Il dialogo prende spunto dal saggio di Federica Muzzarelli, Susan Sontag, Sulla fotografia, contenuto nel volume a più voci Nuove visioni. I grandi libri della fotografia (Contrasto 2020, pp. 144, € 19), nel quale vengono presi in esame sette classici della fotografia (e del pensiero sulla fotografia). Gli autori, oltre a Muzzarelli, sono Giovanni Chiaramonte, Claudio Marra, Daniela Persico, Ferdinando Scianna e Michele Smargiassi; i classici sono, oltre a Sontag, Barthes, Benjamin, Cartier-Bresson, William Klein, Moholy-Nagy e Minor White.
Negli anni Settanta, Susan Sontag pubblica alcuni saggi su The New York Review of Books; in seguito quei testi sarebbero stati ricordati come una riflessione sulla complessa e – ormai pluri-esplorata – dicotomia realtà e immagine nell’esperienza del fenomeno-fotografia diffuso a partire dal 1839. Nel 1976, Sontag, durante l’accorpamento e revisione, invece di completare On Photography (1977) avrebbe preferito iniziare a scrivere il suo libro Illness as Metaphor (1978)1. Più esplorava l’estetica della fotografia, più si interessava al fatto che le fotografie fossero solo un piccolo pezzo di verità o di realtà manipolabile (consapevolezza presente dalle origini). In ogni caso, Sontag analizzando il fenomeno dal suo specifico punto di vista (rispetto al vasto campo dell’utilizzo della fotografia) sottolineava – nel solito modo apodittico – che “fare una fotografia significa avere interesse per le cose quali sono”. Tuttavia, la sua fiducia o sfiducia nelle immagini, nell’analisi delle relazioni di potere, nella necessità di rendicontare il mondo attraverso la fotografia seppure nell’indicazione di un’assenza, stava tutta nel ragionamento, nel discorso, tanto che nessuno di quei saggi conteneva una singola fotografia, né come esemplare né come illustrazione3.
Un anno prima di morire, Susan Sontag era riuscita a terminare il suo ultimo libro Regarding The Pain Of Others (2003)4. Ancora una volta, Sontag – malata – si stava occupando di immagini, ma questa volta il presupposto, già dal titolo, era diverso. L’etica prima dell’estetica. Davanti al dolore degli altri assumeva il compito di un aggiornamento, di una risposta a sé stessa e, di sicuro, sebbene Sontag non amasse le metafore e fosse una realista (“la realtà continuerà a esistere, anche dopo di noi”), Davanti al dolore degli altri sarebbe stato soprattutto un congedo.
“Non ce la facciamo. Non riusciamo a immaginare davvero come è stato. Non possiamo immaginare quanto è terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventa. Non capiamo, non immaginiamo. È questo ciò che pensano con convinzione tutti i soldati, e tutti i giornalisti, gli operatori umanitari, gli osservatori indipendenti che si sono ripetutamente esposti al fuoco e hanno avuto la fortuna di eludere la morte che ha falciato chi stava loro vicino. E hanno ragione”.
Nel 2004, alla fine di marzo, Susan Sontag – a 71 anni – aveva ricevuto una diagnosi di cancro del sangue, due volte aveva attraversato l’esperienza del cancro al seno, due volte aveva – grazie alle cure – ritardato la fine. Nell’aprile del 2004, tra le ultime immagini di guerra viste da Sontag prima di morire (sarebbe morta il 28 dicembre 2004), ci sono state le fotografie delle torture nel carcere di Abu Ghraib, diffuse durante il programma televisivo della CBS, 60 minutes.

Abu Ghraib era stata una delle prigioni di Saddam Hussein, prima di passare sotto il controllo degli Stati Uniti. Le immagini mostravano soldati americani – donne e uomini – che torturavano civili iracheni: li incatenavano ai muri; li costringevano a stare in posizioni dolorose e umilianti; i prigionieri erano obbligati a rimanere uno sul corpo dell’altro, in forma di piramidi umane. Proprio ad Abu Ghraib si sarebbe superata l’implicita questione morale del reporter impossibilitato a intervenire benché testimone, come era stato a partire dalle atrocità della guerra disegnate da Jacques Callot, nel 1633: diciotto acqueforti – Les Misères e les Malheurs de Guerre –raffiguranti le torture commesse contro i civili dalle truppe francesi durante l’invasione e l’occupazione della Lorena. In seguito ci sarebbero stati i fotoreporter, e gli operatori dei telegiornali di tutto il mondo, divulgatori di immagini a distanza, di bombardamenti e relative distruzioni spettacolari; e infine la sostituzione degli operatori con i droni raccoglitori di immagini, al medesimo tempo per necessità di combattimento attivo e archivio.

Dalle fotografie scattate con i telefonini ad Abu Ghraib noi, eterni spettatori, avevamo già potuto dedurre, lasciando depositare il tempo dello choc, che Geffrey D. Miller, Ricardo Sanchez, Lynndie England, Sabrina Harman, Charles Graner, Ivan Frederick, Megan Ambuhl, quegli specifici (militari) americani, avevano avuto l’opportunità di rimuovere la propria condizione di lavoratori della tortura (è stato accertato che eseguivano gli ordini), nonché la tragedia della crudeltà personale e persistente, tramite la fotografia digitale, immediatamente a disposizione (in versione “positivo”, senza la procrastinazione del “negativo” da sviluppare). L’esaltazione del presente, diventato un vero e proprio stato mentale imprescindibile, così come le immagini registrate con i telefonini, non sarebbero rimaste sepolte nelle cantine o condivise solo tra i responsabili delle atrocità. Le immagini digitali delle torture erano state implicitamente scattate per essere condivise (consapevoli o meno ne fossero gli autori). Le fotografie non corrispondevano a un singolo istante di smarrimento o pentimento di uno dei protagonisti-torturatori, esistevano proprio nella necessità di una rimozione collettiva. Sarebbero state inviate agli amici, in quanto parte cruciale della realtà che continua ad esistere anche dopo di noi, deresponsabilizzata (e qui è valido qualunque refrain del carnefice-vittima, mutuabile da “abbiamo solo eseguito gli ordini”). Insomma, una nuova èra a fronte dei medesimi Funny Games5. Sempre esposti eppure mai realmente puniti o definitivamente redenti e perdonati in previsione di un reale: “non succederà mai più”.
Qualche mese prima, nel febbraio del 2004, Mark Zuckerberg e i suoi compagni universitari di Harvard avevano acceso la piattaforma Facebook. Nel 2005 era stata messa a disposizione del pianeta la musica pop, rock, classica, tramite YouTube. Nell’equivalenza del tempo privato e del tempo pubblico si sarebbe così superata la sottintesa questione dello spettatore, costretto nella condizione morale del voyeur, spettatore che ora poteva assumere l’investitura definitiva del complice, fattivamente ipotizzato e descritto appunto da Sontag.

Dopo la pubblicazione del saggio Davanti al dolore degli altri, Sontag aveva deciso di sottoporsi a un trapianto di midollo osseo. Mentre subiva il doloroso trattamento, la compagna Annie Leibovitz accumulava immagini di Susan Sontag morente: gonfia, contorta e poi morta. Dopo la morte di Susan Sontag queste immagini sono state pubblicate, quadri di una vita destinata a finire, accompagnata da un dolore (fisico e reale)6. “Nell’era dei modelli cibernetici la mente continua ad apparirci, come gli antichi la immaginavano, uno spazio interiore simile a un teatro in cui visualizziamo delle immagini che ci consentono di ricordare”. Eppure, guardando l’immagine del corpo imbalsamato, la deposizione di Susan Sontag, non pensiamo alla storia della malattia del corpo o al doloroso passaggio tra vita e morte, né Sontag era specificatamente interessata a raccontarlo in soggettiva; noi memorizziamo l’immagine definitiva della malattia e della morte. Qualcosa alla terza persona.

(dal libro di A. Leibovitz, A Photographers’s Life, 1990-2005)
Sontag era consapevole di cosa stesse realizzando Leibovitz ed era stata lei stessa ad incoraggiarla. Sapeva che sarebbe stata fotografata viva e morta. Moltissimi artisti fotografano il padre, la madre, i fratelli morti. Sontag sapeva che Leibovitz l’avrebbe vestita con l’abito tessuto da Fortuny, comprato a Milano così come sapeva che lo spettatore avrebbe visto gli ematomi causati dalla chemioterapia, ma ciò che conta è che quella Sontag rappresentata non sarebbe stata a sua volta spettatrice dell’immagine del corpo morto a seguito di una penosa malattia; per una volta non si sarebbe trovata di fronte al dolore provato da qualcun altro. Susan Sontag sarebbe rimasta dall’altra parte; poteva offrire qualcosa, fare la pace, la pace per un’epoca vissuta da voyeur, per un’epoca di macerie: “Noialtri, che lo vogliamo o no, siamo tutti voyeur”. Con il termine voyeur, Susan Sontag si riferiva a tutti coloro che – nati dopo il nazifascismo – dopo le fotografie di Bergen-Belsen guardavano gli orrori da spettatori, impotenti. Ora che viviamo connessi 24 ore al giorno, comprendiamo meglio: spettatrice-spettatore è qualcosa che fa sentire impotenti.

Sempre nel Dolore degli altri, Sontag scriveva: “Spesso non riusciamo neppure a comprendere le sofferenze di chi ci è vicino. […] Nonostante la fascinazione voyeuristica – e l’eventuale soddisfazione di potersi dire: Non sta accadendo a me, non sono malato, non sto morendo, non sono intrappolato in una guerra – sembra normale allontanare da sé il pensiero delle tribolazioni degli altri, anche di quegli altri con cui sarebbe facile identificarsi”. Le immagini non andranno via, pare che questa sia la natura del mondo digitale in cui viviamo, ma questa – a dire il vero – è la nostra natura, dal tempo delle caverne all’immagine – giunta qualche giorno fa – da Marte fino a qui, grazie a Perseverance!
Sabrina Ragucci: Cominciamo dal titolo. Paradossalmente, in parte rifiutandola, di recente David Campany, nel saggio Sulle fotografie (Einaudi 2020) ci induce nuovamente a confrontarci con Susan Sontag. Il titolo Sulle fotografie, dice Campany, glielo ha indicato proprio Sontag. Un suggerimento augurale: riuscire in futuro a scrivere una variante del suo molto citato – e studiato da generazioni – Sulla fotografia, testo giudicato dall’autore un’analisi troppo vincolata all’aspetto sociale intrinseco al fenomeno. “Forse un giorno sarai tu a scrivere un libro intitolato Sulle fotografie”. In Nuove visioni, edito da Contrasto, lei ci ricorda che i saggi di Sontag sono anche una sorta di fotografia comparata alla storia dell’arte, della sociologia, dell’antropologia, della politica, e insomma proprio questo aspetto diventa un difetto per gli studenti contemporanei, manca un preciso filo conduttore; difetto che finisce per costituirne però l’essenza indemandabile per chi si accinga a indagare il sempreverde “fenomeno fotografia”; oppure è più corretto considerare Sontag una scrittrice?
Federica Muzzarelli: Non penso che decidere se per Sontag valga la definizione di scrittrice o di studiosa/saggista di fotografia sia importante ai fini della valorizzazione del suo contributo. Roland Barthes, come sappiamo, non era uno studioso o uno storico della fotografia in senso stretto. Eppure, le sue parole, i suoi pensieri, anche proprio perché riferiti alla “sua” fotografia nella Camera chiara, rimangono tra i più citati tra le idee della fotografia. Marcel Proust ha usato la fotografia per esprimere alcuni dei concetti più emozionanti che si possano dire sull’esperienza che essa ci permette del mondo, come quando la definisce un incontro prolungato. Insomma, non tutti quelli che si occupano di fotografia la pensano così, ma io sto con quelli che per parlare di fotografia usano le parole e i pensieri degli artisti, degli scrittori e dei registi ancor più, o ancor prima, degli storici della fotografia. Per questo, studentessa, rimasi affascinata durante la mia prima lezione di fotografia che si aprì parlando della Sontag e che ricordo nel libro. Per questo, da docente, uso ancora le sue lapidarie definizioni per parlare di fotografia. Per quella trasversalità, per quella contaminazione di linguaggi, per quel modo anche discontinuo che attraversa i territori del personale e dell’autobiografico, che ne costituisce ancora oggi la complessità e insieme la ricchezza.
S.R.: Focalizzando l’attenzione sui primi due saggi di Sontag e partendo da una delle affermazioni presenti nel primo Nella grotta di Platone, “[La fotografia] è soprattutto un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno strumento di potere”. Sontag sostiene che “fotografare diventa un modo di placare l’ansia”. A lato degli esempi da lei citati, giustamente molto diversi tra loro (Primoli, Lartigue, Mapplethorpe, Goldin, Tillmans, Richardson, Teller), in che modo si passa dal fenomeno “non ha molta importanza quali attività vengano fotografate, purché si facciano e si tesaurizzino le foto”, all’attuale svolta verso il melodramma digitale, un burn-out inestricabile? Non ha importanza che si tesaurizzino le foto, l’importante è sfogarsi?
F.M.: È vero, nelle due affermazioni cui lei fa riferimento si pone l’accento su due esigenze che appaiono contrapposte. Provo a dire perché, invece, non sono forse così lontane come sembra. Anzitutto credo si debba focalizzare bene di cosa stiamo parlando, cosa che non è sempre chiara. Con la parola fotografia nominiamo un oggetto, comunque un’immagine, che sia stampata o imprigionata su pixel in formato digitale. Ma usiamo la stessa parola, fotografia, anche quando poniamo l’attenzione sull’atto, la prassi, il processo, insomma per tutto quello che, concettualmente e cioè fisicamente e psicologicamente, si mette in moto quando siamo potenzialmente fotografi (che, oggi, equivale a dire una condizione costante e continua). Condizione possibile, in teoria, anche senza avere una macchina fotografica a portata di mano… Difficile dare torto alla Sontag quando affermava che fotografare (l’azione, l’atto) può essere un modo per placare le nostre ansie: cosa sono i selfie se non una verifica ossessiva di esistenza, di identità, di presenza a noi e al mondo? Il burn-out che ci minaccia oggi non contraddice, semmai avvalora ancora di più quella riflessione sull’impulso a fotografare come un antidoto all’angoscia, un’azione compulsiva dettata dal bisogno di sfogo e decompressione. Se poi ci concentriamo sull’auspicio a tesaurizzare e conservare le fotografie, certo, la riflessione della Sontag non può che segnare il passo per il fatto di essere stata scritta in epoca pre-digitale. Ma anche su questo, e tenendomi ben lontana da commenti moraleggianti, concordo con chi sottolinea che il digitale non rappresenta una rivoluzione radicale della filosofia della fotografia. Certo ha spinto l’impulso a produrre immagini in modo enorme, ha accresciuto il bisogno dell’esibizione egocentrica grazie al veicolo offerto dai social media. Ma il perché facciamo fotografie, anzitutto, mi pare sia fondamentalmente sempre quello che ha spinto Baudelaire a sedersi davanti a Nadar: il non omnis moriar di Orazio, insomma.
S.R.: C’è un punto Nella grotta di Platone (è una caratteristica abbastanza frequente nella sua produzione) in cui Sontag si contraddice nello spazio di pochi capoversi: “fotografare è essenzialmente un atto di non intervento […]. Chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire”; e poi : “anche se incompatibile con un intervento fisico, l’usare una macchina fotografica è comunque un modo di partecipare, la macchina può essere un osservatorio, ma il fotografo è qualcosa di più di un osservatore passivo”. Per concludere nel 2003, in Davanti al dolore degli altri: “L’attività fotografica è governata da una caccia alle immagini più drammatiche che è del tutto normale in una cultura in cui lo shock è divenuto uno dei più importanti criteri di valore e incentivi al consumo”; e poi: “Le intenzioni del fotografo non determinano il significato della fotografia, che avrà vita propria, sostenuta dalle convinzioni delle varie comunità che se ne serviranno.” Sontag sembra costantemente pervasa da un dilemma morale: quale impatto ha la morale moderna nella impronta saggistica di Sulla fotografia?
F.M.: In una raccolta di saggi che sono a loro volta nati autonomamente e poi ripubblicati insieme, saggi volutamente aggrappati a una scrittura intessuta di definizioni apodittiche, quasi assiomi, intervallati da continue citazioni, paragoni, riferimenti multipli, ci sta che il filo del ragionamento non sia sempre rigoroso, che esso si possa anche contraddire e presentarsi in modo non perfettamente speculativo. È proprio ciò che più sopra definivamo la ricchezza e la difficoltà di questo testo a servire come bibliografia universitaria. Certo lettura consigliatissima. Detto questo, il riferimento che lei riprende, oltre la contraddizione, è di nuovo uno spunto interessante. La fotografia è una pratica attiva nel mondo. Se fotografo non posso fare altro. Se fotografo la guerra, non posso aiutare al contempo i bambini sotto le bombe. Testimonierò il massacro, ma non avrò evitato che accada davanti ai miei occhi. Su queste idee, qui riassunte in modo anche un po’ banale, si sono giocati dibattiti sul ruolo e la morale del fotogiornalismo. La Sontag argomenta questi assunti ma va oltre. Ci dice che l’esibizionismo vive di voyeurismo. Che se non ci fosse un occhio avido che cerca e aspetta l’evento, l’evento stesso avrebbe poco interesse a darsi. Ci dice insomma, che è vero che la macchina fotografica è un freddo strumento che registra, ma anche che tutti siamo consapevoli che dietro a quello strumento c’è un occhio che aspetta. Causa ed effetto, domanda e offerta. Non ci possiamo sottrarre alla marea che ci inonda di immagini, ma più ne siamo invasi e più ne chiediamo. Baudelaire, ancora lui, salutò l’avvento dell’epoca fotografica parlando di occhi avidi che da allora si chinarono sui lucernari dell’infinito.
S.R.: E a proposito di approccio morale, lo spettatore analizzato da Sontag sembra un voyeur di se stesso alla deriva. Il secondo capitolo di Sulla fotografia è infatti dedicato a L’America vista nello specchio scuro della fotografia. L’evoluzione dello spettatore-uomo medio, visto per ciò che è pronto a recepire, come il personaggio della Famiglia dell’uomo, nella nota mostra del MoMA (1955), curata da Steichen, che attraversa la sua condizione umana in una visione pressoché semplicistica di famiglia e gioia, per giungere stremato alla mostra dedicata a Diane Arbus nel 1972 (poco dopo il suicidio dell’autrice, il 26 luglio 1971), “siamo tutti soli, siamo tutti sostanzialmente freaks”. Il personaggio della Famiglia dell’uomo, da reduce inossidabile della guerra in Corea, diventa reduce colpevole della guerra in Vietnam. Come possiamo sintetizzare lo sguardo di Sontag, il ruolo di fotografo e quello di spettatore, in questo secondo saggio?
F.M.: Ho sempre trovato l’analisi dell’America (degli USA), filtrata dalle mostre di Steichen e Arbus, uno dei punti più interessanti del saggio della Sontag. Probabilmente per il tono caustico, volutamente polemico e antiamericano (nel senso dell’American Beauty di Sam Mendes), che mi immagino la studiosa americana si divertisse un mondo a usare. L’idea è che il MoMA (con la nascita del Dipartimento di Fotografia che segnò la distanza tra chi sarebbe stato capace di affrontare, metabolizzandole, le nuove sfide culturali e chi non lo sarebbe stato), giocava un ruolo determinante per studiare, definire e prevedere l’immaginario collettivo di una grande società contemporanea. Allora, dalla politica culturale del Direttore-curatore Edward Steichen, dalle mostre ideologiche che dovevano raccontare il coraggio e le sfide della potenza americana che fronteggiava il nemico di là dall’Oceano, si arrivò in vent’anni a mettere in mostra i nemici più vicini, quelli che vivevano poco più in là delle rassicuranti casette con la bandiera issata e che, per questo, erano avvertiti come ancora più pericolosi. Quest’ultimo fu lo shock provocato dalle immagini di Diane Arbus nella mostra New Documents curata da John Szarkowski. Ecco, credo che tra la rassicurante utopia di Steichen, ben espressa e condensata poi in The Family of Man, e lo sguardo disorientante provocato dai freaks di Arbus stia tutta la parodia, ma anche la forza, della fotografia americana della seconda metà del Novecento.
AA.VV.
Nuove visioni. I grandi libri della fotografia
Contrasto, 2020
pp. 144, € 19
[1] Susan Sontag, Odio sentirmi una vittima. Intervista su amore, dolore e scrittura con Jonathan Cott, Il Saggiatore 2006: “Uno sforzo davvero enorme ho dovuto compierlo per superare il periodo in cui stavo così male da non potere rimettermi al lavoro per terminare il libro [On Photography, 1977] Impazzivo all’idea di dovere scrivere qualcosa che in quel momento non mi toccava. Volevo soltanto scrivere Malattia come metafora, poiché le idee per quel libro mi sono venute in mente nei primi due mesi della malattia, e ho dovuto davvero forzarmi per rivolgere la mia attenzione al libro sulla fotografia”.
[2] Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi 1977, p. 12.
[3] Ivi, p. 22: “Il limite della conoscenza fotografica del mondo è che, se può spronare le coscienze, non può mai essere, alla lunga conoscenza politica o etica. La conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico e umanista”.
[4] Ead., Davanti al dolore degli altri, traduzione di P. Dilonardo, Mondadori 2003
[5] Funny Games è un film del 1997, scritto e diretto da Michael Haneke.
[6] Davanti al dolore degli altri, cit., p. 51: “Catturare la morte nell’attimo stesso in cui sopraggiunge e imbalsamarla per sempre è qualcosa che solo le macchine fotografiche possono fare”.
In copertina: Susan Sontag fotografata da Henri Cartier-Bresson