Maria Lai, un’Alice preistorica

Dal catalogo della mostra Maria Lai tenendo per mano il sole (a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, 5 continents 2019), tenutasi al MAXXI di Roma dal 19 giugno 2019 al 12 gennaio 2020, riproduciamo il contributo di Antonella Anedda, rielaborato dall’autrice appositamente per «Antinomie».

La prima fiaba cucita di Maria Lai s’intitola Tenendo per mano il sole. Stoffa, filo. È il 1984. Maria ha alle spalle un duro apprendistato a Venezia presso lo scultore Arturo Martini, anni di disegni e sculture, di mostre collettive che detesta come detesta il cliché di artista-personaggio e gli eventi mondani. È tornata in Sardegna da cui si era allontanata, non senza conflitti, per andare a studiare in Continente, una scelta, per una ragazza nata nel 1919, né scontata né facile. Il ritorno tuttavia, prima saltuario, poi definitivo, non si nutre di nostalgia (il ritorno è il viaggio stesso)  ma nasce dalla scoperta di una possibilità che lei chiama “ricominciare a giocare”.

Gioca di nuovo come da bambina accettando un lungo periodo di solitudine ma anche di riflessione, gioca seriamente come fanno i bambini troppo svegli che buttano la palla sul muro e per riprenderla usano soltanto una mano, chiudono gli occhi e apparentemente perdono tempo. Sanno invece che là contro quel muro c’è un’assoluta concentrazione. Riprendere a giocare significa per Lai ritrovarsi, non curarsi più di critiche, luoghi comuni, pettegolezzi. Diventa quello che era: uno dei più importanti artisti contemporanei. Sperimenta i materiali che usa: carta, legno, terracotta, stoffa, anzi stoffe, dalla tela al velluto. È audace, ma cauta come come una delle tanto amate capre. La sua cultura si nutre di poesia che impara a leggere prima ancora di capirla, ascoltando il ritmo, come le insegna il suo primo maestro, lo scrittore Salvatore Cambosu. Non smetterà mai di esplorare: “Lavoro, per capire, per pensare. La mia ansia è scoprire che cosa mi appartiene veramente… Ho bisogno di silenzio intorno al mio lavoro”.

Per imparare a giocare quel gioco degli adulti che è l’arte, Maria Lai ha dovuto – come sa chi vive in un’isola – attraversare il mare, l’aria, quel vuoto che è fisico e non può essere riempito se non dall’andare e tornare, tornare, andare di nuovo. Le fiabe sono mappe con cui i bambini imparano a orientarsi e diventare grandi dove il tempo si azzera, lo spazio si dilata, si moltiplica, oltrepassa la trama. “Dal corpo lo sguardo si lancia come un sasso nel vuoto di una distanza per tornare come un’eco” scrive Lai in Sguardo, opera, pensiero (Cagliari 2004). L’occasione è la laurea honoris causa, uno dei suoi successi tardivi e mai cercati. L’applauso la fa sentire davvero povera, il successo nel suo vocabolario, fa rima con eccesso e indebolisce perché toglie all’artista “l’insicurezza necessaria per andare avanti”. L’applauso è il rumore che scaccia il silenzio e fa scappare gli uccelli, spaventa, spezza il legame con una solitudine non subita ma amata. Tra i poeti raccolti in un’antologia personale (Memorie, versi cari a Maria, Cagliari 2006) ci sono Emily Brontë, Emily Dickinson, Marina Cvetaeva: autrici diverse ma con un orizzonte comune di libertà dalle convenzioni del tempo. Per tutte il senso dello spazio è più forte di ogni cronologia, il senso del paesaggio-brughiera, giardino, montagna s’intreccia all’attenzione per gli eventi atmosferici: tempesta, vento, neve.

Lai concepisce la distanza come materia e misura del rigore. L’arte non è sentimento, come la poesia non è il poetico. Nell’antologia compaiono stelle, cielo, pianeti, ma i testi sconfinano in fogli  bianchi e puntinati che chiamano chi legge a completare con le sue preferenze, le sue parole il libro: “Chi avrà tra le mani queste pagine bianche potrà forse riprendere il filo di queste memorie, coi propri poeti, i pensieri e i sogni”. L’augurio è quello di un dialogo con “l’altro da sé, fratello e straniero”.  

Maria Lai è un’Alice preistorica, una  “pippia-beccia” una bambina vecchia, come si definisce in Sardegna una bambina molto saggia in sintonia con l’essere prima del tempo e dunque indifferente al tempo. La saggezza convive con l’ironia, anzi l’autoironia, e l’assenza di autoreferenzialità. Chi ha conosciuto Maria Lai da vicino come gli artisti amici Camilla Pallavicini  e Guido Strazza ne ricorda il raro intreccio di bontà e umorismo, il riserbo, la gentilezza, il rigore verso se stessa, l’originalità dei suoi pensieri sull’arte, disseminati fra disegni, annotati su quaderni. Una sperimentazione teorica, linguistica e, come dice Lai stessa, architettonica che si lega a una passione per lo spazio senza la quale non si capirebbe la forza delle sue opere. Percepisce il ritmo  delle proporzioni, l’erosione dei materiali, la sua visione è ampia e mai confusa: “Vedevo nascere nel mio lavoro idee di terre viste a grandi distanze come spazzate dal vento e in lenta rotazione”. L’esattezza non esclude il fatalismo, sa che la misura è necessaria ma non basta a proteggere.

La opera non è povera, è sobria come l’arte in Sardegna, nei colori delle chiese romaniche: bianco e nero, nei motivi e nella ripetizione di forme sui tappeti tessuti in ogni paese dalle donne. La lana è ispida, se i colori si accendono, con punte di rosso o di blu è perché il resto dei toni è spento. L’installazione Legarsi alla montagna realizzata a Ulassai nel 1981 nasce da una leggenda locale e diventa un’opera visionaria e concreta di cambiamento del paesaggio e delle persone. Il nastro celeste (come acqua e cielo) che lega gli abitanti di Ulassai alla montagna, rivela, nel tendersi: il rancore e dove si annoda invece i legami di amicizia e di amore. Nella leggenda la bambina che porta da mangiare ai pastor si salva perché esce dalla grotta a guardare l’arcobaleno e non pensa a proteggersi. La salvezza è in questa gratuità, nell’assenza di calcolo. Lai usa la roccia come fosse una stoffa e i partecipanti (l’intero paese) come le asole in cui far passare un filo. Legarsi alla montagna non è un arredo ma un gesto che trova, come ricorda nel libro Il filo dell’esistere Maria Elvira Ciusa (2017) una specie di ekfrasis anticipata nelle Città invisibili (1972) di Italo Calvino, con cui Maria strinse amicizia. Basta sostituire alla città di Ersilia, il paese di Ulassai e ai fili bianchi e neriil nastro celeste: “A Ersilia per stabilire i rapporti che reggono la vita delle città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rappresentanza”.

Il filo è il racconto, si può aggrovigliare o distendere. È il filare con il fuso del linguaggio. Andrea Zanzotto quasi in quegli stessi anni intitola Filò la poesia in dialetto veneto nata dalla memoria degli interminabili racconti dei contadini nelle stalle. Il dialetto oltrepassa la repressione del linguaggio ufficiale perché si confronta con il gioco, il balbettio dei bambini.

Fila, fila. Pochi anni dopo l’installazione di Ulassai, nel 1983, Lai realizza un libro di stoffa e lo intitola Tenendo per mano il sole. Le fiabe inventate o ricreate dialogano con le video-animazioni abitate dalla voce e dalla figura dell’artista che racconta come da una grande distanza, ammaestrandoci con la lentezza, che è già nel gerundio: “tenendo”. L’idea viene da lontano, dall’infanzia. Guardando sua nonna rammendare (un verbo che ormai sembra sparito)  le lenzuola, Maria si divertiva a inventare storie partendo dai fili che riparavano lo strappo e creavano ai suoi occhi un alfabeto misterioso.

Un libro cucito non si legge, sta. È un monumento senza monumentalità. Rende onore  al tatto, al fruscio. La stoffa resiste, voltare una pagina di stoffa  è un gesto più lento che voltare una pagina di carta, o fare scorrere le dita su uno schermo. La sua consistenza può essere saggiata tra i polpastrelli delle dita: “i libri cuciti” dice Lai “chiedono di essere toccati, sfogliati, pagina per pagina perché il lettore si fermi più a lungo con attenzione”. Le parole cucite sulla tela sono, come scrive Anna Dolfi (Maria Lai, 1980), “geroglifici, carichi di significato tutto da decifrare”. Segnalano una crisi che però non è fine a se stessa ma indice “dell’apertura ad altri percorsi”. In queste pagine fitte di fili che a volte si aprono e a volte invece quasi si rifiutano di essere sfogliate, le forme cucite hanno la funzione di cenni. Il sole non riempie il verde-cielo della stoffa, ma si affaccia lateralmente. Ai raggi, esatti e ricamati fittamente, si alternano fili arancio-più scuro apparentemente imbastiti ma altrettanto calibrati. Chi guarda può completare la sua forma, immaginarne il resto, raccontarlo variandolo.

I fili trattengono il sole? Oppure sono lì per liberarlo come un pallone o un aquilone? Il sole è di tutti e il libro illumina non solo i bambini ma anche gli adulti che non avevano avuto accesso alla cultura. L’arte – ricorda Lai – è lo spazio di chi non occupa spazio nel mondo. Nel 1987 Tenendo per mano l’ombra è la risposta naturale all’opera del 1984. Tenere per mano il sole può ustionare, ma la paura, come l’ombra, non si può scacciare. Bisogna invece tenerla per mano, accettarla. Il cavaliere che nella fiaba sconfigge il buio, crea paradossalmente un vortice di angoscia. Tenere per mano il sole è un rischio, scacciare l’ombra un pericolo che può divorare il coraggio. La grande bocca spalancata su cui scendono brevi toppe a forma di zanne ottenuta divaricando e poi cucendo due lembi di teli bruni rende tattile la paura dell’ignoto, lo spostamento del terrore prende una forma di Bestia. C’è la colata dei fili, il collage delle stoffe, l’accostamento o il contrasto dei colori. Imparando a tenere per mano l’ombra i bambini imparano che l’ingenuità va superata, la luce non sarà sempre presente. Il “c’era una volta” non si conclude con “e vissero felici e contenti” ma solo con il verbo alla terza persona plurale: vissero.

Se Tenere per mano il sole e Tenere per mano l’ombra sono favole inventate, le altre sono variazioni e ricreazioni da testi altrui soprattutto di scrittori personalmente conosciuti da Lai: Salvatore Cambosu, Giuseppe Dessì. Il dio distratto è una rielaborazione del racconto Sardus pater di Dessì. Racconta una metamorfosi partendo dal gesto di un dio dalla cui mano sfuggono faville mentre scaccia uno sciame d’api. Le faville trasformano le api in piccole dee che si riproducono come le api, ma hanno il dono del canto e della profezia,  aiutano di nascosto, si bagnano nelle fonti, lavorano di notte. Sono le janas, un nome dall’etimologia incerta che forse viene dalla dea Diana o da Jenna che significa porta. Piccole diane, creature che vivono tra il mondo umano e quello della magia, le janas in Sardegna equivalgono alle fate. Si dice che le loro case siano i tanti, piccoli buchi sui monti. Le janas diventano i pensieri che ronzano nella testa delle donne, sussurrano nelle loro orecchie una rivolta: insegnano loro a filare e le convincono a smettere di fare lavori pesanti. Diversamente dalle fate tradizionali le janas sono imprevedibili. Lai le raffigura come stendardi di luce, con piccoli occhi mobili su pezzi di stoffa arancio-miele, affida il loro moto a uno sciame di fili. Il loro disporsi nello spazio del libro in direzioni diverse crea l’illusione del vento.

Le api ritornano in un’altra opera del 1991 intitolata Curiosape. Lai parla del lavoro dell’arte difendendone la libertà dai ruoli e dai condizionamenti. L’ape, racconta, “ha il naso rosso perché lo mette dappertutto”, è curiosa, ascolta i segreti e le storie delle compagne e li rielabora, reinventandoli, trasformandoli in spettacoli e suscitando i rimproveri della Regina. “Perché non lavori anche tu come tutte le api? Perché le distrai dai loro compiti utili alla società?”: quello che il potere rimprovera agli artisti  Lai lo utilizza per denunciare l’indifferenza e l’insufficienza delle istituzioni. In Orme di Leggi (tela e scrittura e filo), opera con la quale nel 2011 vince il Premio Camera dei Deputati per il 150° dell’Unità d’Italia, opporrà all’astrazione del linguaggio giuridico, la necessità di una legge leggibile, al servizio del cittadino.

Sono molti gli artisti con i quali Lai parla anche a distanza. Ammira Burri, ma il suo mondo non è clinico. Invece del fuoco, dell’ustione troviamo il rammendo, la cura, le parole sono illeggibili però familari come il tracciato di un elettrocardiogramma. Conosce il dolore (la morte violenta dei fratelli, molte pene non dette) ma lo sbianca come il prato che l’affascina nei Lettini di Costantino Nivola e che si collega a su nenneri, all’uso sardo durante il periodo pasquale di far crescere il grano al buio fino a renderlo pallido,  per poi deporlo su un letto di lana. Fa qualcosa di simile sulla variazione del dolore anche Jenny Holzer quando nel 1990 realizza Black Garden in memoria dei soldati tedeschi morti in guerra, sostituendo al prato naturale un prato nero.

“Imparare a vedere, abituare l’occhio alla calma, alla pazienza, al lasciar giungere a sé le cose…”. La frase da Nietzsche posta in epigrafe ai colloqui tra Giuseppina Cuccu e Maria Lai (2002) fa da viatico al libro Le Ragioni dell’arte che sono così trasparenti da risultare paradossalmente difficili, tanto semplici che nessuno le capisce: “Senza respiro l’opera d’arte è inerte…leggevo solo ritmi, non li capivo ma poi questi ritmi li ho trasformati in immagini… La vera materia dell’arte non sta nel corpo dell’opera ma dentro ogni lettore dell’opera”.

Le fiabe cucite dialogano con quello che è forse insieme ai Telai uno dei vertici dell’opera di Lai, la serie delle Mappe astrali: mondi esatti e mai esistiti, paralleli e meridiani depistanti e di colpo una bava di filo che scende a ricordare non solo il baco, la bestia che crea, ma l’imperfezione di noi bestie-umane. Se le mappe si costruiscono a fronte della scienza e di riferimenti artistici precisi (primo fra tutti Alighiero Boetti) le fiabe appartengono al regno di parole-cose, impossibili da decifrare senza la solitudine, il silenzio e insieme tutta una tradizione orale che mormora alle sue spalle, gli Attittos, i Gozos, il Canto a bordone.

All’interno delle sue fiabe, Maria Lai cuce molto di più di quanto appare sulle stoffe. Cucire un libro  obbedisce a a regole severe, “è una macchina che porta lontano”. Per questo il suo lavoro apparentemente così legato al femminile scardina la domesticità attraverso l’ironia, e non accetta nessuno stereotipo: “Femminismo e maschilismo sono connotati stabiliti da una società superficiale, borghese e provinciale. Ho acquistato la durezza necessaria per dare stabilità al mio essere femminile”. La durezza è quella della pietra che è porosa o si fende quando fa scorrere l’acqua. La stabilità coincide anche con la postura del corpo davanti al telaio e permette a Lai di non temere il fraintendimento. Imbandisce una mensa con pani di terracotta e mettte sugli scaffali di una libreria libri di terracotta che sembrano pani. Gioca con le parole da ric-amare non solo sulle fiabe, ma sui vestiti, come la cometa di filo chiaro sul vestito nero di Elvira Ciusa o i fili metallici sugli abiti creati per uno dei grandi con cui collabora, lo stilista Antonio Marras.

“L’ansia di infinito” di Maria Lai (Ansia di infinito si intitola il documentario di Clarita Di Giovanni sull’artista) non è mistica ma linguistica, è il ritmo dei verbi coniugati all’infinito: giocare/rammendare/raccontare/ricamare. Quando le chiedono se la solitudine per lei significhi sofferenza, risponde no e precisa che la solitudine non è legata “al misticismo, e nemmeno alla depressione. Semmai è una felicità, ascoltare il silenzio”.

Felicità è un termine impegnativo e inusuale, ma nel caso del lavoro di Lai, vero. In particolare per le fiabe. Da cosa deriva? Forse da un dimenticarsi attraverso fare e disfare?, dalla frugalità di un lavoro quotidiano che ha bisogno di poco, ma non spreca, usa e rinnova vecchi lembi, dando a ognuno una nuova vita? Dal fatto che il lavoro attento alle tradizioni, non coincide però con il rimpianto del tempo passato? O infine dalla compassione? Lai è una Parca che non taglia il filo, è una filatrice ma non un’accabadora, il suo lavoro non smette di germogliare.

Nella fiaba Maria Lai vede una potenzialità di rammendo dei nostri errori. Il giovane pastore della Capretta (1992), di fronte alle ricchezze della grotta, chiede alla voce che gli dice di scegliere, solo un campanello d’argento per la sua unica capra che lo ha guidato fin lì. Il campanello accorcia con il suono la distanza, rende il tempo più veloce. Nell’immagine esposta alla mostra la capretta naviga solitaria sulla tela avvolta da un ulteriore lembo di stoffa. È infantile e spettrale, raffigurata di profilo tiene lo spazio in bilico sulla geometria delle corna. I fili hanno il ruolo dei disegni, le tele sovrapposte, il collage  rendono i chiaroscuri. Lai sembra rispondere in anticipo ai libri cauterizzati di Kiefer con citazioni da Klee a Chagall. Se è vero che l’accostamento alla monumentalità delle opere di Louise Bourgeois è insostenibile, come nota giustamente Elena Pontiggia, tuttavia forse c’è un filo sotterraneo che risale al cucito, al lavoro della madre di Bourgeois, al fatto che “tutte le donne della nostra casa cucivano”. L’ago non è uno spillo: lo spillo è transitorio, punge ma non unisce, l’ago ridà vita al tessuto, trasforma l’inerzia della materia in qualcosa che può avere a che fare e vedere con la vita, la pelle, il cibo.

Nella sua versione Lai introduce una variante, il pastore si preoccupa di aver lasciato tanti tesori per una campanella, si pente della gratuità della sua azione ed ecco la sua mente si offusca di demoni e si riempie di ombre. La capretta lo abbandona lui cerca la grotta ma è sparita, si perde. Solo quando trova a forza di chiamare la capretta con il campanello, può fermarsi, riprendere fiato e sperare.

L’essere umano non è perfetto come ce lo racconta Michelangelo, dice Lai nella video-animazione del Dio distratto e non è soprattutto al centro dell’universo, non è misura di tutte le cose. È uno dei video più intensi fin dall’attacco, lentissimo che solo l’ascolto può rendere davvero. La voce arriva da lontano: “Si comincia”. Sullo schermo buio compaiono grumi chiari, pianeti e stelle-fili-filanti sempre dislocate rispetto allo sguardo. Le costellazioni si stagliano contro il buio. Un’altra grande solitaria, Anna Maria Ortese, con il suo pensiero disubbidiente, anti-antropocentrico post-umano, con l’attenzione alle bestie, avrebbe potuto commentare queste immagini. Corpo celeste: “La libertà è un respiro”.

La leggenda di Maria Pietra (1991) è presente in questa sezione sia come libro che come video-animazione; rielabora un testo di Salvatore Cambosu Cuore mio per ripensare ancora una volta le ragioni dell’arte. Maria Pietra è dotata di poteri magici ma deve imparare a calibrarli. Quando li usa, fosse pure per consolare il suo bambino ammalato che vuole giocare con gli animali del bosco, genera la morte degli animali e del suo stesso bambino. Solo quando impasta il pane con le lacrime e accetta di farsi pietra, restituisce vita alle creature che ama. Sulla stoffa gli animali cuciti, disegnati con una trama di filo sottile e nero saltano tra massi di stoffa marrone ora evitando, ora incontrando quelle forme. Maria  Pietra interroga il mondo di nuovo. Farsi pietra è anche un ammonimento: l’arte non è sensibilità ma  architettura, confronto con i volumi e il legno, la pietra, il filo: “La pietra”, precisa Lai, “è l’arte  presente con tutto il suo peso e insieme irraggiungibile.  Rivela e nasconde la storia del mondo. Viene dal caos, dal magma, dai deserti. È serena”.

Il volo del gioco dell’oca anzi – del piccolo dell’oca (tra gli scrittori che Lai ama c’è Konrad Lorenz) mette in scena un gioco impossibile, un sogno smentito dalla natura della stessa oca che prova a volare vedendo in una pozza di pioggia un uccello. Eppure proprio in questa impossibilità sta il desiderio dell’arte: solo l’essere umano sogna l’impossibile. L’opera è preceduta da una filastrocca inventata da Lai. Ancora una volta il gioco rivela un elemento ulteriore. L’oca non sta nelle caselle. Quando fallisce la aiuta Pinocchio, nato dal legno, abitato dal desiderio di diventare bambino. Insieme trovano il Sillabario, qualcosa di concreto che permette di comunicare e la Fata Turchina, entità inafferrabile “fatta di nulla. Il desiderio del volo si può seguire attraverso le sequenze delle immagini che ritmano visivamente  la filastrocca: “… al sogno dell’oca che vuole volare sorride la fata / dal velo turchino // batte sul guscio del sogno e libera l’oca / nell’infinito…”. Ognuno può percorrere lo spazio come vuole, saltare  i riquadri o seguire il percorso, scegliere quale orma-ombra risulta più congeniale.

Il gioco – come tutto nel mondo – si scompone, si scompagina. È il senso dell’ultima immagine della sezione intitolata I luoghi dell’arte a portata di mano. Sono carte leggere bianche e nere che possono essere giocate con i ventotto pezzi dei Luoghi relativi e le loro immagini che fanno parlare vuoto e luce, il sole e il sale della coltivazione dell’ulivo. Se l’arte è un gioco e a carte si gioca con le mani, deve essere a portata di mano. I luoghi sono carte che si possono squadernare – lo sanno i bambini quando costruiscono castelli di carte a più piani che però basta un soffio a far crollare. Passando di mano in mano creano nuove idee, inventano nuovi spazi. Maria Lai:

Lo sguardo si stacca dal corpo come un sasso.
Esistere è occupare spazio, specie per chi occupa poco spazio.

In copertina: Maria Lai, Tenere per mano il sole, 1984 (particolare)

di origini sarde, è nata a Roma dove vive. Si è laureata in storia dell’arte moderna e ha conseguito un dottorato di ricerca a Oxford; un dottorato honoris causa le è stato conferito dall’Université Sorbonne IV; ha insegnato all’Università di Siena ed è professore a contratto presso l’Università della Svizzera Italiana di Lugano. Tra le sue raccolte di poesia: “Residenze invernali” (Crocetti 1992), “Notti di pace occidentale” (Donzelli 1999), “Il catalogo della gioia” (Donzelli 2003), “Dal balcone del corpo” (Mondadori 2007), “Salva con nome” (Mondadori 2012), “Historiae” (Einaudi 2018). In prosa ha pubblicato “Cosa sono gli anni” (Fazi 1997), “La luce delle cose. Immagini e parole nella notte” (Feltrinelli 2000), “La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi” (Donzelli 2009), “Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena” (Laterza 2013). Le sue traduzioni di poeti classici e moderni sono pubblicate in “Nomi distanti” (Empiria 1998). È tradotta in inglese, spagnolo, francese, tedesco.

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