Wassily Kandinsky, musica per gli occhi

È con qualche rammarico che, leggendo la ripresa in edizione economica di Punto, linea, superficie, si scopre che nessuna nota redazionale sia stata apposta a soccorso del lettore che, fin da quando, nel 1968, era apparsa la versione di Melisenda Calasso, non aveva potuto trattenersi dal nutrire qualche riserva circa la resa del titolo di questo «abbozzo d’una metafisica della forma», nato, nelle intenzioni dell’autore, come prosecuzione dello Spirituale nell’arte (1910). Punto, linea, superficie è, come si suol dire, titolo di “sicura presa”; ma è altresì vero che è alquanto infedele. Come Philippe Sers aveva messo evidenza nell’edizione di tutti gli scritti di Kandinsky da lui curata nel 1970 per i tipi dell’editore parigino Denoël-Gonthier (e tradotta in italiano da Feltrinelli tre anni più tardi), Punkt und Linie zu Fläche alla lettera avrebbe dovuto essere reso come Punto e linea in relazione al piano – se si ammette, d’accordo con quanto suggerito dall’allievo di Kandinsky, Jean Lepplen, che «zu» stia per «zur» («zu der»). A differenza dell’edizione inglese di riferimento, Point and Line to Plane (Dover 1979) e di quella francese, Point et ligne sur plan (Gallimard 1991), quella adelphiana mette sullo stesso piano i tre elementi – linea, punto, superficie – senza considerare che il titolo originale stabilisce una netta relazione dei primi due al terzo, come attesta del resto il contenuto stesso dell’opera.

Kandinsky infatti esamina il punto e la linea in funzione del piano, ossia del loro uso in pittura. Sotto questo riguardo, la proposta di Sers del titolo Punto e linea nel piano risponde meglio ai propositi dell’autore di studiare i due elementi fondamentali della forma: il punto, entità invisibile e immateriale, da cui trae origine tutta la pittura e specialmente la grafica, e la linea, considerata come ciò che cresce organicamente da più punti; e ciò secondo un metodo che procede dapprima da una serie di considerazioni d’ordine astratto, geometrico, avulso da qualsiasi materializzazione; per poi applicare i due elementi sul piano materiale. Il saggio – assai lontano dal simbolismo reticente e onirico che permea Lo spirituale nell’arte – intende fornire un fondamento teorico a una pittura che vuole esser – nelle parole di Alexandre Kojève, nipote del pittore, in un saggio apparso nel 1936, pubblicato qualche anno fa da Quodlibet – «oggettiva», perché scevra di qualsiasi apporto soggettivo, e «concreta», perché capace di dar vita a universi completi e reali che esistono «in-tramite-e-per essa stessa».

Wassily Kandinsky, Eisenbahn bei Murnau, 1909

Dopo i frenetici anni di Murnau, piccola cittadina a sud di Monaco immortalata in uno dei dipinti più noti della sua prima maturità (oggi conservato nella Städtische Galerie im Lenbachhaus di Monaco), Kandinsky, costretto a lasciare la Germania dalla guerra – com’egli stesso ricorda nella prefazione a Punto, Linea, Superficie – prima di rientrare in Russia nell’autunno del ’14 soggiorna alcuni mesi a Goldach in Svizzera, sulle rive del lago di Costanza. È in questo periodo che trova modo di stendere un’ampia serie di appunti di carattere teorico, molto rilevanti per intendere le sue idee dopo gli anni monacensi e moscoviti e prima del suo approdo, nel ’22, allo Staatliches Bauhaus di Weimar. Ordinati in uno scritto organico, che pur tuttavia si proponeva «soltanto di fissare qualche freccia di direzione», i pensieri consegnati fino ad allora a una serie di note, scartafacci e appunti, furono pubblicati nella collana Bauhaus-Bücher, diretta da Walter Gropius e Ladislaus Moholy-Nagy, nel 1926. Lo scopo dell’opera era: «1. Trovare il vivente; 2. Renderne percepibile il pulsare; 3. Stabilire quale sia l’elemento normativo nel vivente stesso». In questo modo sarebbe stato possibile «raccogliere realtà viventi – in quanto fenomeni singoli e nelle loro connessioni»: compito – scriveva Kandinsky, ritenendo d’interpretare la poetica dell’intero astrattismo – di una riflessione sull’opera d’arte permeata d’un tratto profetico.

Tale carattere, sebbene potesse di primo acchito sembrare oscurato dall’adozione di formule e sigle, emergeva con prepotenza – ha scritto Cesare Brandi nel suo importante saggio su Picasso (ora in Scritti d’arte, Bompiani 2013) – da un «senso geloso dell’interiorità dell’arte», compendiato «nell’assioma dell’interiore necessità dell’opera». Il che, se da un lato segnerebbe un’evidente reazione al naturalismo ottocentesco, dall’altro parrebbe solo una presa di posizione intellettualistica, meno innovativa della rivoluzione cubista capace, secondo Brandi, di rettificare il processo creativo e non soltanto di offrire un concetto mutilo ed erroneo dell’immagine pittorica. Ma rivendicava Kandinsky (in Astratto o concreto?, nel II volume di Tutti gli scritti) che l’arte astratta «si crea essa stessa i propri mezzi espressivi e pone accanto al mondo reale un mondo nuovo, che non ha nulla da fare con la “realtà”». Non si tratterebbe dunque di un mero distacco dall’universo contingente. La realtà abituale, qui posta fra virgolette, indica quell’ambito dell’accaduto, del vissuto, al quale si contrapporrebbe la realtà a venire inaugurata dall’opera che – afferma Lo spirituale nell’arte – «possiede una qualità che le è peculiare: quella di indovinare, nell’ “oggi”, il “domani” – una forza creativa e profetica». Gianni Vattimo ha colto in quest’ultimo passo (in Poesia e ontologia, Mursia 1985) la volontà di Kandinsky di incontrare un mondo nuovo e di provare ad “abitarci”, non già secondo il dispiegarsi di fumose costruzioni arbitrarie, quanto attraverso la «concreta progettazione di opere come mondi, o anche del mondo umano nelle sue strutture fisiche»: come prova l’applicazione nel Bauhaus della poetica kandinskiana.

Sostenere che l’unico esito di quest’ultima trovi espressione nell’ideologia della scuola di Gropius, dove la forza profetica diventa sì concreto sforzo di progettazione del mondo, ma essenzialmente come capacità d’inserirsi nel mondo quale è, significherebbe però – secondo il Kandinsky di Punto, linea, superficie – non cogliere l’elemento spirituale proprio dell’opera d’arte come «campo di tensioni». Non solo quale specchio fedele d’un continuamente ripetuto tentativo di Kandinsky di «scansarsi ed evadere», come ritenuto da Arnold Gehlen in Quadri d’epoca (Guida 1989); ma anche, e soprattutto, quale piano di gioco fantasmagorico di colori, di forme e di suoni (del quale oggi, grazie a un progetto promosso da Google Arts, è dato scoprire il funzionamento in maniera interattiva).

A partire dal punto e dalla linea è possibile distinguere una sorta di cosmo relazionale, di «composizione scenica» a carattere polidimensionale: perché in essa, come nell’incisione del ’22 intitolata Piccoli mondi VI, si realizza un processo di organizzazione dello spazio di natura polivalente, perché polidirezionale, nel quale trovano composizione il movimento musicale, quello pittorico e quello coreografico. Ben lo coglieva Arnold Schönberg (con Franz Marc e lo stesso Kandinsky fra i fondatori del movimento Der blaue Reiter, Il cavaliere azzurro) in una lettera a Kandinky nella quale sosteneva come un tale contesto debba non già suggerire simboli, significati o pensieri, ma essere uno «spettacolo che deve risuonare solo per l’occhio»: in un processo spirituale che si dispiega in un rapido, continuo susseguirsi di gesti, colori e musica – o anche soltanto di parole, poste fra loro in risonanza per mezzo d’un legame sottile con il silenzio.

Wassily Kandinsky, Kleine Welten VI, 1922

È questo il suono abitualmente associato al punto – annota Kandinsky – e, con l’ingrandirsi del suo spazio circostante, il suono della parola diminuisce, mentre quello del punto si accresce e guadagna forza. «Così si dà un doppio suono – scrittura-punto – al di fuori del nesso pratico-funzionale», e si dà vita a uno stato rivoluzionario privo di alcuno scopo: la parola si trova scossa da un corpo estraneo col quale non può instaurare alcun rapporto, se non quello d’una perturbante mise en abîme concettuale e grafematica, agita dallo stesso concreto strutturarsi degli enunciati sulla pagina. Questa dunque non più un semplice spazio da percorrere, bensì una superficie resa viva da una serie di micro-movimenti espressivi, di solchi di significato, di pensieri in tensione, in globi, in strati, «convoluti, in volta su un bulicame, una conflagrazione, un….» (William Carlos Williams, Le nuvole).

Wassily Kandinsky
Punto, linea, superficie. Contributo all’analisi degli elementi pittorici
traduzione di Melisenda Calasso
Adelphi, 2021, pp. 229, 103 ill.ni con 25 tavole, € 13

In copertina: Wassily Kandisky, Senza titolo (primo acquerello astratto), 1910

(Milano 1981) insegna filosofia della comunicazione e del linguaggio presso l’Università Pegaso di Napoli; ha svolto e svolge attività didattica e seminariale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e l’Università di Pavia. Studioso di filosofia moderna e contemporanea, è autore di numerosi saggi e studi monografici fra i quali: “L’oblio del linguaggio” (Guerini 2007); “Alla ricerca della fenomenologia perduta. Husserl e Proust a confronto” (Mimesis 2009); “Brice Parain-Impromptu” (ESI 2010); “Giuseppe e i suoi fratelli: dalla filosofia narrante alla rivelazione” (Editoriale Scientifica 2012); “Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin” (Quodlibet 2015) “Monoteismo plurale. Teologia ed ecclesiologia in Schelling” (Il Pozzo di Giacobbe 2019). Ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Baumgardt, Hegel, Maimon. Di prossima pubblicazione, presso Quodlibet, è “Filosofia dell’ombra. Tre saggi”. Giornalista pubblicista, collabora con diversi periodici.

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