Architetture scalze

È un oggetto originale, che solo per abitudine, per forma e struttura (di fatto, è carta, con copertina più pesante, e numeri di pagina) possiamo chiamare “libro”. In realtà “Architetture scalze, ecoteatri sostenibili + altre storie”, di Luca Ruzza, edito dalla vivacissima Bordeauxedizioni, è molto altro. È un cammino, è un percorso, o forse è semplicemente per chi legge un invito. Un invito a entrare in uno strano, stranissimo laboratorio del pensare e del fare. Luca Ruzza è architetto, scenografo, docente universitario. E questo oggetto ne riflette non solo le molteplici identità professionali ma anche le inquietudini intellettuali, i progetti e gli allestimenti, i sogni e i ricordi. Allora, in questo zibaldone di 400 pagine ci si abbandona apparentemente senza una bussola precisa, senza un piano narrativo pre-ordinato o una prospettiva onniscente calata dall’alto da un autore ingombrante.

Ruzza affastella ricordi, interviste, brevi saggi, tavole, disegni, progetti, reportage fotografici, citazioni, spiegazioni tecniche e scientifiche che, proprio come in un racconto di viaggio, possono ammaliare o intimorire, nella sua originale composizione grafica (peccato per qualche refuso di troppo e per dei caratteri in corsivo dal corpo troppo piccolo per anziani lettori quali il sottoscritto).

A far da binari ben piantati in terra sono i due apici di questa narrazione: l’architettura e il teatro. Ambiti che si mescolano di continuo: Luca Ruzza ha progettato e costruito teatri – dunque nel pieno rigore della attività d’architetto, ancorché specializzato in quel particolare edificio, atto allo spettacolo, che è il teatro. Ma ha anche ideato e realizzato scenografie importanti, e qui la razionalità dell’architetto lascia spazio alla visionarietà e alla temerarietà dello scenografo. Proprio in questa prospettiva si colloca buona parte del racconto privato di Ruzza: in quello che è il lungo, felice legame con l’Odin Teatret e con Eugenio Barba.

È noto: Barba, salentino di origine, ma come si dice “cittadino del mondo” – e di quel mondo misterioso e popoloso che ha saputo raccogliere attorno a sé, chiamato il popolo segreto dell’Odin – ha fondato a metà degli anni sessanta del secolo scorso, e da quel momento diretto la storica compagnia nella sua sede a Holstebro, in Danimarca. L’Odin è un punto di riferimento imprescindibile della storia del teatro. Giustamente, nella prefazione, lo studioso Ferruccio Marotti, evocando gli anni splendidi e furiosi del Teatro Ateneo, in seno all’Università “La Sapienza”, arriva a parlare di Luca Ruzza e ricorda come lo spinse, giovane studente, ad andare a Holstebro, ad andare all’Odin: «Negli anni Luca – scrive Marotti – ha saputo di volta in volta immergersi nel lavoro di architetto scenografo con l’Odin di Eugenio Barba, ma anche distaccarsene e continuare a ricercare autonomamente un’ipotesi di architettura scalza – secondo la geniale definizione di Yasmeen Lari – un’architettura che è di servizio allo spazio e al tempo presente: la scenografia come scrittura spaziale, lo “empty space” che è alla radice del fare teatro ed in ultima analisi è lo spazio della meccanica quantistica». Non è un caso allora, che questa raccolta di scritti e pensieri parta proprio dalla formazione con Barba: «La mattina presto tutti gli attori dell’Odin si alzavano per fare due ore di training. Scalzi. Ho capito che se volevo fare qualcosa di utile per loro dovevo togliermi le scarpe anche io e adottare il loro punto di vista. Decisi di alzarmi all’alba ed entrai nella sala bianca dove si allenavano. Un apprendistato bizzarro per un apprendista architetto, senza carta né matite e senza tavolo da disegno, che in quel momento appariva superfluo. C’era da tagliare, inchiodare, istallare fari e bobine, dipingere. C’era sempre qualcos’altro da fare di più urgente e necessario. Mettendo da parte la mentalità del superfluo si riscopre il nucleo originario del lavoro, affiora il senso di ciò che è necessario. Compresi presto che il mio compito sarebbe stato quello di assicurare a chiunque uno spazio vivibile, ecosostenibile e funzionale».

© Luca Ruzza, Odin Teatret Danmark

Ed è interessante scoprire come e quanto quell’imprimatur, forgiato dalle tavole di una sala prove, si sia riverberato poi in tutto il percorso creativo di Luca Ruzza. Nell’ampio excursus storico critico, l’Autore ha modo di ribadirlo più volte: «ogni progetto di teatro resterà solo come “monumento” o diventerà come quelle case disabitate di cui resta solo la facciata se non lo si darà come abitazione agli uomini di teatro». Leggere queste righe, che appaiono dopo una delle tante digressioni di Ruzza, fa saltare sulla sedia: da oltre un anno, per le dure condizioni dettate dalla Pandemia, i teatri sono chiusi, sono disabitati da artisti e pubblico, sono monumenti vuoti. Forse qualcuno riaprirà, il prossimo 27 marzo, per una mesta celebrazione della “Giornata mondiale del Teatro”, ma tanti saranno costretti a tenere ancora le porte chiuse. E per questo anomalo architetto, che da anni vive, lavora, si nutre, dorme con i compagni di viaggio del teatro, interrogarsi sulla forma del teatro significa interrogarsi sull’Uomo, sulle persone che compongono e danno vita al teatro. Ecco allora scenografie intere che si possono smontare e stanno in pochi trolley – sfida vinta con L’Albero, del 2016, spettacolo bellissimo di Eugenio Barba – seguendo la direzione della compagnia che, nei suoi spettacoli «ha sempre scelto di rompere la convenzione della prospettiva centrale, della scena frontale, per ritrovare di volta in volta un luogo “adatto” all’azione». Luca Ruzza ricostruisce il lavoro fatto con Barba, sin dalle suggestioni iniziali per arrivare agli allestimenti. E in questi racconti si coglie la fascinazione per il Maestro, il rispetto per una scuola che è vita, dedizione, attenzione, rivolta.

Poi, in questo libro-labirinto, l’Autore chiama in causa maestri diretti e indiretti: Borromini e Adolph Appia, la straordinaria Lina Bo Bardi e Marc Augé, Bauman e Merce Cunningham; Horace Walpole, l’inglese che nel XVIII coniò il termine “serendipity”; porta il lettore nel volgere di una pagina dal Giappone al Salento al VietNam; spiega con dovizia di dettagli il “Bamboo Box”: un «teatro prefabbricato e ecocompatibile completo di sistema di isolamento dal rumore esterno e correzione acustica interna, provvisto di ottima coibentazione grazie all’utilizzo di materiali d’avanguardia (come la struttura di pannelli XLam in legno a basso impatto ambientale) con 300 posti, uffici, foyer caffetteria e spazi comuni versatili e polifunzionali. Tempo di costruzione 3 mesi, completo di servizi per lo spettacolo, reti impianti, luci, amplificazioni e uffici». 

Ma c’è un racconto – o forse un ricordo –  che, per conoscenza personale, mi ha particolarmente emozionato: l’avventura dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce, uno spazio, un gruppo di persone, un teatro che ho imparato a conoscere e amare nel mio lavoro di critico.

Spiega Luca Ruzza: «quando abbiamo iniziato a fare i lavori non c’erano soldi per fare tutto. Salvatore Tramacere (regista e direttore del Teatro Koreja, nda) ricevette dal padre la somma di 250 milioni di vecchie lire. E con questa cifra decise di acquistare una fabbrica di piastrelle di graniglia abbandonata e semi-distrutta in una zona di Lecce al tempo degradata e priva di qualsiasi servizio essenziale. Ma quel denaro sarebbe bastato esclusivamente per l’acquisto». I soci della compagnia accettarono l’idea di un prestito bancario di ben 700milioni di lire. Un grande impegno per tutti ma, ricorda Ruzza, «dieci anni dopo il prestito fu completamente restituito alla banca».

© Luca Ruzza, Porsgrunn Porcelan Fabrik

Così Luca Ruzza costruisce il suo primo teatro in Italia: un modello di accoglienza e funzionalità, recentemente arricchito di una notevole foresteria. Il Teatro Koreja, uno dei più attivi d’Italia, ha fatto propria quella filosofia dell’abitare lo spazio teatrale: basta passarci una sera per avvertire quanto quell’edificio, quella vecchia fabbrica distrutta, sia oggi una fabbrica di idee, di incontri, di pensiero. Poi sarà la volta di un altro teatro, quello di Ruvo di Puglia, per il quale Ruzza usa come elemento dominante il legno di larice; e ancora del piccolo teatro di Marsciano, in Umbria, dove opera il Laboratorio Isola di Confine, la compagnia di Valerio Apice e Giulia Castellani. Qui, con una buona dose di geniale inventiva,  la palestra di una scuola primaria, viene reinventata a teatro. Nel momento in cui scrivo queste note, però, il “teatro” di Marsciano, la sala dedicata a Eduardo De Filippo, è stato brutalmente sfrattato. Il laboratorio infatti viveva da dieci anni in orari extrascolastici grazie a un comodato d’uso, e la Direzione didattica, in questi mesi cupi e dolorosi, ha rifiutato il rinnovo del contratto, con una decisione alquanto opinabile tanto più perché giunge in una fase di grave crisi del settore . Di questo amaro epilogo (ma speriamo la situazione si risolva al meglio) ovviamente non c’è traccia nel libro di Luca Ruzza, ma vi sono, riga dopo riga, la passione e l’entusiasmo che hanno portato alla creazione di quel teatrino in provincia di Perugia, dove bambini, adulti, maestri del teatro si incontrano per creare una «rete di relazioni e di esperienze che valicano i confini e i secoli».  E proprio nel novero di relazioni e incontri si dipana una sezione del libro in cui l’architetto racconta il suo rapporto con la tecnologia, a partire da un progetto internazionale sulla performing art e le nuova tecnologie, nel 1999. Era la stagione del Macintosh Plus da 512K (metà di un megabyte). Tecnologie rudimentali,  ma già artisti e studiosi si confrontavano con le possibilità di questo “Nuovo mondo”. Conclude Ruzza: «Ridefinizione dei ruoli e delle identità, ma non solo: l’avvento della tecnologia – scrive Ruzza – stimolato dalle scoperte scientifiche, muta le coordinate spazio-temporali dell’evento teatrale. Imponendo nuove e più pressanti economie e politiche di produzione e di composizione. Digit-Art, generative-art, geometry-art, quantum-art, bio-art, eco-art, videogame-art: non si contano i “generi” che negli ultimi anni hanno beneficiato delle contaminazioni interdisciplinari tra arte e scienza».

© Antonio Leo, Foresteria Koreja Teatro Lecce

Insomma, nuove sfide attendono l’architettura e il teatro. «Si profilano fucine, fabbriche di produzione piuttosto che teatri da noleggiare per le prove. Serve un’altra economia e si scrutano nuove competenze. Spettacoli costruiti con programmatori, ingegneri, videomaker acrobati, cantanti lirici, musicisti danzatori orientali. Tutti in un nuovo circo che ha bisogno di un tempo-spazio così contemporaneo da farci tornare ad una condizione arcaica del fare teatro».

In chiusura, l’Autore cita una frase del Dalai Lama: «Ogni giorno è una nuova opportunità per ricominciare. Ogni giorno è il vostro compleanno». E chiosa: «Disegnare un teatro è un processo di conoscenza: incontro con persone, territori, linguaggi, tecniche, materiali. Tempo. Ogni volta bisogna ricominciare da capo. Da quello che si è lasciato indietro».

Allora, forse, giunti alla fine della lettura, si capisce una cosa: questo libro non è un diario, tanto meno un accademico saggio, potrebbe invece essere, e a pieno titolo, un bel romanzo di formazione: il racconto di una vita alla scoperta di sé e degli altri, attraverso prove da superare, eroi inattesi, e sorprese inusitate in quei mondi magici che sono teatro, l’architettura, l’arte, le esperienze di un viaggio senza fine.

Luca Ruzza
Architetture scalze
Bordeaux Edizioni
pp. 411, € 58

In copertina: training fisico all’Odin Teatret

Critico teatrale e studioso, va a teatro dal 1988, più o meno ogni sera. Ha raccontato quel che pensava su diverse testate nazionali, online, cartacee, radio e tv. Collabora con glistatigenerali.com, con L’Espresso, Radio3Rai, Che-fare.com, Lettre International e ha collaborato con altre testate nazionali e internazionali. Nel suo percorso ha incontrato Emma Dante, Ascanio Celestini, Virgilio Sieni, Ricci/Forte e molti altri artisti cui ha dedicato libri e saggi. Nel frattempo tiene corsi all’Università (all’Università di Roma “La Sapienza”) e laboratori di critica, come alla Biennale Teatro di Venezia dal 2010 al 2016. Si è dedicato alle teorie critiche applicate alla scena italiana con il libro “Questo fantasma, il critico a teatro” (Titivillus editore) e cura la collana “Guide Teatrali” di Cue Press, con cui ha pubblicato il libro “Che c’è da guardare? La critica di fronte al teatro sociale d’arte” (2017) e il più recente “Altri corpi/nuove danze” (2019). Con Luca Sossella Editore ha dato alle stampe “Il respiro di Dioniso, il teatro di Theodoros Terzopoulos” (2020). Ha diretto festival, ha fatto parte di giurie internazionali (Sarajevo, Teheran) e nazionali, e nel 2012 ha lavorato come direttore artistico del Bahrain National Theatre.

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