale dell’artista profeta e veggente» che «porta sul tronco il suo destino», come il Capitano Ulisse di Savinio portava quello stesso destino tra il panciotto e la camicia. E, sulla scorta di questo pensiero, spalanchiamo la porta della stanza dell’autoritratto cieco: sum sed quid sum si chiedono spesso i manichini senza volto, ed è proprio nella fase Neometafisica – sebbene l’artista quasi mai si ritragga – che de Chirico, più che altrove, «moltiplica le metafore della sua esistenza» e si afferma più che mai il protagonista dei suoi quadri e delle sue opere.

Ci inoltriamo poi nella stanza della fatalità, per approdare alla camera del passato e del futuro: qui incontriamo al contempo Eraclito, Schopenhauer, Nietzsche; Kavafis, Nerval, Heine, De Quincey; e, ancora, molti artisti degli anni Sessanta influenzati da de Chirico, come Tano Festa, Mario Schifano, Mario Ceroli e Emilio Tadini, i quali vengono a loro volta citati da de Chirico per esaltare doppiamente sé stesso. Tuttavia, essendo il Pictor Optimus un anticipatore del post-moderno, per aver usato «sempre il passato per essere contemporaneo e, addirittura, futuribile», da questa stanza ci si può perfino spingere a guardare oltre la finestra, nel futuro, puntando lo sguardo alle architetture «sghembe» di Tim Burton, ai bei Canopi di Luigi Ontani, alle star di Hollywood collocate nelle metafisiche piazze di Francesco Vezzoli.

Il poeta e il pittore

Percorrendo e precorrendo questa serie di «immagini che cambiano mentre si ripetono» – sulla scia di Andy Warhol – si approda infine all’ultima stanza, la prima del testo: la stanza del viaggio e del ritorno. «La Metafisica nasce pertanto sotto il segno dell’enigma della partenza, dell’abbandonarsi al corso del divenire», in una concatenazione di eventi futuri e passati che si ripetono e si anticipano tra loro, finché, raggiunta la nietzschiana «difficile, difficile felicità», l’artista può «celebrarsi facendo tornare tutte le sue opere». Nel prologo dei ritornanti, allora, tutte insieme le creazioni «ritornano davanti allo sguardo burbero e benevolo del vecchio pittore che, verso il tramonto della sua vita, si concede il piacere di quel grande ritorno, la gioia di poter essere ancora il protagonista del gioco serio della pittura»: de Chirico, «ritornante tra i ritornanti», è il primo ad approdare al futuro senza mai essere passato, e dobbiamo a Lorenzo Canova il merito di aver preparato il perfetto palcoscenico a questo ultimo, «continuo», ritorno.

Lorenzo Canova
Il grande ritorno. Giorgio de Chirico e la Neometafisica
La Nave di Teseo, 2021, pp. 368, € 28

In copertina: Giorgio de Chirico, Sole sul cavalletto, 1972

Miriam Carcione

è dottoranda di ricerca in Italianistica presso “La Sapienza” di Roma. Si occupa sin dalla triennale di pittori-scrittori del primo Novecento legati alla Metafisica. È appena uscita la sua monografia "La poetica della meraviglia. Filippo de Pisis scrittore" (Bulzoni 2021) ed è in corso di pubblicazione un’edizione critica de “La Ficozza Filosofica del Fascismo e la Marcia sulla Leonardo” di Angelo Fortunato Formìggini.

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