A Palazzo Barberini è l’ora dello spettatore
Non credo sia così consueto trovare nei musei italiani dedicati all’arte dell’età tardo medievale e moderna – per intenderci, che si occupano del periodo che va dal Trecento al Settecento – delle mostre che tentino di offrire narrazioni differenti da questioni di carattere filologico o che esulino dalla ricostruzione cronologica della vita di un dato autore o di un determinato momento storico-artistico identificabile da più o meno accettate etichette stilistiche. Non è certo un segreto che nel nostro paese letture degli oggetti artistici e dei contesti di produzione che tentino una riflessione sullo statuto dell’opera d’arte o dell’immagine di per sé sono generalmente visti con sospetto, sia in ambito accademico che istituzionale; figuriamoci dedicare una intera mostra al ruolo “agente” dell’immagine e del ruolo dello spettatore come “vittima” di tale potere che le immagini hanno su di noi.
Questa è stata la prima impressione che ho avuto quando ho visitato L’Ora dello spettatore. Come le immagini ci usano, la mostra in corso fino al 5 aprile 2021 nella sede di Palazzo Barberini delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, a Roma. La mostra, a cura di Michele Di Monte, miscela in maniera equilibrata opere della collezione Barberini Corsini e prestiti di importanti musei europei e si inserisce in una serie di iniziative volte alla valorizzazione della raccolta per mezzo di continue rimesse in gioco che sovente assecondano “conversazioni” con altro da sé, seguendo una linea curatoriale che Flaminia Gennari Santori – la direttrice delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini – nell’introduzione del catalogo (Campisano Editore, Roma, 2020), rimanda a una forma di institutional critique.
La mostra indaga il ruolo fondamentale che assume chi guarda un’opera d’arte, in particolare tra Seicento e Settecento, che sono poi le epoche in cui Victor Stoichita situa uno dei momenti salienti della “nascita del quadro”, ma anche quelle che nutrono il fuoco delle collezioni del museo romano. Le opere scelte sono state selezionate quasi a rispondere all’interrogativo posto nel 2005 da W.T.J. Mitchell, uno dei padri della moderna Cultura Visuale: che cosa vogliono le immagini? A ben vedere, le immagini ci spiano e agiscono su di noi; ci chiedono di essere complici di una scena proibita o privata; si svelano e svelano l’inganno e la loro artificialità (ceci n’est pas une pipe); tematizzano lo sguardo e il guardare; ci ricordano che siamo osservatori indiscreti e stimolano il voyeurismo morboso (sia per il sesso che per la violenza) che – volenti o nolenti – ci caratterizza come umani.
Chiedendoci di spostare l’attenzione dal “cosa rappresentano” al “cosa vogliono”, Mitchell ci invita a pensare le immagini come soggetti animati, dotati di individualità. Sullo stesso piano si situa la teorizzazione dell’atto iconico di Horst Bredekamp riconoscendo all’immagine lo statuto di vero e proprio soggetto, un “io” che la rende oggetto dotato di autonomia vivente. E del resto, come ricorda Federico Vercellone nell’introduzione all’edizione italiana di Immagini che ci guardano dello studioso tedesco (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015), già Klee, nel 1924, ammoniva che sono le immagini a posare il loro sguardo su di noi e non il contrario.
La mostra è un piccolo gioiello per chiarezza espositiva di temi e allestimento; piccolo perché è un’esposizione di dimensioni contenute (finalmente!), elemento che, dal mio punto di vista, è motivo di estrema positività. Trovo che una mostra piccola, con poche ma puntuali selezioni, permetta di arrivare subito al cuore della questione e, soprattutto, che lasci portare con sé il ricordo quasi preciso di ogni dettaglio, una modalità di fruizione che si addice a una rassegna come questa. Per motivi professionali mi sono trovato spesso a Palazzo Barberini e ho avuto l’occasione, quando potevo, di passeggiare più volte tra le opere de L’ora dello spettatore, constatando che l’attrazione di alcune immagini è stata per me talmente magnetica da spingermi a voler tornare a soffermarmi su di esse anche solo per qualche minuto; infatti, questi ritorni sul luogo del delitto erano per lo più mirati a singoli dipinti.
Si tratta di quattro opere che sono – dal mio personalissimo punto di vista – i capisaldi dell’esposizione e del bel catalogo che l’accompagna, poiché condensano in loro in maniera paradigmatica tutti i temi che vi sono trattati e che scandiscono il percorso, come gli atti di una pièce teatrale: l’attesa del pubblico, la soglia, la passione dello sguardo, l’appello, l’indiscreto, il complice, il voyeur.

Il mondo novo di Giandomenico Tiepolo (1765 ca., Museo del Prado)
Vera e propria ouverture della mostra, la tela di Giandomenico Tiepolo, che ripropone in chiave minore i celebri affreschi realizzati nella foresteria di Villa Valmarana (1757) e poi nella Villa Tiepolo di Zianigo (1791, ora al Museo di Ca’ Rezzonico a Venezia), rappresenta una delle prime e originali declinazioni moderne della Rückenfiguren (figure di spalle) che sarà tra i temi dominanti della pittura del XIX secolo – come ben contestualizzato nella scheda di catalogo firmata da Luca Esposito – nella quale il ruolo dello “spettatore interno” assumerà una posizione sempre più centrale in opere dove la tematizzazione dello sguardo e dello statuto stesso del dipinto e del dipingere saranno fondamentali. Il soggetto della tela è appunto una folla di figure, tutte di spalle o con i volti coperti, accalcati per osservare un “cosmorama”, antenato del “panorama”, uno di quei dispositivi pre-cinematografici che permettevano di osservare mondi nuovi attraverso una serie di illusioni ottiche. Chi esamina questa schiera di schiene diventa uno spettatore di spettatori, ma a differenza di molti degli “spettatori interni” di una immagine, questi non fungono da veicolo per lo “spettatore esterno” poiché non vi è nessuna possibilità di vedere i “mondi nuovi” che sono l’oggetto dell’osservare, al contrario di come invece un secolo più tardi Édouard Manet farà in Vue de L’Exposition Universelle de 1867 (Nasjonalmuseet, Oslo), se pensiamo a un’opera che tematizza lo spettatore e comunque legata a un visione “panoramatica” (Walter Benjamin). In questo senso, il “tableautin” di Tiepolo non è altro che la rappresentazione del mero essere spettatore e il “mondo novo” diventa, metaforicamente, all’interno del percorso espositivo, il “mondo nuovo” dello spettatore, per il quale è arrivato il momento di essere protagonista di una mostra. Non sembra infatti un caso che esattamente di fronte alla piccola tela si trovi uno specchio, a ricordare questo ruolo centrale di chi guarda.

Ritratto di Ferdinando I de’ Medici di Scipione Pulzone (1590, Gallerie degli Uffizi)
Sebbene la star della sala dedicata alla Soglia sia – giustamente – la Ragazza in cornice di Rembrandt (1641, Varsavia, Castello Reale – Museo Varsavia), personalmente sono rimasto ipnotizzato dal grande Ritratto di Ferdinando I de’ Medici di Pulzone o meglio dal dettaglio che lo connota, vale a dire dal lembo di tessuto in alto a sinistra. La presenza di quel drappo, infatti, denuncia in maniera spudorata la finzione dell’immagine, sdoppiando di fatto il quadro, e avvertendoti che quello che vedi, tu spettatore, non è Ferdinando I, ma il suo simulacro. Certamente, in questa operazione metapittorica si cela un’allusione al celebre passaggio di Plinio sulla competizione tra Zeusi e Parrasio e all’abilità del secondo di rendere mimeticamente un tessuto, tanto da doverlo toccare per scoprirne l’inganno. In questi termini, sembra che il Gaetano volesse sottolineare tutta la sua abilità tecnica nel gareggiare con la natura, tanto da doversi sentire in obbligo di ricordare a chi guarda di trovarsi davanti a una superficie pittorica.
Il rapporto tra il rappresentato e il reale, il confine – la soglia – tra il piano dell’immagine e quello della vita è il tema portante della citata Ragazza in cornice, ma anche delle altre opere presenti, soprattutto laddove la tenda si presenta come dispositivo di separazione tra i due mondi, echeggiando allo stesso tempo lo svelamento dei dipinti che materialmente avveniva nelle case dei collezionisti, dove i quadri erano spesso coperti da drappi e tessuti.

Venere, Marte e Amore di Guercino (1633-34, Gallerie Estensi di Modena)
L’amore è una ferita del cuore che passa dagli occhi, ci dice Guercino con il suo dipinto. In questa celebre opera della maturità dell’artista emiliano, lo spettatore è indicato due volte, dal dito di Venere e dalla freccia di Amore (magnificamente in asse prospettico con chi guarda), metafora dello sguardo che cattura e fa innamorare; un amore sensuale e fedifrago, si direbbe, non esente da pericolo, come sembra annunciare l’irruzione a sorpresa di Marte nel fondo. In quest’opera, in maniera molto più forte delle altre, l’appello allo spettatore è imperativo e potente: non solo le immagini ti guardano, ma ti ricordano che sei parte integrante di quel sistema di relazioni che si crea tra il mondo reale e quello dell’immagine; è un dialogo silenzioso tra “io” immagine e “tu” osservatore, al centro della maggior parte delle opere qui esposte.
La rottura della quarta parte è la strategia compositiva che l’artista è solito utilizzare per richiamare l’attenzione dello spettatore, per renderlo complice o per ricordargli che è una presenza indiscreta. È un modo di chiamare in causa il pubblico, coinvolgendolo e non lasciandolo passivo, che anticipa soluzioni poi adottate anche nello spettacolo, nel cinema e oggi nelle serie TV (indicativa l’interlocuzione visiva con lo spettatore della protagonista della commedia Fleabag, 2016-2019).

In questo senso, lo spettatore che guarda Giuditta e Oloferne di Johann Liss (1622, Londra, National Gallery), può sentirsi un ospite indiscreto, salvo accorgersi dopo un po’ che, a stretto contatto con l’evento, egli è, piuttosto che un testimone, il primo complice del delitto, talmente vicino che quasi il sangue zampillante dal collo decapitato lo colpisce in pieno. Una scena così cruenta, non solo in termini di rappresentazione, ma anche di emozioni, porta l’attenzione anche sull’attrazione quasi voyeuristica nei confronti della violenza che – al pari della sensualità – da sempre connota lo sguardo umano (soprattutto maschile) e che rappresenta la spinta stessa della rappresentazione e della presentazione emotivamente coinvolgente, come dimostra, del resto, l’iconografia dell’Ecce homo.

Nudo femminile di schiena di Pierre Subleyras (1735-40, Barberini Corsini Gallerie Nazionali)
Tra i dipinti iconici della collezione di Palazzo Barberini, la schiena nuda della modella di Subleyras è ipnotica nella sua doppia sensualità di soggetto spogliato e di pittura morbida e delicatamente chiaroscurata. Che sia un nudo accademico, lo studio del corpo di una modella o della moglie del pittore, o un omaggio traslato a veneri e ermafroditi, quel che emerge è l’aria di assoluta intimità che il dipinto trasmette. Effettivamente, si prova quasi un senso di disagio nel trovarcisi davanti e percorrere con lo sguardo quelle forme muliebri, non per una supposta indecenza di ciò che è rappresentato, ma perché lo spettatore è sfacciatamente costretto a rendersi conto del suo ruolo di voyeur. Come sottolinea Michele Di Monte nella scheda-opera, è proprio lo sguardo negato della donna, di spalle, che mette in questione le ragioni stesse dello sguardo dello spettatore e dunque la retorica della rappresentazione.
Alla luce di ciò, è indispensabile soffermarsi su un punto: se nella pittura settecentesca, in particolare del Rococò francese, il paradigma del voyeur arriva a essere di fatto codificato dopo secoli di pittura erotica – a volte anche incoraggiato, come dimostrano le altre opere nella sala, in particolare Marte e Venere di Lavinia Fontana, alla Fundación Casa De Alba, a Madrid (1595) – per lo spettatore contemporaneo, trovarsi a contemplare un corpo nudo di spalle, senza essere visti, può implicare una intrusione quasi violenta nella privacy. Ancorché incantato dalle forme ben delineate da quella schiena e dalla bella pittura, questo ruolo di involontario guardone non può non stimolare, pur tangenzialmente, delle riflessioni sulla sessualizzazione dello sguardo che ha dominato la produzione di immagini sino a epoche più recenti, temi fortemente messi in discussione – come noto – a partire dagli anni Settanta dall’arte e dalla critica femministe e che hanno portato anche a una risignificazione del corpo femminile e della sua rappresentazione. Temi, questi ultimi, affrontati in un’altra mostra romana ora in corso (fino al 23 maggio 2021), tutta al femminile, Io dico io – I say I, a cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini alla Galleria Nazionale (d’Arte Moderna e Contemporanea), in cui lo spettatore è chiamato dalle artiste proprio a ri-focalizzare lo sguardo, ricordandogli che è le donna a parlare in prima persona di sé e del proprio corpo.

Congedo
L’ora dello spettatore, in definitiva, porta al grande pubblico in maniera accessibile e con una narrazione compatta e lineare, questioni assai dibattute nei libri di critica, ma raramente presentate in una mostra, motivo più che sufficiente per visitarla. Accanto alla mostra, il catalogo è strumento complementare fondamentale. Il volume – che non è, come sempre più spesso accade oggi, un oggetto ricco di belle immagini ma povero di contenuti – rappresenta un contributo di alto valore scientifico, con saggi inediti di (in ordine di apparizione) Michele Di Monte, Wolfgang Kemp, Sebastian Shütze, Giovanni Careri, Claudia Cieri Via che offrono ognuno un affondo su temi centrali del ruolo di chi si trova davanti a un’immagine, sulla metapittura, sui meccanismi di attenzione – o “distrazione” come suggerisce Di Monte – che catturano lo spettatore e lo trascinano dentro l’opera per divenirne, in un certo senso, parte integrante.
Una nota di merito va alle schede di catalogo e ai suoi estensori (Luca Calenne, Maria Anna Chiatti, Luca Esposito, Michele Di Monte, Pauline Lafille, Anna Magnago Lampugnani, Eddy Schavemaker, Francesco Sorce), che non si limitano a dare informazioni sull’opera e la sua storia, ma rappresentano piccoli carotaggi critici sui temi portati avanti nell’esposizione. Viva la scheda-opera, dunque, uno strumento troppo spesso messo in secondo piano e relegato a vestire panni ancillari, sebbene rappresenti la base di un qualunque discorso critico.
L’ora dello spettatore. Come le immagini ci usano
Una mostra delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica Barberini Corsini
A cura di Michele di Monte
Roma, Palazzo Barberini, 2 Dicembre 2020 – 5 Aprile 2021
Catalogo Campisano Editore, Roma 2020, pp. 264.
In copertina: Lavinia Fontana, Marte e Venere, 1595, (particolare), ph. Alberto Novelli
RIFERIMENTI IMMAGINI:
Giandomenico Tiepolo, Il mondo novo, 1765 ca., Madrid, Museo Nacional del Prado
Scipione Pulzone, Ritratto di Ferdinando I de’ Medici, 1590, Firenze, Gallerie degli Uffizi (foto Alberto Novelli)
Giovanni Francesco Guerrieri detto il Guercino, Venere, Marte e Amore, 1633-34, Modena, Gallerie Estensi (particolare, foto Alberto Novelli)
Johann Liss, Giuditta e Oloferne, 1622, The National Gallery, Londra. Presented by John Archibald Watt Dollar, 1931, Londra
Pierre Subleyras, Nudo femminile di schiena, 1735-40, Roma Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini (foto Alberto Novelli)
Lavinia Fontana, Marte e Venere, 1595, Madrid, Palacio de Liria, Fundación Casa De Alba (particolare, foto Alberto Novelli)