L’ellissi riflessa. Le fatali attrazioni nel vuoto di Eco e Narciso

Questo contributo è l’anticipazione di una raccolta (prossimamente edita da Bononia University Press) degli interventi presentati al convegno Anacronie. Leggibilità tra passato e contemporaneità nel display delle arti, curato da Lucia Corrain presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna il 16 dicembre 2020. Oltre al presente saggio, il volume conterrà i contributi di Lorenzo Balbi, Giovanni Careri, Claudia Cieri Via, Anna Coliva, Maria Giuseppina Di Monte, Michele Di Monte, Tarcisio Lancioni, Angela Mengoni e Guillermo Solana.

Il mito non è mai esaurito – c’è sempre un’altra versione da leggere,
il mito non è mai concluso – c’è sempre un’altra versione da scrivere[1]

In apertura

È un dato di fatto che sempre più di frequente gli allestimenti espositivi mettano in atto cortocircuiti anacronici che vedono affiancate opere del passato e del presente. L’arte contemporanea non è più solo ospitata in musei dedicati alle espressioni artistiche del passato con mostre ad hoc, ma entra a far parte dell’allestimento stesso del museo. Questa modalità anacronica, fondata sul dialogo tra temporalità multiple, è una delle più innovative pratiche espositive della contemporaneità.

Prima di entrare nel merito della questione, può essere di una certa utilità dare la parola a Salvatore Settis. Lo studioso apre il suo ultimo libro affermando che:

l’onda d’urto dell’arte contemporanea, travolgendo regole, abitudini, pratiche consolidate, sembra aver innalzato un’impenetrabile barriera verso l’arte “antica”, comunque la si voglia definire. È come se questa drastica rottura con il passato dovesse necessariamente comportare un nuovo inizio, il divorzio definitivo dai tempi lunghi della storia in nome di un presente che sempre si rinnova, ma non sedimenta, non ha memoria, né accetta di farsi esso stesso “passato” con il trascorrere degli anni: o è presente, o non è.

Considerazioni che, però, Settis subito dopo rimodula in termini avversativi affermando che, al contrario, “tra ‘antico’ e contemporaneo non c’è netta frattura, ma una perpetua tensione, che continuamente si riarticola nel fluire dei linguaggi critici e del gusto”, al punto tale che “il filo della tradizione non si è spezzato ma si è consolidato, travestendosi in nuove forme e modalità che chiedono di essere conosciute e chiamate per nome”.[2]

Recuperare il “filo della tradizione” e chiamare per nome la rinnovata memoria dell’antico è un invito che in questa sede viene accolto per indagare la mostra Eco e Narciso. Ritratto e autoritratto nelle collezioni del Maxxi e delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini, che si è tenuta dal 18 maggio al 28 ottobre 2018 e che è stata l’occasione per la riapertura al pubblico di una parte di palazzo Barberini, fino ad allora non visitabile.[3] L’ampio settore del palazzo finalmente restituito al pubblico ha rappresentato lo spazio ideale per un’esposizione che proponeva il genere ritratto e autoritratto con soluzioni non cronologicamente consequenziali, al di fuori della linea del tempo e delle categorie più canoniche della storia dell’arte.  

D’altra parte, la città di Roma non è nuova alla messa in dialogo di opere dell’arte “antica” con lavori eseguiti da artisti contemporanei in importanti contesti espositivi. Basti pensare all’iniziativa pluriennale intitolata “Committenze contemporanee” ospitata nella splendida cornice della Galleria Borghese.[4] Qui artisti quali Vedovamazzei, Giulio Paolini, Han Op de Beeck, Nedko Solakov, George Baselitz, Candida Höfer, Daniele Puppi, Mat Collishow, sotto la cura dell’allora direttrice Anna Coliva, hanno realizzato site specific con l’intento di comprendere e valorizzare il museo attraverso riflessioni contemporanee sulla stessa collezione.[5]

In ogni caso, occorre anche segnalare che non sempre la modalità di esposizione che mette in relazione passato e contemporaneità è all’origini di sinergie efficaci. Ad esempio, Yves Hersant, più di un decennio fa, è stato assai critico nei confronti della mostra di Jeff Koons, che si è tenuta nella reggia di Versailles nel 2008. Nell’intento dei curatori i lavori “dell’enfant terrible dell’arte contemporanea” dovevano entrare in risonanza con i desiderata che Luigi XIV esprime alla fine del XVII secolo. Il re voleva – come lui stesso annota su un progetto di Jules Hardouin-Mansart per il serraglio – “infanzia sparsa dappertutto”.[6] Ma il serraglio non è la reggia e Hersant è dell’avviso che “le sculture di Koons producono certamente una collisione anacronistica, ma nessuna storicità nuova”.[7]

1. Ritratto e autoritratto a Palazzo Barberini

1.1. Preliminari all’esposizione Eco e Narciso

Ancor prima di entrare nel merito della mostra, sono doverose alcune precisazioni. Dell’intero percorso espositivo di Palazzo Barberini qui si prenderà in particolare considerazione solo la parte iniziale, con precisione, i primi due ambienti che il visitatore incontra: il grande salone con l’affresco realizzato da Pietro da Cortona raffigurante il Trionfo della Divina Provvidenza, messo in dialogo con l’installazione di Luigi Ontani, Le ore, e la successiva berniniana sala ovale, tra il salone e il giardino del palazzo, dove il Narciso di Caravaggio (o dello Spadarino)[8] si confronta con la site-specific di Giulio Paolini dal titolo Eco nel vuoto.[9]È proprio su questo secondo allestimento, decisamente paradigmatico per i cortocircuiti anacronici attivati, che questo contributo si soffermerà con maggiore attenzione. Analizzare la combinabilità, o l’incombinabilità, di oggetti artistici che si ritrovano in ensemble all’interno di uno stesso spazio semiotico[10] è, infatti, la condizione di partenza che consentirà di sviluppare una riflessione sulle temporalità plurali dell’arte.

Nell’estetica della ricezione, la presentazione di opere d’arte nello spazio di un museo è una delle pratiche di montaggio più ricche di conseguenze. Il cosiddetto display dell’arte non solo determina le condizioni di accesso e di percezione di un lavoro artistico, ma nell’accostamento di opere realizzate in tempi diversi è in grado di generare effetti di senso quantomeno insoliti, se non addirittura inediti.[11] In altre parole, è a partire da quei «campi di esercizio di forze e forme nei quali le articolazioni del sensibile sono modi peculiari di produzione di senso»[12] che prende avvio l’efficacia semiotica del displaying[13]e di cui si proverà qui a rendere conto.[14]

È quasi d’obbligo nell’euristica anacronica un riferimento a Walter Benjamin, il quale a più riprese è entrato nel merito della questione:

ogni presente è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone: ogni adesso è l’adesso di una determinata conoscibilità. In questo adesso la verità è carica di tempo fino a frantumarsi […]. Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità. Poiché mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, quella tra ciò che è stato e l’adesso è dialettica: non di natura temporale, ma immaginale. Solo le immagini dialettiche sono immagini autenticamente storiche, cioè non arcaiche. L’immagine letta, vale a dire l’immagine nell’adesso della leggibilità, porta in sommo grado l’impronta di questo momento critico e pericoloso che sta alla base di ogni lettura.[15]

Per quanto riguarda i due artisti contemporanei, Luigi Ontani[16] e Giulio Paolini,[17] i cui lavori sono ospitati nei primi due ambienti del percorso espositivo, possiamo fin da subito affermare che sono decisamente uno agli antipodi dell’altro: il primo, che nel corso della sua carriera ha fatto della rappresentazione di sé il mezzo espressivo per eccellenza, quasi fosse un novello Narciso. Tutto quanto ha realizzato passa attraverso di lui, come in una continua scoperta dell’identità; tutto ha il suo volto, per narcisismo, ma anche perché “rivivere” è un atto di conoscenza.

Il secondo, invece, pensa che l’opera pre-esista al suo autore, al quale spetta solo il compito di renderla concreta e tangibile, tanto da far dire a Germano Celant che Giulio Paolini rientra nella ricerca di oggettività e di “elusione della soggettività”.[18] Particolarmente significative sono le stesse parole dell’artista, il quale afferma di avere più “propensione a osservare [che] a produrre [perché], al di là di tutto, mi sento più uno spettatore che l’autore che sono”, per aggiungere subito dopo: “credo di doverlo ripetere: non ho mai voluto esprimermi nell’opera. Ho sempre lasciato (ho sempre preteso) che fosse l’opera a esprimersi, a dichiararsi, a dire a chiare lettere chi è e da dove viene”.[19]

1.2. Un primo passo nella mostra: Le ore di Luigi Ontani nel salone di Pietro da Cortona

La mostra si apre nel salone affrescato da Pietro da Cortona,[20] ambiente monumentale che altro non è che la straordinaria auto-rappresentazione della famiglia Barberini.

Capolavoro dell’arte barocca, il Trionfo della Divina Provvidenza (1632-1639) si presenta infatti come un’‘orchestrazione allegorica’ del potere spirituale e di quello temporale del casato.[21]  Una sorta di solenne apoteosi visiva della famiglia e in primo luogo del papa Urbano VIII. Sebbene in absentia, infatti, la sua figura è presentificata[22] dalla magnificenza dell’affresco e aleggia sovrana nella sala: pensiamo anche solo alle tre enormi api, simbolo della famiglia, raffigurate nel serto d’alloro al centro del dipinto.

Ciò che caratterizza l’affresco, realizzato seguendo le logiche della prospettiva “da sott’in su”, con i suoi ritmi frenetici e il suo vorticoso dinamismo ascensionale, è uno strabiliante effetto di sfondamento della volta, un prolungamento virtuale della dimensione dello spazio rappresentato in cui lo sguardo dello spettatore,[23] incluso nello spazio volumetrico e architettonico, viene proiettato. A questa peculiare configurazione della spazialità interna dell’opera, si aggiunge la molteplicità di punti di vista attivati dall’affresco che il visitatore è chiamato a ripercorrere, trovandosi così letteralmente iscritto in un’esperienza di fruizione dinamica, tipica dello spazio barocco.[24]

Salone Pietro da Cortona con l’installazione Le ore di Luigi Ontani

Una modalità di visione ben precisa che si riverbera sull’istallazione Le Ore realizzata da Luigi Ontani nel 1976,[25] riallestita nella sala dai curatori della mostra. Un lavoro composto da ventiquattro stampe fotografiche a colori, con cornice dorata, in cui l’artista è ritratto come un tableau vivant in bilico tra fotografia, pittura e performance, alla riscoperta del tempo allegorico e dell’immagine di sé e dell’altro. Circa l’opera di Ontani, quello che sembra interessante riguarda la specifica strategia espositiva all’interno del salone affrescato da Pietro da Cortona. Le ore sono infatti presentate in una modalità inedita sia rispetto a quando sono state esposte per la prima volta alla Galleria L’Attico di Roma, che quando nel 2014 la GAMeC di Bergamo le ha riproposte nella monografica dedicata all’artista.[26] Infatti, nel display espositivo di palazzo Barberini, le opere di Ontani non sono appese o allineate sulle pareti della sala, in una modalità tipica dell’esposizione museale, ma vengono disposte seguendo una forma ellittica al centro dell’ambiente.[27] Il visitatore quindi, per poter fruire di questo montaggio dei vari pannelli, è chiamato ad assumere una modalità di osservazione dinamica in interazione con lo spazio circostante, conforme a quella della poetica barocca che fa reagire il tempo e lo spazio delle immagini con il tempo e lo spazio della visita.

Senza entrare nel dettaglio di ogni singolo riquadro – e con la piena consapevolezza delle sostanziali e ovvie differenze figurative – è allora opportuno riconoscere come nel dialogo che si viene a creare tra l’installazione di Ontani e l’affresco di Pietro da Cortona si sviluppi una modalità di visione contemplativa e durativa in accordo tra loro. Se però la dimensione ascensionale dell’affresco implica una marcata verticalità dello sguardo, la “processione” di immagini di Ontani si caratterizza invece per una spiccata orizzontalità del movimento contemplativo dello spettatore. Questa relazione immanente tra le due pratiche di fruizione, per come fino a qui tratteggiata, diventa pertinente per la nostra analisi in quanto sarà un elemento centrale delle configurazioni aspettuali in gioco nella sala successiva.

È infatti a partire dalla disposizione dei tableaux vivant di Ontani e dalla modalità di visita in cui l’osservatore si trova immerso, che si può riconoscere un prodromo dell’ambiente successivo: la sala ovale di Gian Lorenzo Bernini che dal primo grande ambiente può essere percepita al di là della grande porta che incornicia e magnifica Eco nel vuoto di Giulio Paolini. Una modalizzazione del fare cognitivo del visitatore che gli “permette di compiere idealmente un percorso biunivoco dentro un cannocchiale visivo”[28] generato a partire dal dialogo tra le varie opere che così si costituisce come il fil rouge dell’esposizione, nel complesso gioco di rimandi e implicazioni tipico – come ricorda Lotman (1998) – di un qualsiasi intérieur culturale.

Eco nel vuoto di Giulio Paolini vista dalla sala di Pietro da Cortona

Eco nel vuoto

2.1. La sala ovale

Se già nel grande salone affrescato il visitatore è obbligato a muoversi in maniera ellittica intorno all’installazione di Ontani, nell’ambiente successivo viene a trovarsi all’interno di un vero e proprio spazio ovale.[29] Ma ancora prima di giungervi, Eco nel vuoto di Paolini si manifesta in tutta la sua verticalità.

A questo punto, per meglio comprendere l’insieme che l’esposizione propone, può essere di una certa utilità soffermarsi su quello che anticamente veniva definito “salotto ovale”, realizzato appunto da Bernini intorno al 1634. Il visitatore, non appena varca la soglia di questo originalissimo spazio, prova una specie di stupore e, per un istante, può avere l’impressione di entrare in un ambiente di forma cilindrica; ben presto, però, questa percezione viene sostituita dalla più concreta realtà di uno spazio ovale, uno spazio che attiva un movimento di esplorazione verso il centro, dove si può pienamente entrare in contatto con l’installazione di Paolini.

Pianta della sala ovale di Gian Lorenzo Bernini a Palazzo Barberini

La struttura dell’ambiente architettonico induce così il visitatore a compiere una rotazione che gli consente di appropriarsi e di percepire nella sua interezza l’opera. A questo si aggiunga che Bernini, per quanto concerne la volta ha optato per un semplice intonaco privo di modanature, mentre il pavimento stesso – in pianelle di cotto orientate a 45° – nega l’emergere di assi privilegiati, alla pari delle lesene leggermente concave che si innalzano lungo le pareti. Tutto ciò per non compromettere la lettura complessiva dell’ambiente con sovrastrutture. Nella sala ovale – come si legge nel catalogo dell’esposizione – “si trovava la collezione di Antonio Barberini e si riuniva l’Accademia dei Purpurei Cigni, un cenacolo di intellettuali”; già nel passato dunque era “un ambiente di contemplazione, un luogo fatto per pensare e ragionare sull’arte e la poesia” e che i curatori dell’esposizione ritengono particolarmente adatto a “esporvi ed ammirare Narciso, l’opera guida della mostra, accanto all’installazione di Giulio Paolini che induce alla riflessione”.[30] L’intuizione circa la forza evocativa e allusiva della sala abilita inoltre a riconoscere una forma di continuità con un’altra pianta di forma ovale assai peculiare: la sala di lettura che Aby Warburg progettò per l’Istituto di Amburgo.[31] Riconoscere questa pertinenza tra il valore simbolico della forma-ellisse[32] e il progetto di rintracciare un dialogo tra immagini appartenenti a tempi differenti diventa allora ancor più determinante. Essa autorizza infatti ad assumere una nuova chiave interpretativa della sala ovale di palazzo Barberini che, sulla scorta di ciò che potremmo chiamare genealogia di displaying espositivo, implica nuove salienze. Inscritte in questo spazio, le immagini assumono su di sé nuove quantità di informazione necessarie all’integrazione di nuove e inedite condizioni di significanza.

2.2. L’assemblage di Giulio Paolini

Una volta a contatto ravvicinato con l’installazione, il visitatore può infatti percorrerne tutta la sua estensione: può così constatare che è formata da un “corpo scultoreo” eterogeneo – realizzato anche grazie a specifiche operazioni di rimediazione di immagini del passato – e composto da una grande pietra marcatamente allungata intorno alla quale, sul pavimento, sono disposti sassi e cornici dorate provviste di vetro, ma che non racchiudono alcuna immagine.

Eco nel vuoto, particolare

Al di sopra della pietra, sospesa e a testa in giù, c’è la ninfa oreade Eco, che è una puntuale ripresa dal dipinto realizzato nel 1874 da Alexandre Cabanel.[33] Secondo un fare proprio di Paolini, la ninfa raffigurata nel quadro viene fotografata, stampata in dimensione ingrandita, e poi ritagliata seguendo la longilineità del suo corpo, sottraendola nel contempo al contesto roccioso in cui era originariamente situata. La “nuova” immagine, duplicata e racchiusa nel plexiglas, è appesa con un cavo di acciaio al soffitto, protesa verso la roccia per la riflessione capovolta della figura di Eco.

In basso, invece, insieme alla molteplicità di cornici dorate, vetri e sassi, le fotografie del riflesso di Narciso alla fonte sono riproposte in un numero di volte pari al numero delle cornici sul pavimento e con le stesse dimensioni.[34] Insomma, l’insieme è creato da un’eterogeneità di sostanze dell’espressione, un amalgama di elementi diversi che può essere interpretata alla stregua di un “assemblage”, ovvero – come scrive Francesco Casetti – di “un prelievo da altri contesti, una ricombinazione, [per] la formazione di una nuova entità”.[35]

A tal proposito, si può dunque dire che il rilancio del potenziale semantico dell’attività creativa consente di riconoscere specifiche modalità in grado di generare e sviluppare nuove formazioni di senso. Nuovi linguaggi caratterizzati dalle loro specifiche complessità, che hanno come conseguenza un rinnovamento del significato. Come ricorda con accuratezza ed estrema sintesi Jurij M. Lotman “i rapporti dialogici non sono mai degli accostamenti passivi, ma rappresentano una concorrenza tra lingue, un gioco e un conflitto i cui risultati non sono mai prevedibili fino in fondo”.[36] Quest’idea, che emerge con più chiarezza nell’ipotesi di retoricacome “spostamento di principi strutturali”[37] da una determinata sfera semiotica a un’altra, consente di comprendere ancor meglio l’operazione concettuale sviluppata da Paolini.

Eco nel vuoto di Giulio Paolini e Narciso di Caravaggio

Anche la luce che investe l’installazione sollecita un movimento circolare. Una strategia enunciativa che implica peraltro un fattore temporale caratterizzato da fasi aspettuali proprie della stessa osservazione, tanto che una volta identificato lo stesso dettaglio del riflesso di Narciso alla fonte nelle molteplici fotografie disposte in orizzontale, il visitatore non può far altro che incontrare il quadro di Caravaggio, esposto su un “piedestallo” rasente il muro della sala. Una transizione attualizzata sia dal riconoscimento, sia da un sistema di rime cromatiche: le cornici dorate, seppur vuote, dialogano per forma e colore con il frame che racchiude il dipinto di Narciso, così come il tono scuro del dettaglio del riflesso fotografato crea una risonanza cromatica con quello altrettanto ombroso della rappresentazione caravaggesca.

L’utilizzo delle citazioni pittoriche, i frammenti dell’immagine di Narciso alla fonte, la duplice immagine di Eco – figura a testa in giù e roccia – così come il fenomeno di riflessione proprio dell’eco di cui la ninfa altro non è che la protagonista della favola mitologica da cui il fenomeno prende nome, sono tutti elementi utilizzati per esasperare il gioco del doppio [fig. 6]. Uno sdoppiamento che coinvolge finanche lo spettatore, che può incontrare il suo riflesso nel vetro delle cornici adagiate sul pavimento.

Caravaggio, Narciso, 1597-1599

Davanti al Narciso alla fonte il visitatore è chiamato a sostare, a guardare con scrupolo questo unicum nella storia della pittura e a riconoscere, insieme al cerchio da sempre individuato dalla critica, l’‘ovale’ dell’abbraccio che riecheggia quello dello spazio architettonico in cui è esposto. Un dialogo a più voci, una risonanza tra le varie forme che permette di riconoscere la perfetta sinergia tra pittura e architettura.

Caravaggio elimina ogni riferimento contestuale allo svolgersi della storia e mette l’accento solo sull’aspetto scopico della trasformazione: come in un’istantanea cattura il momento in cui lo stesso Narcisio diventa oggetto del proprio desiderio. In questo stadio il bel ragazzo non è in grado di percepire la cesura tra lo spazio reale e lo spazio virtuale generato dal medium – la sottile pellicola d’acqua; come è stato detto, con un parallelismo anacronico, sembra comportarsi come un giovane passionale che vorrebbe forare lo schermo cinematografico per raggiungere l’eroina del film.[38] Anche nelle Metamorfosi è possibile rinvenire questa peculiare modalizzazione del soggetto, in aggetto verso un altro ideale, che però altro non è un che l’immagine riflessa di Narciso stesso: “O ingenuo, perché ti affanni nel vano tentativo di afferrare un’immagine fugace? Quel che brami non è in nessun luogo; quel che ami, basta che ti volti, e più non ci sarà! Quella che vedi è l’ombra della tua immagine riflessa: essa non ha nulla di suo; con te è venuta e rimane, e con te se ne andrà, casomai tu potessi andar via di qui!”.[39]

2.3. Eco e Narciso nel dialogo anacronico tra mitologia e pittura

C’è ancora un aspetto che merita di essere indagato. Come spiegare la presenza della ninfa Eco all’interno di un’esposizione che vede nel ritratto e nell’autoritratto il suo pivot narrativo? E soprattutto che rapporto intrattiene Eco con il Narciso alla fonte di Caravaggio collocato nella stessa sala? Per comprendere una siffatta “convivenza” occorre sia tornare alle Metamorfosi sia indagare nella produzione pittorica romana del XVII secolo, nella quale si evidenzia un interesse per la rappresentazione della Ninfa.[40]

Ovidio, pur intrecciando il mito di Eco e quello di Narciso, fa evolvere le due favole secondo una precisa sequenzialità: la storia di Eco si conclude con la sua metamorfosi in roccia in un tempo antecedente a quello della trasformazione di Narciso in fiore. Due miti “incassati” l’uno nell’altro che esplicitano due modi di intendere l’identità: quella di Narciso, che non è in grado di riconoscere l’alterità,[41] l’altro da sé, e quella opposta di Eco la cui esistenza è solo in funzione dell’alterità, della parola pronunciata da altri.[42]

Già queste considerazioni evidenziano come Paolini, dovendo rapportarsi con il Narciso alla fonte, lo faccia convivere con Eco, agglomerando due storie avvenute in tempi diversi, ma che condividono il fenomeno del riflesso: quello visivo nel primo caso, quello sonoro nel secondo, l’imago e l’imago vocis.

Nicolas Poussin, Narciso e Eco, 1630 circa

Un’analoga convivenza di più temporalità differenti annovera almeno un predecessore: le peintre philosophe Nicolas Poussin. Durante il suo soggiorno romano, il pittore francese ha realizzato un dipinto – oggi conservato al Louvre – in cui Narciso, in primo piano è sdraiato pressoché privo di riflesso, esangue se non addormentato, con i fiori che portano il suo nome già presenti intorno alla testa; Eco, in secondo piano, sta fondendosi con il suo supporto, come conferma il cromatismo dei suoi arti inferiori del tutto analogo a quello della roccia cui è appoggiata.[43] Due protagonisti rappresentati sulla soglia della trasformazione, del tutto privi di relazioni fra di loro, in cui figura un terzo attore, Cupido, tra l’altro non menzionato nelle Metamorfosi ovidiane, ma vivo e all’origine di queste due storie d’amore, raffigurato con la fiaccola funebre e con solo la tracolla di un’invisibile faretra. In una stessa immagine allora convivono diverse temporalità giustapposte secondo la logica della condensazione e non nel rispetto della narrazione ovidiana.

Nicolas Poussin, Narciso con due Ninfe ed Eco, secondo terzo del XVII secolo

Il riferimento a Poussin non è affatto casuale; l’artista francese è uno dei frequenti riferimenti di Paolini, come testimoniano le numerose riprese riscontrabili nella sua produzione[44]. E allora come non inserire in questa filiera anche un altro dipinto attribuito a Poussin e con il medesimo soggetto di quello del Louvre – ora conservato a Dresda –, decisamente ancor più popolato di personaggi mitologici e non solo, ma con Eco praticamente già pietra; dello stesso colore del masso cui è appoggiata, questa roccia presenta un contorno che sembra riecheggiare quello proprio dell’installazione di Paolini. Che a Roma appunto dispone, in alto, la figura di Eco capovolta e in basso, la roccia: un modo per dare forma alla metamorfosi della Ninfa. A questo proposito in Ovidio si legge che nella sua qualità di amante respinta, Eco si nasconde nel bosco, ma “l’amore le resta appiccicato addosso e cresce per il dolore del rifiuto: gli affanni la costringono all’insonnia e ne fiaccano il misero corpo [al punto che ne] rimane la voce e, a quel che dicono, le ossa presero l’aspetto di sassi”.[45]

Oltre il masso centrale, anche i sassi dell’installazione di Paolini sono riconducili alla favola ovidiana e probabilmente non si è in errore pensando la reiterazione dell’immagine del riflesso di Narciso come “un amore appiccicato addosso”.

Attraverso l’attivazione di questo dialogo con le immagini del passato è allora possibile tentare di cogliere con maggior chiarezza la complessità del lavoro di Paolini. Se i dipinti di Poussin consentono di comprendere più chiaramente il lavoro concettuale alla base dell’istallazione Eco nel vuoto, è necessario riflettere sul dialogo in preasentia, reso possibile dal display della mostra a palazzo Barberini con il Narciso alla fonte. La figura del bel Narciso proietta sull’opera di Paolini il tema antropologico del doppio: una duplicazione che Caravaggio ha sviluppato nell’abbraccio tra Narciso e la sua figura riflessa nell’acqua e che ritroviamo in forma analoga nella figura di Eco che precipita dall’alto nella pietra in cui viene trasformata. Così come Narciso, innamorato della sua immagine, non potrà che accogliere la morte come unica condizione di un amore impossibile, allo stesso modo Eco, morente e con un amore non corrisposto, viene posta in proiezione con la pietra di cui assume la forma.

Un duplice processo di rispecchiamento/rovesciamento tra loro in relazione dialogica grazie alla loro prossimità nello spazio della sala. Eco e Narciso, nella sofferenza di un amore negato sono condotti a uno stesso destino di morte; un’assonanza che aleggia nella forma ellittica del salone, in un gioco di continui e molteplici riflessi in cui il visitatore è inscritto e chiamato a sua volta a prender parte qualora si rispecchi nel vetro delle cornici a terra, a fianco dei numerosi riflessi fotografati del bel giovane alla fonte posti sul pavimento.

Meritano ancora una considerazione le cornici con vetro che non paiono esaurire il loro significato nella possibile riflessione del visitatore. Spostando l’asse del discorso sulla dimensione della “pittura” non è possibile trascurare il fatto che Narciso è – come già afferma Leon Battista Alberti – “il vero scopritore della pittura [perché] che altra cosa è il dipingere […] che abbracciare e pigliare con l’arte quella superficie del fonte?”.[46] Ma come rendere duratura un’immagine imperitura e priva di margini come è quella della riflessione alla fonte? Semplicemente trasponendola in pittura e incorniciandola: si avrà a tutti gli effetti un quadro destinato a durare nel tempo, esattamente come quello di Caravaggio. Come sostengono i curatori della mostra: “ripensando a Paolini e alla sua poetica, qui siamo di fronte non solo a un’allegoria della pittura ma anche all’allegoria della figura dell’artista, come Narciso condannato a inseguire un’immagine, un riflesso, un’illusione e alla fine destinato a un’eterna solitudine, al riflesso di sé nel suo stesso sguardo”.[47]

Per concludere

Nel percorso fin qui tracciato è possibile allora riconoscere come alla base della costruzione di un’opera d’arte si possono riconoscere relazioni strutturali che ne caratterizzano la sua complessità. Elementi, in altre parole, che determinano sempre specifiche relazioni significanti a partire da “condensazioni temporali che – come ricorda anche Angela Mengoni[48] – non sono frutto della mera legittimazione diacronico-filologica, ma sono attivate dall’oggetto stesso ed in esso inscritte”. 

Nella mostra a palazzo Barberini – come abbiamo visto – è proprio il display espositivo a farsi generatore di una inedita dinamicità che si arricchisce nella dialettica tra immagini appartenenti a tempi differenti. Se, infatti, la grandiosità del soffitto della prima sala – concepita da Pietro da Cortona come grande macchina barocca – entra in sintonia con Le ore di Luigi Ontani in un montaggio contrastivo tra l’assenza e la presenza del soggetto rappresentato; la seconda sala, con il lavoro di Giulio Paolini insieme al Narciso alla fonte crea un dialogo in forte analogia con il “bel composto”. Un’integrazione delle arti – stando a quanto afferma Filippo Baldinucci – che è già stata, non a caso, inventa da Gian Lorenzo Bernini. E che trova un’aggiornata riproposizione proprio nella sala berniniana del palazzo romano: uno spazio architettonico autonomo e ovale, il cui interno è animato da “corpi dipinti […], di stucco e di carne”, di cornici, di immagini fotografiche, ecc., in un montaggio che transita da “una componente all’altra del ‘composto’ [accogliendo] lo sviluppo irregolare e continuo di un processo”.[49] Ovvero con qualcosa che – come scrive Hubert Damisch:

è più vicino a ciò che un uomo di cinema come Ėjzenštejn ha chiamato il “montaggio delle attrazioni”: ovvero una sequenza calcolata che mette in gioco elementi eterogenei, tanto per la loro sostanza che per il loro modo di fare appello ai sensi o all’intelletto per farli concorrere a una sintesi espressiva che mira ad agire sullo spettatore, a manipolarlo, a muoverlo, ad “agitarlo”.[50]

Il secondo ambiente dell’esposizione romana, infatti, si propone come un canto dove la voce dell’architettura, della pittura, quella dell’installazione-scultura e della fotografia sono perfettamente sincronizzate. Un’interrelazione così forte da farla sembrare un unico coro che – si potrebbe dire – opera alla stregua di un girotondo delle muse.[51]

Più precisamente, la combinazione e il montaggio di espressioni artistiche differenti e con temporalità multiple cooperano per sviluppare nuove configurazioni passionali in cui il visitatore si trova immerso. Ma, occorre dire che è la stessa poetica di Paolini ad attribuire al fruitore un compito attivo in cui lo sguardo puramente contemplativo non è sufficiente. Nella sua produzione in generale, e nell’installazione Eco nel vuoto in particolare, si attiva una riflessione sul significato e sul lavoro progettuale rispetto al quale lo spettatore non può rimanere passivo, deve partecipare attivamente entrando nel processo creativo. 

Partendo dal tema “ritratto e autoritratto” il display della mostra dischiude nuovi rapporti e nuove costellazioni di senso. Sono allora le parole Paolo Fabbri che esplicitano il progetto alla base delle nostre considerazioni:

La struttura che definisce il testo estetico non è necessariamente argomentativa, non segue modalità e logiche tipiche del ragionamento predicativo: […] se alla base della razionalità classica risiede il sapere legato alla conoscenza delle cause – scire est per causas scire – noi diciamo piuttosto: sapere è sapere secondo il senso.[52]

La relazione che si crea tra le varie opere nella sala ovale allora si fa portatrice di un conflitto tra le varie temporalità in grado di rilanciare il senso delle fatali attrazioni di Eco e Narciso che dal mito ovidiano si riverberano nel contemporaneo della mostra a palazzo Barberini.

L’articolo è stato pensato ed elaborato insieme dai due autori: “In apertura “e i paragrafi 2.2., 2.3. sono stati scritti da Lucia Corrain; i paragrafi 1.1., 1.2. e 2.1 e “Per concludere” da Mirco Vannoni.

Riferimenti bibliografici:

Alberti, L.B., 1435, De Pictura, a cura di Cecil Grayson, Laterza, Bari 1973.

Baldinucci, F., 1682, Vita del cavaliere Gio. Lorenzo Bernino, scultore, architetto, e pittore, Vincenzio Vangelisti, Firenze.

Benjamin, W., Passegenwerk, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1982; tr. it. I «Passages» di Parigi, 2 voll., Einaudi, Torino 2000.

Bettini, M., Pellizer, E., 2003, Il mito di Narciso. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino.

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Note:

[1] Bettini, Pellizer 2003.

[2] Settis 2020 p. 9; p. 11.

[3] Nel 1949 lo Stato italiano acquista Palazzo Barberini, il palazzo però era già in parte occupato dal Circolo Ufficiali delle Forze Armate. Dopo circa settant’anni e dopo numerosi nonché fallimentari vani tentativi di conciliare le esigenze dell’arma e del museo, si è giunti finalmente a una risoluzione del problema: la Galleria d’Arte Antica di Palazzo Barberini può nuovamente disporre di tutto lo spazio dell’omonimo palazzo. Undici sale, restaurate tra il 2015 e il 2017, per oltre 750 metri quadri di percorso espositivo, che si affacciano sui giardini dell’edificio.

[4] Per maggiori dettagli si veda, in questo volume, il contributo di Anna Coliva.

[5] In relazione all’esposizione di Mat Collishaw, cfr. Corrain, Mosca 2019. Per il 2020 era progettata l’esposizione di Damien Hirst, che la pandemia ha fatto slittare a data da destinarsi.

[6] Cfr. Hersant 2010, p. 23. Addirittura, il pubblico non ha apprezzato i lavori di Jeef Koons, tanto da criticarne sia le forme (animali gonfiabili, treno scintillante, ecc.) che i materiali (lustrini, superfici riflettenti, ecc.), incapaci di relazionarsi con gli spazi densi di manufatti artistici della reggia francese.

[7] Ivi, p. 25.

[8] L’attribuzione a Caravaggio spetta allo storico dell’arte Roberto Longhi (1951). I particolari esecutivi emersi nell’ultimo restauro hanno messo in luce tecniche proprie dell’artista lombardo, così come i confronti con altre opere autografe di Caravaggio e la novità dell’iconografia – basata sull’invenzione della doppia figura a carta da gioco di cui è perno ideale il ginocchio in piena luce – fanno propendere che Narciso sia un’opera di Caravaggio (Vodret 1996), riconducibile a quel periodo ancora non del tutto chiarito della sua attività databile tra il 1597 e il 1599.

[9] Le altre sale del percorso espositivo erano così articolate: nella sala dei Paesaggi erano esposti tre lavori di Maria Lai, Bisbigli, Il viaggiatore astrale, Terra; nella sala delle Cineserie trovavano posto il Filosofo di Luca Giordano e Untitled (exstensions) #X e Luis di Markus Schinwald; nell’appartamento d’estate il Ritratto di Stefano IV Colonna di Bronzino, il Ritratto di Enrico VIII di Hans Holbein il giovane e Melville e Butor di Richard Serra; nella sala del Trono il Ritratto di Beatrice Cenci attribuito al Guercino con Illusions & Mirrors di Shirin Neshat; nella sala delle Udienze l’Allegoria dei quattro elementi e Ritratto femminile di Rosalba Carriera e Giovane donna con specchio, tre Teste di donna, una Giovane donna con specchio di Benedetto Luti, tutti disposti alle pareti in relazione con le piccole sculture Large dessert di Kiki Smith; nell’appartamento d’inverno, sala 10, il Nudo femminile di schiena di Pierre Subleyras con SBQR, netnude, gayscape, orsiitaliani, etc… di Stefano Arienti; nella sala 11, Ritratto della famiglia Quarantotti di Marco Benefial e Invisible Man di Yinka Shonibare Mbe; nella sala 12/13, Maria Maddalena di Pietro di Cosimo, La Fornarina di Raffaello con Bent and Fused di Monica Bonvicini; e nella sala dei marmi il Ritratto di papa Urbano VIII di Gian Lorenzo Bernini con Pape e Mao  di Yan Pei-Ming.

[10] Lotman 1998, pp. 23-34.

[11] Ganz 2013, p. 71.

[12] Borgherini, Mengoni 2016, p. 9.

[13] Cfr. Potts 2010; Zucconi 2019.

[14] In merito a un contributo teorico su questo dispositivo di fruizione cfr. Marin 1982; Damisch 2007.

[15] Benjamin 1982, pp. 518-519. Al riguardo cfr. anche Didi-Huberman 2000.

[16] Al tempo stesso fotografo, pittore e sculture, nasce nel 1943 a Vergato, Luigi Ontani studia all’Accademia di Belle Arti di Bologna e inizia la sua carriera negli anni ’70. Centrale nella sua produzione artistica l’attenzione alle pratiche performative – fotografate e filmate – che funzionano come veri e propri tableaux vivants in cui è l’artista stesso a essere il soggetto rappresentato, mascherato da varie figure della cultura alta e bassa, religiosa e non, e in cui il rapporto tra narcisismo e ironia sono la manifestazione, in estrema sintesi, dell’attitudine prioritaria del suo agire artistico (cfr. Giambrone 2019). Il medium fotografico, quale mezzo espressivo privilegiato del suo lavoro, è lo strumento capace di documentare le sue performance artistiche, tradotte – appunto – in fotografie che possono essere declinate in formati diversi, recuperando una pratica che dal vivo può trovare un antecedente nelle sacre rappresentazioni, nelle interpretazioni viventi dei vangeli, o addirittura nei trionfi allegorici del Rinascimento e del Barocco. Ai suoi lavori, inoltre, attribuisce titoli che dialogano con l’arte del passato: a titolo di esempio: San Sebastiano nel bosco di Calvenzano d’après Guido Reni (1970), Meditazione après de la Tour (1970), Déjeuner sur l’ArT (1992). Nella sua produzione più recente la “citazione” viene individuata nell’arte extra europea, indiana in particolare. L’artista reinterpretando oggetti artistici lontani per tempo o per luoghi riattualizza forme di celebri dipinti del passato o mitologici, mettendo in atto la logica dell’essere altrove, dove il corpo dell’artista è il soggetto per eccellenza, recuperando così il tema del ritratto/autoritratto che a partire dalla tradizione classica pervade tutta l’arte. Cfr. Di Giannantonio 2003 e sull’autoritratto Calabrese 2010.

[17] Nato a Genova nel 1940, Giulio Paolini è un artista, sculture e pittore la cui ricerca e produzione sono ascrivibili all’arte concettuale. La sua produzione inizia a partire dagli anni ’60 e si contraddistingue per un marcato interesse circa lo spazio della rappresentazione, le componenti stesse del quadro e quella che potremmo chiamare la “cassetta degli attrezzi” del pittore, come le opere Disegno geometrico (1960) e Senza titolo (1961) consentono di riconoscere (cfr. Calvino 1975). Una ricerca che andrà avanti in forme inedite a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, in cui prendono avvio i primi esperimenti realizzati grazie all’uso della fotografia e che lo abilitano a sviluppare con maggior puntualità un tema che sarà centrale nella sua poetica: il rapporto opera-spettatore. Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967) o L’ultimo quadro di Diego Velázquez (1968) non sono che tra le più celebri elaborazioni a mezzo fotografico di questo progetto di ricerca su e con l’immagine. Mentre sarà nel periodo degli anni ’70 e ’80 che nella ricerca di Paolini, oltre al tema della citazione e dell’autocitazione, emergerà l’interesse intorno a una riflessione sull’idea di ‘copia’ e di ‘doppio’ e che negli anni ’90 lo porterà a focalizzarsi sullo spazio espositivo inteso come un vero e proprio ‘teatro dell’opera’. L’autorialità, la posizione dell’artista come spettatore e l’idea che l’opera sia al contempo precedente e successiva all’autore stesso che la produce, caratterizzano invece i lavori dei primi anni 2000 (cfr. Celant 2003), ma altro non sono che l’estrema manifestazione della sua poetica in cui l’artista si sottrae all’egotica magnificenza dell’io, favorendo piuttosto un’istanza collettiva – gli artisti passati e quelli che verranno – in cui potersi riconoscere. Si veda, a tal proposito Giulio Paolini, Qui e Ora (2013) o la mostra “L’autore che credeva di esistere” in cui il tema della soglia e della cornice assumono un ruolo centrale e una marca inconfondibile del suo fare artistico. Cfr. il sito della fondazione Giulio e Anna Paolini con ampia bibliografia e catalogo delle opere (consultato il 15 novembre 2020).

[18] Celant 2003, p. 70.

[19] Paolini 2010, p. 14.

[20] Pietro Berrettini da Cortona (1596-1669), pittore e architetto toscano, attivo a Roma già dal 1612, realizza la decorazione della volta di Palazzo Barberini dal 1632 al 1639 (cfr. in particolare il sempre attuale Briganti 1962).

[21] Ivi, p 58.

[22] Cfr. Marin 1989, pp. 21-56.

[23] Sullo statuto semiotico dello spettatore si rimanda cfr. Fontanille 1989; ma la tematizzazione dello sguardo come problematica che si consolida soprattutto a partire dal XVII secolo è centrale anche nel lavoro di Stoichita 1993; 2017. E, infine, come non tenere conto dello statuto dei regimi scopici all’interno dei più recenti studi di cultura visuale, cfr. Crary 1990; Pinotti, Somaini 2016.

[24] Per un approfondimento circa la tematica cfr. tra molti altri Wittkower 1958; Portoghesi 1973.

[25] Esposto, nel 1976, alla Galleria L’Attico di Roma, in una mostra in cui le ventiquattro pose fotografiche venivano proiettate, ‘materializzandosi’ nell’ora del giorno corrispondente a quella segnata dall’orologio rappresentato in ognuna delle immagini.

[26] Cfr. Di Gianantonio 2003.

[27] Come ricorda Cortellessa (2018, p. 14), Le ore di Luigi Ontani sembrano ‘rincorrersi’ dando luogo a “una Narcisata di Archetipi tanto della mitologia che della storia dell’arte”.

[28] Gennari Santori, Pietromarchi 2018, p. 33.

[29] Per Zuccari “la pianta ovale, graziosissima tra le altre, eletta per più propria convenienza, avanza di gran lunga tutte le altre forme e similitudini proposte da Vitruvio e da altri eccellenti ingegni nel formar templi”, citato in Fasolo 1931, p. 310; cfr. anche Colonnese 2012.

[30] Gennari Sartori, Pietromarchi, 2018, p. 33.

[31] Sulla Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg di Amburgo cfr. Calandra di Roccolino (2014); Gombrich (1970).

[32] Come ricorda anche di recente Cometa (2020, p. 155), la sala ellittica dell’Istituto Warburg “sintetizzava in una forma molte delle questioni teoriche e delle ispirazioni che egli aveva collezionato sin dagli anni del viaggio in America”. Si pensi anche solo alla continuità tra il valore cosmologico e religioso della kiva degli indiani Hopi, sì centrale anche per il rituale del serpente (Warburg 1988) e la sala di lettura dell’Istituto, in cui i testi contenuti erano orientati a uno studio della storia dell’arte all’interno di una più vasta e ampia storia culturale. Sulla specificità della forma-ellisse bisogna infine specificare la stringente relazione che Warburg rintraccia, su suggerimento di Ernst Cassirer, con il pensiero matematico e la geometria di Keplero (cfr. Jesinghausen-Lauster 1985 ripreso da Cometa 2020).

[33] Alexandre Cabanel (1823-1889), pittore di genere e di storia francese. L’opera Eco (1874) raffigura la ninfa più pettegola e chiacchierona che vi fosse. Punita da Era per la sua loquacità e l’inganno con cui voleva nasconderle le continue avventure clandestine di Zeus con le altre ninfee, si ritroverà praticamente muta, con la sola possibilità di ripetere gli ultimi suoni delle parole da lei udite.

[34] Compongono la site-specific:2 fotografie montate tra sagome di plexiglass cm 131.5×62; cavo di acciaio; 15 pannelli fotografici cm 40×60 cadauno, 15 cornici dorate cm 40×60, pietre artificiali: masso cm 173x94x68, frammenti di misure variabili.

[35] Casetti 2015, p. 130.

[36] Lotman 1998, p. 42.

[37] Ivi, p. 110.

[38] De Riedmatten 2011, p. 28.

[39] Ovidio I sec., p. 177.

[40] L’interesse verso la ninfa Eco si manifesta nel milieu intellettuale romano e parigino attraverso le figure di Atanasio Kirkner, Joseph Blanchar, Marin Mersonne, scienziati che lavorano sulle caratteristiche acustiche del suono. Cfr. Cousiniè 1996, pp. 302-303 e Gozza 2003.

[41] Sul discorso della costruzione dell’altro cfr. Stoichita 2014.

[42] Ovidio così narra: “Un giorno, mentre spaventava i cervi per spingerli nelle reti, lo vide una ninfa dotata di una voce che non sapeva tacere quando uno parlava né per prima sapeva lei stessa prendere la parola: era Eco che risponde suono ai suoni. A quel tempo Eco era ancora un corpo, non solo una voce; e tuttavia la sua loquacità aveva già la modalità che ha ora: di molte parole non rimandava che le ultime. Questo fatto si doveva a Giunone, poiché tante volte Giunone avrebbe potuto sorprendere le ninfe a far l’amore sui monti col suo Giove, se quella furbacchiona non l’avesse intrattenuta con lunghi discorsi, per dar tempo alle ninfe di fuggire. Sicché, quando la figlia di Saturno se n’accorse, sentenziò: ‘Di questa lingua che mi ha ingannato potrai disporre poco: farai della voce un uso più che breve’. E alle minacce fece seguire i fatti: solo quando uno finisce di parlare, Eco può emettere suoni e deve limitarsi a ripetere le parole udite” (Ovidio I sec., p. 169).

[43] Oltre a Marin 1995, p. 172; cfr. anche Iarocci 2012.

[44] Molti sono gli artisti del passato che trovano un’eco nella produzione di Paolini, ma Nicolas Poussin è presente con maggior continuità: dall’autoritratto del pittore francese al Louvre, a Flora e ad altri. In Andrea Cortellessa (2019) viene indagato in maniera approfondita il rapporto che Paolini costruisce con l’opera di Giorgio de Chirico, mentre sempre Cortellessa (2020) nelle articolate considerazioni che mette a punto a partire da un’esposizione intitolata “Sale d’attesa” (Londra, Repetto Gallery), ricostruisce il “pantheon” artistico e letterario che riecheggia nella complessiva produzione di Paolini (Calvino, Borges, Blanchot, Velazquez, Fontana, ecc.). 

[45] Ovidio I sec., p. 171.

[46] Alberti 1436, p. 39.

[47] Gennari Sartori, Pietromarchi 2018, p. 33.

[48] Mengoni 2013, p. 12

[49] Baldinucci a proposito del bel composto berniniano scrive (1682, p. 67): “È concetto molto universale ch’egli sia stato il primo [Bernini], c’abbia tentato di unire l’architettura colla scultura e pittura in tal modo che di tutte si facesse un bel composto; il che egli fece non togliere alcune uniformità odiose di attitudini, rompendo talora, senza violarle le buone regole, ma senza obbligarsi a regola: ed era suo detto ordinario in tal proposito, chi non esce talvolta dalla regola non la passa mai”. Sul bel composto cfr. Careri 1991, pp. 5-6.

[50] Damisch 1991, p. 2.

[51] “Il girotondo delle Muse” è un’espressione presa a prestito dal titolo di un libro italiano di Lotman (1998).

[52] Da un intervento a I mercoledì di Santa Cristina, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, a cura di Lucia Corrain, 14 marzo 2019.

LUCIA CORRAIN insegna Semiotica dell’arte al corso di laurea Dams e Semiotica del visibile al corso di laurea magistrale in Arti Visive dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca si concentrano sul linguaggio delle arti figurative in generale e della pittura in particolare: come comunica un’opera d’arte, come interpella l’osservatore, che sensazioni suscita in chi la guarda, sono solo alcuni degli aspetti che essa studia in ambiti che spaziano dall’arte antica a quella contemporanea. Ha pubblicato in numerose riviste italiane e internazionali (“Versus”, “Visio”, “Visible”, “Degrée” e molte altre); tra i suoi libri: "Semiotica dell’invisibile. Il quadro a lume di notte" (Bologna, 1996) e "Il velo dell’arte. Una rete di immagini tra passato e contemporaneità" (Firenze, 2016).
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MIRCO VANNONI è dottorando in Scienze della cultura all’Università di Palermo. Ha studiato Comunicazione, Lingue e Culture all’Università di Siena e Semiotica all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla semiotica della cultura e sugli studi di teoria dell’immagine e della rappresentazione. In particolare, si interessa delle forme della ricezione di testi visivi e mediali, narrazioni sociali e potere. È tra i collaboratori/trici del Centro di Ricerca Omar Calabrese di Semiotica e Scienze dell’immagine (CROSS). Fa parte del comitato organizzativo di RiFestival – Un altro mondo è possibile e del Festival dell’Antropologia.

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