È in uscita Filologia e leggenda. L’opera di Michele Mari, una sezione della rivista «Studium ricerca» dedicata allo scrittore milanese (numero 1/2021, 180 pp.). Curata da Riccardo Donati, Andrea Gialloreto e Fabio Pierangeli, la sezione ospita gli atti di un convegno internazionale promosso dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma nei giorni 11 e 12 ottobre 2019; comprende interventi di Luca Serianni, Andrea Cortellessa, Andrea Gialloreto, Patricia Peterle, Tommaso Pomilio, Andrea Santurbano, oltre a un dialogo tra l’autore e i relatori. In anteprima si pubblica qui il contributo di Riccardo Donati.
It’ll probably turn out to be a very simply thing.
(Mr. Rawlston a proposito di Rosebud in Citizen Kane, Orson Welles, 1941)
In memoria di sé
Leggiamo dal capitolo terzo delle Confessioni di un Italiano:
fin da fanciullo i segni materiali delle mie gioie de’ miei dolori e delle mie varie vicende mi furono sempre carissimi […]. Per me la memoria fu sempre un libro, e gli oggetti che la richiamano a certi tratti de’ suoi annali mi somigliano quei nastri che si mettono nel libro alle pagine più interessanti […]. Io mi portai sempre dietro per lunghissimi anni un museo di minutaglie, di capelli, di sassolini, di fiori secchi, di fronzoli, di anelli rotti, di pezzuoli di carta, di vasettini, e perfino d’abiti e di pezzuole da collo che corrispondevano ad altrettanti fatti o frivoli o gravi o soavi o dolorosi, ma per me sempre memorabili, della mia vita. Quel museo cresceva sempre, e lo conservava con tanta religione quanta ne dimostrerebbe un antiquario al suo medagliere. Se voi lettori foste vissuti coll’anima mia, io non avrei che a far incidere quella lunga serie di minutaglie e di vecchiumi, per tornarvi in mente tutta la storia della mia vita, a mo’ dei geroglifici egizi[1].
Non so quanto l’opera di Ippolito Nievo sia nelle corde di Michele Mari; forse non particolarmente, a giudicare dal fatto che nelle settecento e passa pagine de I demoni e la pasta sfoglia il nome dello scrittore veneto non figura mai (di certo gli è assai caro quello di un altro personaggio delle Confessioni: Niccolò Ugo Foscolo). Eppure, ci sono degli aspetti di Carlino Altoviti che ne fanno, per molti versi, un antenato di Michelino, e più in generale un precursore di tanti dei personaggi che prendono la parola nell’opera, in prosa o in versi, dell’autore milanese: e basterebbe già a confermarlo quel nome rimpicciolito, per gusto di vezzeggiare o malizia di svilire, come già fu per Giacomino, Leopardi, raccoglitore di fole ed errori, o di Giannino, Stoppani, collezionista di burle.
E poi: cos’è, la galleria fotografica di Asterusher, se non un privatissimo «museo di minutaglie»? E come definire la mitopoietica cantina della casa di campagna di Nasca/Scalna se non come un «sacrario delle rimembranze»[2], discendente della famigerata cucina del castello di Fratta? La religiosa attenzione di Carlino per le incarnazioni oggettuali del passato, vale a dire il suo feticismo, riecheggia nella galleria di reliquie, figure, emblemi, memorabilia che Mari ha deciso di esporre – se non di ostendere, per tener fede al linguaggio sacrale che accomuna i due autori – non solo a parole, attraverso i suoi alter ego libreschi, ma anche materialmente in alcune occasioni pubbliche. Un emporio di pezzi ora seriali ora unici, oggetti di seduzione e di culto da blandire con la penna e accarezzare con lo sguardo, remoti eppure a portata di mano, la cui ascendenza è perlomeno duplice: benjaminiana, per quel tanto di archeologico che la informa; batailliana, per quel molto di oscuro e perverso che la nutre (cosa che, beninteso, può dirsi anche di Nievo: pochi brani della nostra letteratura sono più batailliani di quello sopra riportato). Lo highlight, come dicono i curatori museali, della collezione altovitiana, ossia la ciocca sottratta alla Pisana (“ratto” da cui il brano delle Confessioni sopra riportato prende avvio) ha poi molto a che spartire con lo zoccolo (feticcio mancante, e perciò agognatissimo) della giovane dai molti nomi di Leggenda privata: ma su questo torneremo.
In un’opera come quella di Mari dove tutto, o quasi, è precipitato di vissuto biografico fantasticamente rielaborato, ricodificazione in termini linguistici di emozioni profonde, ciò che è caduto sotto il «suo proprio (privato privatissimo personale) possesso», per citare l’amato Gadda[3], vale a dire il ricco giacimento di oggetti d’affezione che fu «il fiore della [sua] infanzia»[4], riveste un ruolo decisivo. Il primato ideale, se non morale, spetta infatti a «quanto della vita è reificato nelle cose e negli spazi»[5], o, stando alle parole dell’Altoviti, ai «segni materiali delle mie gioie de’ miei dolori e delle mie varie vicende». «Il fatto si è», spiega ancora Carlino, «che quei simboli del passato sono nella memoria d’un uomo, quello che i monumenti cittadini e nazionali nella memoria dei posteri. Ricordano, celebrano, ricompensano, infiammano»[6]. Qualcosa di molto simile capita ai tanti alter ego, o “io” della medesima pasta, che affollano le pagine dello scrittore milanese, solo che si introduca, al posto dell’ottocentesco, psicologicamente statico e istituzionalizzato concetto di “monumento” una parola fluida ed evocativa, dal gusto forte e arcaico, come leggenda.
È appunto sugli oggetti come macchine di leggenda che vorrei concentrare il presente intervento, che necessita tuttavia di una piccola premessa teorica. Quasi alla fine di una lunga intervista rilasciata nel 1982 a Lea Vergine, Giorgio Manganelli osservava che «il quotidiano nasce dalla decomposizione del platonico»[7]. Sono parole che credo utili per comprendere appieno quale estro guidi la penna dell’autore di Centuria ma anche quella di un suo grande ammiratore come Michele Mari (nell’indice dei nomi de I demoni e la pasta sfoglia,al nome del “Manga” seguono ben cinque fitte righe di rinvii). La certezza, subentrata al giovanile sospetto, che il quotidiano sia vita avariata, incapace di eguagliare le vette dell’immaginario, spalanca un abisso tra due opposti modi di concepire il fatto letterario. Lo scrittore che accetta come una fatalità, come un dato di natura, il baco, il putrefarsi delle “illusioni” (generose e non), si proporrà di mettere a nudo il reale; viceversa, quello che rifiuta tale destino, inorridendo per il “manzoniano vero”[8], cercherà, il reale, di abbigliarlo, di vestirlo con i colori di una fantasia compensativa. Il primo scruta a fondo il qui e ora, il secondo si volge indietro, e/o altrove, arroccandosi «nel cassar de la mente», per dirla con Cavalcanti, ossia tra i bastioni dell’immaginario, del sogno, dell’artificio. L’uno si uniforma ai dettami dell’epoca della riproducibilità tecnica, l’altro si ostina a prediligere e inseguire «ciò che è fasciato dall’aura»[9]. Quest’ultimo è il puro creatore-ossesso, e dunque fantasmagonico (nel doppio senso della parola agonia: tormento terminale, ma anche indocilità, determinazione alla lotta), colui che alla via larga dell’intensificazione mimetica e della ricerca del verosimile preferirà i vicoli tortuosi dell’affabulazione e della finzione – dove, beninteso, lo attendono in agguato le proprie (private privatissime) larve mentali. Inutile aggiungere che anche la bibliofila feticista di M./Mic/Michelino[10], giusta il culto libresco del solito Carlino («per me la memoria fu sempre un libro»), rientra a pieno titolo in questo discorso, costituendo, come rilevato da Andrea Gialloreto, una precisa scelta di campo nel dissidio tra reale e ideale: «All’inettitudine a muoversi sul terreno della quotidianità fa da contraltare una dottrina “esoterica” che trova fondamento nella ratio del discorso “altro” dell’universo libresco, platonicamente astratto, assoluto e totalizzante»[11].
Pressoché ogni lavoro di Mari, da Di bestia in bestia a Leggenda privata, costituisce una dichiarazione d’intenti (e d’incondizionato amore) in favore di chi milita in questa seconda schiera, ovvero quanti alla piana restituzione del qui e ora preferiscono «l’oltranza nevrotica del sistema fantastico»[12]. In sede critico-saggistica, l’autore si spende moltissimo per “riconoscere i suoi” – i suoi modelli, cioè i suoi simili. Gran parte dell’enciclopedico I demoni e la pasta sfoglia va in direzione di un sentire estetico saldamente fondato sulla categoria premoderna del mirabile: Stevenson, London, Poe, Gombrowicz, Kafka, Borges, Conrad, Landolfi, Maupassant… per tacere degli amatissimi autori di genere. Non solo, ma Mari è pronto ad annettere al novero degli scrittori-ossessi, dei frequentatori del sottosuolo della psiche, alcuni nomi che le storie letterarie sono solite reclutare sotto le insegne dell’iperfattualità. Considera, ad esempio, Émile Zola e Primo Levi penne estrose e visionarie, versate nell’arte di dosare le spezie del fantastico, abili nel lavorare l’impasto della cronaca fino a trarne un succulento “sugo” di immaginario[13].
«Tra la realtà e la leggenda», questo il ben noto credo d’autore, «sempre meglio la leggenda»[14]. Ne consegue, in risposta ai corifei del minimalismo letterario e dell’afflato cronachistico, in dispregio di ogni «fregola dell’autentico»[15], una difesa a oltranza del diritto alla superfetazione mitologizzante, alla drammaturgia ultrasimbolica e ipersoggettiva, alla sacralizzazione del sé. Pochi autori, o forse nessuno, nutrono una fede tanto salda nel monoteismo autoriale come Mari. Ciascun libro è una cerimonia, naturalmente pagana – ogni pulsione oscillando tra orizzontalità apollinea e verticalità dionisiaca – in ricordo e celebrazione del platonico disfatto, guastato dall’ottusa ferocia dei giorni, dallo sfacelo della crescita (sfacelo colpevole, se ogni cambiamento è tradimento[16]). Essendo la vita «corruzione ed abiura», si legge nelle pagine iniziali di Tu, sanguinosa infanzia, «dovrebbe essere altissimamente morale contrapporre alla sua ruina il movimento contrario del riscatto, del disseppellimento affettuoso»[17]. Percorrendo le strade lastricate di fantasmi del fantastico, lo scrittore-ossesso intraprende senza indugi un “viaggio sentimentale” nelle contrade che stanno al di qua, o al di là, del platonico imputridito.
Tanto basti, con l’aggiunta di due rilievi. Il primo: la postura di Mari è – consapevolmente, volutamente – rituale, ciclica, antistorica, irrigidita sul già dato per sé e per gli altri, ripiegata nella «sospensione atemporale del passato remoto»[18]. Ovvero, si potrebbe osservare, ancorata a – e coincidente con – l’infanzia e la prima adolescenza della Repubblica, quei “favolosi” Sessanta in cui pareva ancora viva e praticabile l’utopia d’una via anche borghese al socialismo (prima del degrado terminale dei Settanta). Si vedano a tal proposito le implicazioni politiche sottese a un racconto apparentemente solo intimistico come Euridice aveva un cane. Il secondo (ma è un discorso che porterebbe lontano): il sanguinoso urto platonico-quotidiano potrebbe applicarsi, con qualche forzatura, anche al figlio dimezzato dal totemico dualismo genitoriale di Leggenda privata – idealista, tendente a un laico sublimare, eppure prigioniera dell’“arido vero”, la madre; tanto vulcanicamente inventivo quanto antimetafisico e avverso ai moti dello spirito il ruvido padre, che educa il figlio a colpi di abbassamento carnale-triviale del prossimo.

L’incanto e il tremore del platonico infantile
Date queste premesse, si può dire qualcosa circa il valore degli oggetti su cui chi dice “io” nei libri di Mari si sofferma con la solennità e l’attitudine contemplante di un sacerdote in raccoglimento. Non diversamente da quanto capita con le «minutaglie» e i «vecchiumi» conservati da Carlino, da un lato le “robe” più ordinarie di Michelino aspirano a venir sollevate dalla loro mediocrità “oggettiva” per assurgere alla sfera delle «cose sacre»[19], tanto più sacre quanto più consumate dall’uso reiterato; dall’altro, le più venerate particole del vissuto domandano di essere sottratte allo sfacelo del contingente, sia sul piano materiale (i giornalini incellofanati, i coriandoli di minestrina conservati tra due vetri) sia su quello trascendente, attraverso la loro ascesa all’empireo della letteratura. Ai vacui simulacri dell’insignificante età adulta, ecco contrapporsi la dolceamara pienezza fantastica delle ipersignificanti stoffe, leghe e plastiche infantili, così intimamente incistate nella corporeità fragile e incontrollabile del corpo-bambino. Il «sacrario domestico della memoria»[20], il corredo mnestico che lo scrittore si auto-tramanda[21], è un frammento decisivo del suo romanzo individuale e familiare, poi variamente declinato su carta, dosando con cura splendori e tenebre, ritegni dissimulati e plateali scatti esibizionistici. Lo dice l’estensore stesso dell’autobiografia coatta (vergata, occorre ricordarlo, dietro commissione delle accademie dei mostri) poi intitolata Leggenda privata: «tutti i miei libri ben di questo trattano, l’anima affidata alle cose e a quella cosa fissa che è il tempo»[22]. Un’asserzione che merita di essere discussa sulla scorta di quanto rilevato sinora. «L’anima affidata alle cose»: come Carlino, Michelino è quel che è in ragione di quei soldatini e di quei puzzle, di quelle macchinine marca Mercury e di quell’orsacchiotto che l’adulto, in uno slancio di ferma fedeltà al sé infantile (solitario, palpitante, nevrotico)[23], ha serbato con religiosa devozione. Di conseguenza, il tempo non potrà che essere «cosa fissa», perché l’orologio della vera esistenza si è fermato lì, a quel quadro di cristallina, astratta purezza (pur nella sua quota di ordinaria abominazione, naturalmente), teca in cui gli oggetti perdurano,sottratti all’invecchiamento, alla «decomposizione del platonico». Per dirla altrimenti: le cose, capsule del tempo che trattengono nello spazio la fuga dei minuti, inchiodandoli a una «fissità quasi minerale»[24], sono quanto di più prossimo all’energeia vitale (termine aristotelico qui da declinare in salsa magico-animistica) possa darsi. Morto è invece il tempo biologico e storico, perlomeno morto a un’esperienza che ancora palpiti di potenzialità mitopoietiche[25]. L’età adulta è insomma il punto di divaricazione tra il sé come selvaggio serbatoio di immaginario (innocente e crudele, innocente perché crudele) e il sé ridotto a composta, inerte scoria storica, un’efflorescenza di nome “michelemari” inchiodata a una realtà che non vale più la pena di trasfigurare. Per questo, come l’autore ama ripetere, dopo la giovinezza (a includere anche l’età puberale: si veda il paragrafo che segue), non c’è stato nulla di letterariamente importante: e quella specificazione, “letterariamente”, conferma quanto detto sopra circa il tipo di scrittore che Mari intende essere.

Inutile aggiungere che gli inviolabili feticci della prima età innescano una dinamica di avvitamento luttuoso, data dalla consapevolezza d’uno iato incolmabile tra l’oggetto e la situazione “oggettiva” che quello stesso oggetto ha caricato di senso. Ogni soldatino, ogni macchinina è anche un memento dell’inaggirabile destino di dissipazione del sé[26]. Ma, proprio in quanto tali, proprio per la loro intrinseca valenza funeraria, i pregiati cimeli neppure tentano di scongiurare l’urto della fine, partecipando semmai d’una spaventosa, inebriante, lugubre allucinazione: il sogno di essere morto e cristallizzato, sottratto al disfacimento, asceso alla perfezione “egizia” delle forme compiute. Del resto il rimpianto è solo uno degli aspetti che lega Michele al passato, e certo non il più significativo; ciò che più preme è semmai il pathos pensoso che quei «segni materiali» innescano. Un pathos che non tollera né ironia né straniamento, ma solo disincantata, persino stoica fedeltà ai propri privati, privatissimi fantasmi mentali. Da un Michele all’altro, viene alla mente il terminale Apicella prigioniero della piscina-cervello di Palombella rossa (Nanni Moretti, 1989), ancora un bambino-adolescente degli anni Sessanta cresciuto nel clima benigno di un certo orizzonte nazionalpopolare, ancora un adulto divorato dal tarlo del mai più: «Non torneranno più le merendine di quando ero bambino, i pomeriggi di maggio… Non torneranno più». Tra la poetica di Moretti e quella di Mari le differenze sono molte, ma ci sono anche aspetti sostanziali che accomunano questi due creatori-ossessi quasi coetanei, tra cui la nevrosi della forma, la maniacale liturgia compositiva (si tratti di perimetrare un’inquadratura o una pagina tipografica), la compiaciuta messinscena di alter ego in vesti di abominio, di creatura imbestiata, preferibilmente di licantropo («Sì, sono un mostro, e ti amo», Sogni d’oro, 1981).

Zenit e nadir del platonico adolescenziale
Il passato come paesaggio perenne, circonfuso di platonica perfezione – tempo aperto al continuo, prodigioso convivere di spavento e diletto – non resta confinato nei termini dell’infanzia, ma li eccede, sia pure di poco. Anche l’adolescenza vi è compresa, la rovina coincidendo piuttosto con “l’uscita di casa” (dalle case, spesso indomestici e perturbanti spazi fobici o perlomeno luoghi del disagio) per gli studi universitari, per la leva militare, insomma per l’inizio della vita “produttiva”, razionale, astratta e perciò affatto agra ed insulsa. «Il limitare / di gioventù», direbbe l’amato Giacomino, è la frontiera oltre la quale il motore della macchina di leggenda non può spingersi, pena il rischio di incepparsi, perdere colpi, battere in testa (donde la riluttanza di Mari nei confronti di una storia “adulta”: Rondini sul filo). Tuttavia, proprio per la posizione di confine tra platonico e quotidiano che la pubertà occupa, il “viaggio sentimentale” dello scrittore-ossesso tocca con lei la sua tappa forse più significativa. Nel (falso, mancato, se tutto contrasta con ogni psicologia evolutiva) Bildungsroman del 2017[27], oltre alla celebrazione della “roba” infantile – e relative funzioni, spesso meschinelle, del corpo-bambino – l’emergenza e l’urgenza delle pulsioni di una carne fattasi, da inerme, prepotente, mannara, occupano un posto di grande rilievo.
Il «reliquiario della memoria» di Carlino, si ricorderà, «principia colla ciocca di capelli fattasi strappare dalla Pisana», poi per tutta la vita conservata «fra le mie cose più care»[28]. Nel «museo» dell’ottuagenario patriota veneziano “il riccio rapito” rappresenta l’highlight, la stella più brillante, il dolcissimo, possente dominator di mia profonda mente. Il suo corrispettivo nelle “confessioni” del sessantenne Mari è un dispositivo erotico-sentimentale che nel sacrario di Michelino non c’è, manca, né del resto lo ha mai posseduto. Alludo naturalmente allo zoccolo della giovane barista della trattoria Bergonzi, variamente definito come l’«oggetto dominatore»[29], il «feticcio supremo»[30], l’«amuleto supremo»[31], la «reliquia»[32] «che non è imago del dio, ma è tutto il dio, almeno per chi come me tende al pagano»[33]. Il ruolo di questo oscuro oggetto del desiderio adolescenziale, sospeso tra supplizio ed estasi, «quasi il compendio simbolico dell’amor mio»[34], è, nell’economia del testo, vario e articolato.
Uno, molto esibito, è il valore dell’emblema bifronte: ora blasone stilnovista (il calzare della dea), ora, con moto libidico inverso, dunque perverso, disgustosa spia della più animalesca istintualità (il lercio zatterone). Da qui lo stuzzicante ossimoro della di lei «celestiale volgarità»[35], zenit e nadir delle ambigue potenzialità del platonico. Il riaffiorare involontario, per moto proustiano, dello zoccolo, fa della giovane una figura letteraria al cubo, la ascrive a una lunga genealogia cui appartengono sia le dame imparadisiate dai poeti cortesi sia quelle degradate dai versificatori comico-realistici – e poi, giù per li rami, le Angeliche eternamente sfuggenti, le etereo-sensuali dei romantici, fino alla landolfiana donna-capra Gurù della Pietra lunare e alla Lolita di Nabokov[36]. Ma ne fa anche, si potrebbe dire, una Pisana in sedicesimo, come lei creatura fluttuante, un po’ messaggera divina, un po’ vaso di inconfessabili voluttà. Una doppia natura confermata da tutti gli sguardi, i fatti e i senhal, per dirla con Zanzotto, che pagina dopo pagina ce la restituiscono, insieme con gli specifici oggetti di cui è dispensatrice (i paradisiaci gelati industriali da lei venduti) e con i dettagli abietti (ergo eroticamente stimolanti) della sua carnale immanenza: su tutti, la sudicia pianta dei piedi. Anche il moltiplicarsi dei nomi di lei, l’appellazione polionomastica che di volta in volta la chiama in causa[37], contribuisce a confermarne la fisionomia sfaccettata, prismatica, in certa misura echeggiante la plurivoca natura della stessa voce narrante – che di volta in volta è ciò che gli altri, nominandolo, lo fanno essere: tuo figlio (di Enzo), tuo figlio (di Iela), Michel-ino, il doppio subumano gheri ecc. Conclusa l’età dei soldatini, insomma, resta ancora un’ultima possibilità di leggenda nello squasso dei sensi: ed è interessante notare come l’insistenza adolescenzial-liceale sugli stilemi stilnovistici faccia distintamente risuonare nella prosa di Leggenda privata i versi di Cento poesie d’amore a Ladyhawke. Testo di identica vis automitopoietica, il canzoniere dell’idillio negato è un’altra opera in cui suggestioni filmiche e letterarie, lacerti di vissuto, feticismo di oggetti e fantasmi, concezione della donna come creatura orbitante tra gli opposti fuochi d’un desiderio ora basso-corporeo ora orfico-cosmico si intrecciano inestricabilmente.
L’altro aspetto notevole dello zoccolo-reliquia – ultima Thule calzaturiera, corrispettivo della scarpetta da calcio poi mestamente rimpiazzata dal marziale, e terminale, anfibio[38], quindi dalle acherontee scarpe formali – su cui vale la pena soffermarsi è l’esplicitato parallelo con il Rosebud del magnate Charles Foster Kane[39]. Quarto potere è una delle tante emozioni culturali che cortocircuitano col vissuto nelle opere di Mari, nel caso specifico all’intersezione esatta tra “roba” e leggenda. L’estensore dell’autobiografia ad usum monstrorum racconta infatti di essersi affannato a ricercarlo, il sospirato socco, scandagliando i locali dell’ex trattoria Bergonzi, nel tentativo di farsi «antiquario» (ancora un lemma altovitiano) di sé. Tuttavia la possibilità di farlo proprio, di riservargli il posto d’onore nel suo “museo” resterà una fantasia inappagata – né potrà davvero compensare quel vuoto l’acquisto di un cimelio vicario, il frigorifero-Algida già contenitore dei gelati dispensati dalla Ragazza dai Molti Nomi[40]. Non così era stato per Carlino, fedele e geloso custode delle ciocche sottratte alla Pisana in vita e in morte[41]; non così per Kane, che il suo slittino lo aveva sempre avuto a portata di mano, per quanto dimenticato, smarrito in mezzo al ciarpame indiscrinatamente accumulato nei magazzini di Xanadu (Candalù). Cosa rende dunque comparabili i due oggetti? Intanto, il moto regressivo della memoria e della psiche di due personalità similmente solitarie, ossessive e titanicamente narcisistiche. La fissazione di Kane per l’infanzia condensata nello slittino e quella di Michelino per l’adolescenza compendiata nello zoccolo sono due diversi, ugualmente disperati tentavi di ricomporre (o, forse, istituire di bel nuovo?) un certo rapporto tra idea e cosa: ciò che era ma non è più, o meglio ciò che non è mai stato ma avrebbe dovuto essere, o forse più esattamente quello che alla luce dei ricordi (quanto affidabili?) sembrerebbe esser stato.

Ma, soprattutto, si tratta di due oggetti terminali, nostalgiche concrezioni d’una ben più profonda nostalgia (id est: nevrosi della fine). Nel film, il balocco al centro dei pensieri di Kane conosce una lenta agonia; sotto il crepitare della fiamma, strato dopo strato la vernice si stacca, il legno avvampa e si riduce in cenere, finché la scritta Rosebud scompare per sempre[42]. La bocca di quel forno è la scena su cui si consuma l’ultimo atto della vita del magnate, il quale teatralmente spira con sulle labbra la parola Rosebud[43]. Lo slittino in fiamme, arso dagli ignari operai della tenuta (Throw That Junk!), è un esempio perfetto, letterale, di platonico andato a male, divorato dal tempo edace e tradito da chi avrebbe dovuto proteggerlo. In Leggenda privata, Mari gioca – ironicamente, ma ogni sorriso piega sempre, nelle sue pagine, in smorfia – a sovrapporre i due oggetti d’affezione, quello di Michelino e quello di Kane, uniti nel fuoco: «cosa ci avrei fatto, se lo avessi trovato? Non oso pensarci: certo so che avrei lasciato disposto fosse cremato insieme a me, nel tristissimo forno di Lambrate»[44]. L’estensore dell’autobiografia coatta sa che questo non accadrà mai, che all’oggetto, al soggetto e a ciò che li lega (il platonismo) non sarà dato ardere in una medesima vampa. Eppure, l’ingiunzione dei mostri un effetto lo ha sortito: grazie a loro quella perduta capsula del tempo è diventata un pezzo di immaginario. Al pari delle guazze di Lucia, della «faticosa tela» di Silvia e delle ciocche della Pisana, se prendesse la parola con una prosopopea non estranea alla corda di Mari la vile pianella dall’ignoto destino potrebbe ora a giusto titolo dire di sé: Io sono leggenda.
A mo’ di breve conclusione
Gli oggetti che alimentano il motore auto-mito-biografico di quell’«unico metalibro»[45] che è l’opera in prosa e in versi di Michele Mari hanno la funzione di interruttori, ri-attivano i sogni e gli incubi della giovinezza, segnando la riscossa, sia pure parziale ed effimera, del platonico sul quotidiano, il risarcimento fantastico che lo scrittore-ossesso non solo chiede, ma rivendica, pretende come suo diritto inalienabile. La letteratura, dunque, come macchina di leggenda che compie il proprio “viaggio sentimentale” a ritroso, nel tempo immobile, ma quanto disperato, beato, furente, vivo dell’ei fu michelino. Una strada del tutto divergente, lo si capisce, rispetto all’idea del fatto letterario come restituzione imitativa del “vero vissuto”, tanto più ambigua quando chi scrive dichiari, o lasci intendere, un forte sostrato autobiografico. «Perché questo noi siamo: la nostra scrittura e le nostre cose»[46], sintetizza Mari: che è poi la risposta materialisticamente, idealisticamente più recisa che possa darsi al Non chiederci la parola montaliano.
[1] I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, a cura di M. Gorra, Mondadori, Milano 1981, p. 137.
[2] Ivi, p. 139.
[3] C. E. Gadda, Accoppiamenti giudiziosi 1924-1958, a cura di P. Italia e G. Pinotti, Adelphi, Milano 2011, p. 340. E Mari: «quel bicchiere è oggi fra le mie cose, e quando dico mie dico mie» (M. Mari, Leggenda privata, Einaudi, Torino 2017, p. 115).
[4] M. Mari, Tu, sanguinosa infanzia [1997], Einaudi, Torino 2009, p. 8.
[5] M. Mari, Prefazione a Id. e F. Pernigo, Asterusher. Autobiografia con feticci, Corraini, Mantova 2015, p. 6 (del libro esiste anche un’edizione accresciuta, apparsa per lo stesso editore nel 2019). Di «energia del passato» «plasticamente reificata» lo scrittore parla a proposito di Tommaso Landolfi: cfr. Id., I demoni e la pasta sfoglia, Il Saggiatore, Milano 2017, p. 205.
[6] I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, cit., p. 138.
[7] G. Manganelli, La penombra mentale. Interviste e conversazioni 1965-1990, a c. di R. Deidier, Editori Riuniti, Milano 2001, p. 123.
[8] «Per chi da sempre nei romanzi aborre / il manzoniano vero» (M. Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Einaudi, Torino 2007, p. 29).
[9] Id., Tu, sanguinosa infanzia, cit., p. 6. Si ricordino a tal proposito le parole di Eric Auerbach in Tutto il ferro della torre Eiffel – «Perché l’arte era forma, era ritmo, era segno, ma ciò a cui s’aggrappava erano le cose, ed erano le cose ad essere ricordate dai lettori e dagli spettatori, le orride cose che sopravviveranno, le cose di cui lui, morbido bibliotecario e filologo solo, anelava come alla ruvida vita delle genti (Einaudi, Torino 2002, p. 17) – e il commento che ne fa C. Mazza Galanti in Michele Mari, Cadmo, Fiesole 2011, pp. 23-25.
[10] Lista cui andrebbero aggiunti altri “sé rimpiccioliti” come il Marcellino e il Corradino di Fantasmagonia (Einaudi, Torino 2012).
[11] A. Gialloreto, Di bestia in bestia, di libro in libro. Il maniero-biblioteca di Michele Mari in A. Dolfi (a cura di), Biblioteche reali, biblioteche immaginarie. Tracce di libri, luoghi e letture, FUP, Firenze 2015, p. 224.
[12] M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 207.
[13] Cfr. C. Mazza Galanti (a cura di), Scuola di demoni. Conversazioni con Michele Mari e Walter Siti, Minimum Fax, Roma 2019, p. 36 e 42-3, oltre alle pagine a loro dedicate ne I demoni e la pasta sfoglia.
[14] Ivi, p. 62.
[15] M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 539.
[16] «le cose invece non tradiscono mai perché sono fedeli innanzitutto a se stesse, nell’autofeticismo» (Id., Leggenda privata, cit., p. 82).
[17] Id., Tu, sanguinosa infanzia, cit., p. 4.
[18] C. Mazza Galanti, Michele Mari, cit., p. 58.
[19] M. Mari, Tu, sanguinosa infanzia, cit., p. 6.
[20] I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, cit., p. 139.
[21] Prelevo il sintagma «corredo mnestico» da A. Cortellessa, Overlook Univers in F. Favelli, Univers. Un negozio metafisico, Magonza, Arezzo 2018, p. 32. Il critico istituisce un arguto nesso tra il lavoro dell’artista bolognese e l’opera di Mari, parlando, per il primo, d’una «sanguinosa infanzia» (Ibid.).
[22] M. Mari, Leggenda privata, cit., p. 7.
[23] Cfr. ivi, p. 5.
[24] Id., Euridice aveva un cane [1993], Einaudi, Torino 2004, p. 62.
[25] Sulla crescita come tradimento del sé bambino resta esemplare questo brano de L’uomo che uccise Liberty Valance: «Oh papà, com’è stato possibile che un giorno io abbia smesso di pensarci? Io, che per tutta la vita sono sempre stato un feticista e un conservatore morboso di tutte le cose mie, io che tutto archivio con affezion maniacale, com’è stato possibile che io abbia tradito tante volte?» (M. Mari, Tu, sanguinosa infanzia, cit., p. 14). Parimenti paradigmatica la dichiarazione «vorrei non crescere mai» del Michelino di Verderame (Einaudi, Torino 2007, p. 154).
[26] Altrove avevo parlato di “collezioni di ceneri”: R. Donati, I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi, Bulzoni, Roma 2010, pp. 213-233.
[27] Questa la dubbia etichetta che la scheda editoriale del sito Einaudi attribuisce a Leggenda privata: «Un romanzo di formazione giocoso e serissimo che è anche un atto di coerenza verso le ragioni piú esose della letteratura» (https://www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/leggenda-privata-michele-mari-9788806228958/; ultima consultazione 28/10/2020).
[28] I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, cit., p. 785.
[29] M. Mari, Leggenda privata, cit., p. 27.
[30] Ivi, p. 42.
[31] Ivi, p. 126.
[32] Ivi, p. 43.
[33] Ivi, p. 27.
[34] Questo non è Michelino, ma Carlino, ancora in riferimento alla ciocca della Pisana: I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, cit., p. 850.
[35] M. Mari, Leggenda privata, cit., p. 126.
[36] Cfr. A. Cortellessa, Michele Mari, il ritorno del Demone, pubblicato online sulla rivista “Doppiozero” (disponibile alla pagina https://www.doppiozero.com/materiali/michele-mari-il-ritorno-del-demone. Ultima consultazione 28/10/2020). Ma la Ragazza Con gli Zoccoli ha perlomeno una antecedente anche nella produzione d’autore, se pensiamo alla «mútola» del racconto Cicoria matta: «Oh mútola mia pensò di dirle, farmi la ritrosa così, tu, una scema che nessuno la guarda? Poi sentì l’impulso di gettarsi ai suoi piedi per adorarla come una dea, poi considerò la possibilità di saltarle addosso e strapparle via quella gonnaccia di fustagno» (M. Mari, Euridice aveva un cane, cit., pp. 27-28; anche questo personaggio è una riscrittura landolfiana, come mi ricorda lo stesso Cortellessa). Per una figura compiutamente platonica si ricordi invece l’«irraggiungibile» Laurín del racconto L’ora di Carrasco.
[37] L’allusione è al celebre saggio di L. Spitzer, Prospettivismo nel Don Quijote, traduzione di R. Radicati di Marmorito, in Cinque saggi di ispanistica, presentazione e contributo bibliografico di G. M. Bertini, Giappichelli, Torino 1962, pp. 57-106.
[38] Il riferimento è ovviamente al sé coscritto di Filologia dell’anfibio. Diario militare [1995], Einaudi, Torino, 2019.
[39] «Rosabella appare nel film sia come un oggetto concreto (la slitta) che come un oggetto concettuale (il significato o l’idea che riassume la vita di Kane). La differenza tra questi ultimi, comunque, tra Rosabella come oggetto e Rosabella come concetto, è irriducibile» (J. A. Bell, Il cinema del tempo. Deleuze, la fenomenologia e la differenza nell’opera collettiva Deleuze e il cinema francese, a cura di M. Bertolini e T. Tuppini, Mimesis, Milano 2002, p. 33). Il film è ricordato in M. Mari, Leggenda privata, cit., pp. 28-29.
[40] Cfr. ivi, pp. 125-6.
[41] Si ricorderà come, dopo la scomparsa dell’amata, Carlo associ baciandole due ciocche che condensano la di lei parabola vitale: «l’una l’avea strappata dai bei ricci della Pisana fanciulletta; l’altra l’aveva tagliata religiosamente sulla pallida fronte della Pisana morta» (I. Nievo, Confessione di un Italiano, cit., p. 948; da sottolineare quel “religiosamente”).
[42] Non a caso del frigorifero, misero succedaneo, si farà attenzione a conservare la vernice, in una scena che cita Bioy Casares ma è pure batailliana: «gli ho dato una bella pulita, stando attento a non scrostare la vernice: come vorrei che dietro si materializzasse lei! Mi accontenterei anche di un ologramma, come quelli di Morel: non avrebbe sostanza corporea, ma ci potrei passare attraverso, potrei posizionarmici dentro in modo da coincidervi: il sogno del feticista!» (M. Mari, Leggenda privata, cit., p. 125).
[43] Si ricordi poi che Kane è, a sua volta, un personaggio mostruoso: a ogni intervista Welles ne ribadiva la natura di uomo corrotto e interiormente vacuo, abominevole, precisando che non si trattava di una figura autobiografica. «No, Peter, I have no “Rosebuds”» (O. Welles and P. Bogdanovich, This is Orson Welles, Jonathan Rosenbaum, New York 1992, p. 92).
[44] M. Mari, Leggenda privata, cit., p. 29.
[45] Il sintagma è d’autore: cfr. Id., Prefazione a Id. e F. Pernigo, Asterusher, cit., p. 7.
[46] Ivi, p. 8.
In copertina: Michele Mari