L’esordio in poesia – tardivo ma convinto – di Maria Teresa Carbone (che alla poesia altrui tante energie ha dedicato, come giornalista ma soprattutto organizzatrice di eventi: si ricorda un’edizione appunto memorabile di Romapoesia, tutta al femminile, curata insieme alla complice di sempre Franca Rovigatti) sin dal titolo del libro, Calendiario («i domani» Aragno, pp. 68, € 15), si presenta all’insegna del quotidiano. Ma il “quotidiano” del neocrepuscolare poetese ideale eterno non può certo essere quello dell’allieva di Edoardo Sanguineti, all’Università, poi lungamente sodale di Nanni Balestrini. Lo stesso titolo che fonde il journal e il “giornale”, cioè la dimensione squisitamente privata a quella pubblica che segna date da ricordare, allude a un temperamento combattivo che sulle colonne dei giornali, appunto, sempre ha militato (è lo stesso cortocircuito degli «scribilli», dei «gazzettini», dei «giornalini» sanguinetiani, appunto), ma è altresì ben consapevole – con autoironia da crepuscolare vera, senza nei – d’essere destinata a «lasciare il mondo non salvato». Risuona l’eco delle poesie che non salveranno il mondo, di Patrizia Cavalli: in allusiva risposta, si capisce, al retorico mondo salvato dai ragazzini della maestra Morante. Ma rispetto a questa tradizione c’è un’ironia più sferzante: che almeno vuole giocarci, con queste parole che non salvano niente e nessuno. E allora la sezione che ha per ossimorico sottotitolo «Esercizi di cosmogonia quotidiana» riprende la Caosmogonia balestriniana, insieme “abbassandola” al raso-terra di chi a terra ci rimane sempre, costitutivamente.
Accompagnamento sempre più indispensabile dell’esistenza individuale è oggi la fotografia: quella che su social come Instagram – cui Carbone persevera a prestare la massima attenzione – ormai considera «il fotografico», per dirla à la Rosalind Krauss, una vera e propria protesi del vissuto. E così la sezione eponima, e più squisitamente diaristica, è scandita da immagini che, lungi dalle bellurie gratuite che troppo spesso gli scrittori oggi incastonano nei propri testi, hanno la valenza di un appuntamento appunto quotidiano, un metronomo dell’esistenza di ogni giorno: con quel valore essenzialmente ritmico, ben sottolineato da Liliane Louvel, che così spesso si trova nella sperimentazione iconopoetica contemporanea. Originale la scansione, di questo diario, in una “zona giorno” e una “zona notte”: che quel vissuto così ritmato si ferma a ripensare, a ricreare, a risognare. Fino al suono della sveglia.
Andrea Cortellessa
Notte
l’ascensore ascende verso il cielo
c’è stato un sogno
quando salivi e niente ti fermava
mi sono persa a pochi metri da casa
fra casalinghe gentili di quartiere
smarrite di fronte a me smarrita
sulla via del ritorno
il ragazzo incestuoso
parla di topi o fori o fogne

acciambellata sul divano-cuccia
la cagna sogna si scuote sogna
di cacce finalmente fortunate
ai gatti del giardino
di corse in villa con gli amici cani
di penitenze accolte con sospiri
accanto a lei calda
sulla cuccia-divano mi addormento
e sogno di pesanti valigie
di case labirintiche
di viaggi in treno insieme a sconosciuti
che sorpresa sarebbe sognarmi un giorno
in corsa dietro ai gatti del giardino

oltre il muro del sonno
seduti intorno al tavolo
gli oracoli parlano a bassa voce
senza misteri, beneducatamente
incalzavano i barbari
e noi in fuga verso l’era glaciale
la preistoria unica via di uscita
di lontano vedevamo fuoco e fiamme
ma la sera di Londra è quieta e luminosa
la casa numero 71 è in una piazza appartata
la notte dell’eclissi
in giardino ombre lunghe
unghie di lupo mannaro

esulta Isotta: il suono ostile
la gl di figlia e di famiglia
di griglia di scoglio di coglioni
erutta dalla bocca come magma
risorto dentro un vulcano triste
escono figlie e griglie
si scaglia fuori un maglione abbagliante
esulta Isotta e io mi sento Pigmalione
o forse Pig-maglione?
la notte in sogno
ottusa e fiduciosa la cinghialessa
mi si addormenta in grembo
a volte sogno di salvare il mondo
che per questo e non altro sono nata
e sogno che saprò cosa dire e cosa fare
e stesa dentro il letto
mi figuro incontri e discorsi e forse
forse una fine tragica
e sogno e mi vergogno
di sognare queste cose
di lasciare il mondo non salvato

in due righe:
di questa notte resta solo il sonno
io sono forse solo quando dormo