Lingua materna

Nell’inverno tra il Quarantatré e il Quarantaquattro, io, una mattina, uscii dalla mia abitazione del quartiere Parioli (Roma) e mi trasferii in casa di un cugino del quartiere San Giovanni. In quell’anno metà della popolazione di Roma passò in casa dell’altra metà, e viceversa. Fu il lato comico di quel tragicissimo anno.

Qui ove ora io abito, Poussin a suo tempo veniva a prendere appunti per i suoi paesaggi eroici e popolati di dei, sibille, pastori. I paesisti a quel tempo si fabbricavano il paesaggio nello studio, lentamente e con pazienza. Poi cominciarono a dipingere paesi rapidamente e sur le motif. Non mi risulta che il paesismo ci abbia guadagnato. Lavorare a memoria è lavorare da sé. Lavoro più legittimo. Schumann diceva che sonare un pezzo a memoria, è sonarlo meglio. Poteva dire che è farselo proprio.

Il quartiere Parioli è il quartiere nuovo di Roma. L’aria è fresca e salubre. Giusta la proporzione tra case e piante.

Non queste però le qualità migliori dei Parioli. La qualità migliore di questo quartiere è che non ha carattere. È neutro. Pregio grandissimo in una città come Roma, così pesa di carattere, così schiacciante di carattere.

Nel quartiere Parioli nulla ricorda Roma. Questo medesimo quartiere, così com’è, lo si potrebbe staccare da Roma e appiccicarlo a Montevideo, a Barcellona, a Aukland. Qualità preziosa soprattutto per chi non può vivere e lavorare se non in determinate condizioni di libertà. Libertà è non udire per radio e altoparlante la voce di un dittatore, ma è anche non vedere tutti i giorni il Colosseo, le basiliche, il Vittoriano. Libertà è anche non essere guardati tutti i giorni da “secoli di storia”. Soprattutto quando è storia così amica di quello spirito “dilettantesco”, ossia staccato dalle cose, che tanto piace a me.

Proverbialmente si dice che a Roma non si lavora. Io smentisco questo proverbio. Ma se a Roma io lavoro, è perché io, pur stando a Roma, non sto a Roma: sto a Montevideo, a Barcellona, sto a Aukland: sto al quartiere Parioli.

Nei quartieri in cui Roma è Roma, io, in poco tempo mi sarei romanizzato. E romanizzarmi io non voglio. Di romanizzarmi ho paura. Sempre, e in qualsiasi condizione, c’è modo di salvarci. Come avrebbe formato altrimenti tanta opera Campanella, durante ventisette anni di carcere?

Il quartiere Parioli è neutro. Il quartiere San Giovanni è illustre. Nell’inverno tra il Quarantatré e il Quarantaquattro, quell’inverno tanto tragico per colpa degli uomini e tanto mite e sereno per mèrito dell’atmosfera, la sera, tra lusco e brusco, andavo a passeggiare sul piazzale prospiciente la basilica. Le strisce del lastrico mi facevano da guida. Partivo dal muretto che a sinistra chiude d’altro il piazzale, giravo l’angolo del palazzo lateranense, passavo tra l’obelisco e l’ingresso laterale della chiesa, arrivavo al Battistero ritornavo indietro.

Ogni sera, et pour cause, mi ritornava in mente questo precetto di Pitagora: «Non passeggiare per strade frequentate».

E camminavo. E mi montavo. E camminando con passo sempre più svelto – sempre più “leggero” – mi montavo sempre più. Finivo per non avere più piedi, più gambe, più corpo. Ero anch’io un fachiro e godevo della facoltà di levitazione.

E passando e ripassando davanti alle cinque aperture del pòrtico; passando e ripassando sotto l’attico irto di quindici statue colossali, attorte e fisse in incomprensibili atteggiamenti, sempre in procinto o di crollare o di spiccare il volo nel cielo; passando e ripassando davanti al dado enorme e scuro del palazzo lateranense, dimora nel lontano Patriarchio dei Pontefici, sede dell’Autorità cui Francesco di Bernardone venne a chiedere il riconoscimento del suo sposalizio con Madonna Povertà; passando e ripassando davanti all’obelisco di Tutmes III e alla facciata laterale della basilica, che a sinistra, nell’angolo, cela il Vert Galant immobile sull’immobile cavallo, passando e ripassando davanti al Battistero di Costantino; passando e ripassando davanti al tragico mozzicone dell’acquedotto neroniano, che come un bruco enorme e frammentario traversa strade e case e il parco della funebre Villa Wolkonski; passando e ripassando davanti alla Scala Santa ­­– la scala del palazzo del Pilato a Gerusalemme, la scala che Cristo salì il giorno della sua passione, e ove una volta, sotto pallide lampade gialle, vidi un vecchio tirarsi su gradino per gradino, facendo ruota di braccia e gòmiti e tirandosi dietro come una doppia coda morta le gambe paralizzate – io, una sera, sorpreso io stesso dalla “austera”, dalla “augusta”, dalla “venerabile” condizione della mia mente, capii quale “illustre” manto quelle solitarie passeggiate serali avevano buttato sulle mie spalle.

Fu la mia ultima passeggiata intorno alla Omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput.

Che me ne faccio di un manto illustre, io che illustre voglio esser dentro e per mia sola virtù?

Bàdino gli urbanisti a quanto può il carattere di un quartiere su l’animo degli abitanti… Ma, in fondo, a che pro? Guardavo gli abitanti di San Giovanni: gli autòctoni di San Giovanni: gl’indigeni di San Giovanni. Passavano davanti a quei monumenti illustri come per la strada di un villaggio, per un bazàr di Smirne, per un deserto.

Francesco di Bernardone… Francesco era stato educato alla francese da sua madre, madonna Pica, che forse era di origine francese, e aveva abituato il figliolo alla lingua francese, come a una seconda lingua materna. E Francesco nei momenti di profonda ispirazione parlava francese, come ritrovando la lingua del suo oscuro nutrimento, e quando fu vicino a morire parlò francese.

Erasmo, che tutta la vita aveva parlato latino, quando fu vicino a morire ricordò la lingua materna e dimenticata, e la clemenza di Dio davanti al quale stava per apparire, la invocò in olandese.

Bello è avere una lingua materna, magari in serbo. Ma se non si ha?


Il testo qui riportato è apparso sul «Corriere d’Informazione», 6-7 gennaio 1949; poi in Alberto Savinio, Scritti dispersi 1943-1952, a cura di Paola Italia, Adelphi 2004; ora in Giovanna Silva, Roma. Never Walk on Crowded Streets, NERO 2021

In copertina: Alberto Savinio, Autoritratto, 1936

(Andrea Francesco Alberto de Chirico, Atene 1891-Roma 1952) è stato nell’ordine pianista e compositore, drammaturgo, poeta, narratore, pittore, scenografo e costumista. In tutti questi campi ha eccelso, nel Novecento italiano. I suoi scritti sono ripubblicati da Adelphi.

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