Si fa presto, di questi tempi, a citare Pascal e il buon uso delle malattie; difficile però, di questo insegnamento, fare davvero buon uso. La scorsa primavera, appena dischiusi dal lockdown, un paio di volte ho avuto modo di accompagnare nei suoi giri Giovanna Silva, che – lei così milanese e così cosmopolita – con pazienza mi spiegava Centocelle e Don Bosco, Valle Aurelia e il Tufello, Cinecittà e la Montemartini, Porta Maggiore e Corviale, il Verano e il Parco degli Acquedotti, Portonaccio e il Mandrione. La città insomma in cui sono nato (e le cui imposte, masticando amaro, continuo a pagare), che mai ho sentito – e mai sentirò – «mia». Intrappolata a Roma da una residenza d’artista indefinitamente prolungata dalla paralisi generale, appena ha potuto Giovanna ha cominciato a esplorare i suoi ànditi più riposti, i recessi più segreti: tutto assorbendo e tutto fissando con la sua macchina implacabile. Il risultato è il suo ultimo libro, appena pubblicato da NERO.
Di libri su Roma ce ne sono infiniti: anche di questo repertorio (col titolo d’uno fra i più celebri, di questi libri) si può ripetere, col luogo cui si riferisce, che «non basta una vita». E anche la Roma “minore” e «sentimentale» (per dirla col titolo sterniano, invece, d’un mitico baedeker 1900 del dimenticatissimo Diego Angeli), quella che snobba le inquadrature da cartolina, è stata perlustrata tante volte. Ma lo sguardo di Giovanna ce la riconsegna tutta nuova. Per la verità le foto sono state fatte, in parte, prima della Peste; eppure sin dall’inizio è, la sua, una Roma “metafisicamente” spopolata di romani (nonché, diolamercè, di visitatori):
Come se l’Urbe per antonomasia cinica e crudele – schiacciante città per «giganti» come, dopo tanto averla vagheggiata, si lamenta di trovarla Leopardi nel 1822: «tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze […] spazi gittati fra gli uomini, in vece d’essere spazi che contengano uomini» – da sempre attendesse l’occasione di sbarazzarsi delle sue infestanti presenze umane, a partire dai propri insopportabili cives (il romano, secondo l’inurbato Manganelli, è colui che «litiga coi vigili, dice “aoh”, parcheggia sui marciapiedi […]; quando sorride, svela denti tutti uguali, a punta»).
Lo sguardo di Silva imperturbabile disumanizza anche i luoghi più canonici della città, quelli da sempre brand di se stessi. Non mancano dunque i Musei Vaticani e Trinità dei Monti, piazza Navona e il Campidoglio; ma sempre splende sull’immagine uno straniamento alieno, da day after. Non solo gli esseri umani sono smaterializzati; anche gli animali, in scena, sono rarissimi. Persino il mondo vegetale, nel rigoglio primaverile ed estivo, pare spolverato d’una lieve patina opacizzante, convalescente.
Il meccanismo compositivo del libro è semplice. Per ben 303 volte si dispone nell’impaginato un dittico incurante della contiguità spaziale dei luoghi; anzi, più sono distanti fra loro, in tutti i sensi, e più la loro “rima” sarà “ricca”: pagina pari e pagina dispari mettono ogni volta a confronto immagini della città che si richiamano l’una con l’altra per elementi formali dall’evidenza spettacolare (la Piramide Cestia a Porta San Sebastiano, all’Ostiense, con quella dell’incompiuta città dello Sport di Santiago Calatrava, a Tor Vergata),
o tanto sottili quanto “baroccamente” concettosi e sorprendenti (i megalitici pilastri dei viadotti à la Chicago, sulla Prenestina, che ricordano quelli tortili del Baldacchino berniniano a San Pietro):
Fra le rarissime eccezioni al veto alle presenze animate, un’iguana si crogiola abbandonata al Bioparco (cioè il fatiscente, spettrale, magnifico Giardino Zoologico ai Parioli), a fronte del busto di Giacomo Zanella a Villa Borghese; in questo caso a “rimare”, evidentemente, è il fogliame pseudo-tropicale che dà ombra al severo busto ottocentesco come al tronco con la bestia stravaccata:
Come in questo caso, però, spesso gli effetti d’eco si moltiplicano uno nell’altro (e gli accostamenti funzionano come test, allora, per l’immaginazione attiva di chi guarda): se l’iguana biologicamente rappresenta una specie di fossile vivente sopravvissuto da epoche remotissime, Zanella è il poeta ottocentesco oggi un po’ impolverato ma popolarissimo, un tempo, per quell’ode Sopra una conchiglia fossile nel mio studio in cui per la prima volta (ha scritto Andrea Zanzotto), “darwinianamente”, la letteratura metteva a tema i «tempi infinitamente lunghi», i «megasecoli» della geologia, anziché quelli tanto più brevi della storia. Indubbia la suggestione “metafisica” dell’immaginario antidiluviano: il «sentimento della preistoria» cui Giorgio de Chirico (ispirandosi alle illustrazioni di Édouard Riou, lo stesso dei libri di Verne sui quali fantasticava da ragazzo, a La Terre avant le déluge di Louis Figuier) dedicava una pagina straordinaria nei giovanili «Manoscritti Paulhan», considerandolo «una prova eterna del non senso dell’universo» nel darci, sempre, «la sensazione di un presagio» (meglio ignorare, allora, se il dittico in questione sia stato ripreso prima o dopo il lockdown).
Curiosamente l’unico testo che accompagni le immagini, impaginato al centro esatto del libro, è dell’altro Dioscuro, Alberto Savinio. S’intitola Lingua materna il pezzo uscito sul «Corriere d’Informazione» il giorno dell’Epifania del 1949 ed è ancora una volta un caso, naturalmente, ma rappresenta una delle epifanie in assoluto più sorprendenti, nell’infinita bibliografia su Roma, quella della città «che non ha carattere»: una Roma senza qualità, quella scoperta da Savinio, finalmente libera dal peso «così schiacciante di carattere». Riverbero ennesimo di Nietzsche (dalla Seconda inattuale, certo, Sull’utilità e il danno della storia per la vita), la Roma senza Roma di Savinio è il luogo di una sospirata «libertà», la liberazione della città da se stessa che va di pari passo con quella dal suo corpo («finivo per non avere più piedi, più gambe, più corpo») del flâneur che instancabilmente la percorre.
La citazione da Pitagora che dà il titolo al libro di Giovanna, «Non passeggiare per strade frequentate», è uno dei precetti della setta degli acusmatici, i suoi insegnamenti più esoterici impartiti in forma orale (come altri ancora più bizzarri, quali il divieto di parlare senza luce o quello di raccogliere oggetti da terra). Il Pitagora di Savinio è appunto un iniziato, non risponde certo allo stereotipo moderno dell’uomo di scienza; ma certo la città «neutra», i Parioli in cui abita che secondo lui potrebbero benissimo trovarsi «a Montevideo, a Barcellona, a Aukland», è un paesaggio metropolitano ridotto alle sue forme geometriche, ai suoi elementi primari. Questa geometria è un ordine metafisico, appunto: i suoi triangoli, le sue parallele, le sue corrispondenze segrete sono un alfabeto dimenticato, un codice che non verrà mai decifrato del tutto. Davvero, non basta una vita.
Giovanna Silva
Roma. Never Walk on Crowded Streets
NERO, 2021, pp. 640 ill. a colori, € 20
Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 28 febbraio 2021