La fotografia si occupa di tre regioni della realtà: la visione, una capacità umana costitutiva; l’immagine, un termine generico per indicare la realtà percepita; e il lume, una precondizione perché un’immagine possa essere vista. Praticando la fotografia, il filosofo può riflettere sulla visione, l’immagine e il lume.
Questa riflessione fotografica-filosofica — o fotosofia —, in primo luogo, va ben oltre il rispecchiamento di ciò che si mostra e di ciò che si vede. Il lumo (φῶς) è qualcosa che unisce l’arte fotografica con l’ontologia: il momento in cui l’essere si rivela coincide con la grande divisione cosmica tra l’oscurità e il lume. Questo momento è descritto in modo particolarmente espressivo in un antico canto delle Upanishad:
O Brahma, guidaci dal non-essere all’essere
O Brahma, guidaci dall’oscurità alla luce
(Brhadaranyaka Upanishad)

La divisione dell’oscurità e del lume rende definibile il significato, perché le idee non sono realizzabili nell’oscurità ctonia dove non c’è la luce. Si può solo immaginare la forma di queste idee, se una forma sarebbe possibile nel nero del buio. Hegel ha fatto del suo meglio per immaginare le idee prima della creazione nella sua Scienza della Logica, così come Mikhail Vrubel nei suoi ornamenti nella Cattedrale di San Vladimir a Kiev.
Il momento fotosofico della differenziazione cosmica è l’istante prima della separazione morale del bene e del male, quando “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre” (Genesi, 1, 4). È quella frazione di secondo nell’enorme storia della creazione che permette la fotografia: è il momento in cui qualcosa si differenzia dal nulla. In momento fotosofico la luce permette di vedere, mentre un’oscurità compresente nega l’opportunità di un giudizio morale. La fotosofia così ha un accesso alla riflessione del mondo in cui caos e ordine coesistono, quindi del mondo prima della divisione del bene e del male.

Questa capacità del lume anche costituisce la possibilità del progetto fenomenologico di Martin Heidegger. Il lume è una precondizione perché un fenomeno (φαινóμενον) testimoni sé stesso, poiché un fenomeno è qualcosa che si mostra. Φαíνω significa “illuminare, porre in chiaro” ecco perché “i «fenomeni», sono dunque l’insieme di ciò che è alla luce del giorno o può essere portato alla luce” (Heidegger, Essere e tempo, §7A, tr. da P. Chiodi). E in questa luce un qualcosa di presente rivela la sua esistenza nei colori ineguagliabili.
Oltre a vedere il mondo prima dell’avvento del male, il lume fornisce una visione della vita umana prima della sua immersione nel dominio delle verità e delle falsità. La capacità umana di vedere ciò che la luce rivela come l’ineguagliabilità di qualcosa, αἴσθησις, viene ben prima del λόγος, la cognizione e il suo fallimento.
“Secondo la concezione greca, «vero» è, e certo più originariamente del λόγοϛ di cui parliamo, la αἴσθησιϛ, la pura percezione sensibile di qualcosa. Poiché la αἴσθησιϛ si riferisce sempre ai propri ἴδια…” (Heidegger, Essere e tempo, §7B, tr. da P. Chiodi).
La visione, la capacità umana di vedere, fa del vedere il mestiere e della fotografia l’arte.
Più o meno nello stesso periodo in cui Heidegger disturbava l’essere con la sua ontologia radicale, David Kaufman (meglio conosciuto come Dziga Vertov) iniziò a cercare di usare l’occhio meccanico della cinepresa per documentare la realtà dove il lume e il buio si allontanano. La cinepresa forniva all’uomo la capacità di fissare un momento, raccogliere queste fissazioni e riassemblarle in un movimento controllabile. Questo ispirò Vertov e il suo gruppo Kinoko a dichiarare una crociata contro i film inscenati e alla gloria della cine-verità documentaria. La cinepresa può documentare la realtà, rivelando non solo luce e ombra, ma anche il ritmo del mondo.
“Kinochestvo [Cine-occhio-tà] è l’arte di organizzare i movimenti necessari degli oggetti nello spazio come un insieme artistico ritmico, in armonia con le proprietà del materiale e il ritmo interno del ogni oggetto.” (Noi-Manifesto, traduzione dell’autore)
Queste scoperte fotosofiche dell’inizio del ventesimo secolo hanno ispirato i filosofi contemporanei ad andare più avanti dei loro predecessori. La produzione, la riproduzione e la moltiplicazione hanno stimolato intuizioni filosofiche sull’immaginario, il visivo, i simulacri e lo spettacolo. Ora, all’inizio del ventunesimo secolo, la vita umana si è immersa nella situazione di dominio visivo. Il visivo domina ora a un livello tale che il mondo — un tempo visibile — ha perso la sua chiarezza.

A questo proposito, Guy Debord è stato tra i primi a definire la sfocatura visiva della realtà.
“Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita, si fondono in un unico insieme, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzialmente si dispiega nella propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte, oggetto di sola contemplazione”(Debord, La societa dello spettacolo, frammento 2).
Debord ha anche criticato l’incapacità dei filosofi di vedere i nuovi ostacoli all’accesso umano all’esistenza autentica. Lui suggeriva: il pensiero critico deve imparare a vedere di nuovo. Si tratta di vedere l’universo dei simulacri che coprono la realtà, e la capacità di vedere come il dominio e la sottomissione sono riordinati nello spettacolo.

Uno dei modi di affrontare il mondo-visto-di-nuovo è la pratica della fotografia. Questo permette a Susan Sontag di negare ottimisticamente le previsioni di Debord e di invitare di nuovo Platone alla discussione:
“Questa insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo. Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare” (Sontag, Sulla fotografia, tr. da Ettore Capriolo)
Sontag, nello stesso libro, esprime la missione quasi ontologica di una fotografia: portando l’esotico vicino, rendendo esotico il familiare, le fotografie rendono il mondo intero disponibile come oggetto di valutazione.
La forza di una fotografia sta nel potere di valutare una cosa abituale in una nuova condizione culturale e sociale. Così, la fotografia diventa simile alla filosofia. Questa confluenza si rivela al meglio nella forza critica e riflessiva della fotosofia, quando pensare e vedere si uniscono.
La fotografia può essere un altro modo di fare filosofia critica in un’epoca della contraddizione tra l’egemonia visiva e la liberazione. In ogni capitolo del mio libro “Fotosofia” (Kiev: Laurus, 2017), faccio del mio meglio per riflettere visivamente e contemplare pensosamente il potere ideologico della visione e della creatività umana. E lo faccio senza parole, solo per i mezzi della fotografia.

Le immagini che accompagnano l’articolo sono tratte dal libro: Mikhail Minakov, Photosophy (Kiev: Laurus, 2017)