Vendo palle di neve

01/03/2021

Un uomo da marciapiede

Basta scorrere le numerose fotografie a colori e in bianco e nero che ci restano per comprendere d’acchito di cosa si tratta. Immagini così sobrie e potenti che ogni parola, ogni tentativo di ricamarci sopra, di fare ermeneutica sembrano superflui se non fuori luogo.

Cosa mostrano le foto? Un uomo che vende palle di neve. Il resto è riportato sul retro della cartolina in bianco e nero che immortala l’azione: “Street Vendor Selling Snowballs. Performance by David Hammons, 1983. Photograph by Dawoud Bey”. Solo in occasione della mostra al P.S.1 nel 1990 diventerà ufficialmente Bliz-aard Art Sale.

Le palle di neve sono perfettamente sferiche e di varie dimensioni, ordinatamente disposte su un tappeto dalla fantasia nord-africana adagiato sul marciapiede. L’uomo di colore è intabarrato nel suo cappotto di lana e mohair con cappello, sciarpa, guanti fatti a mano e, in alcuni casi, occhiali da sole. Come ha osservato l’artista Glenn Ligon, è vestito da musicista jazz.

Non appare quasi mai in posa, al contrario se ne sta spesso sulle sue, oppure parlotta coi suoi vicini nei momenti di vuoto o in una pausa per bere qualcosa di caldo. Tra questi un signore vende due giacche appese con una stampella a un’inferriata, assenti in altre foto, segno che la vendita è andata a buon fine; un altro sembra vendere verdura (sullo scatolone si legge “Tomatoes”) e brandisce in mano un sacchetto di plastica con, immagino, un genere alimentare. Più in là s’intravedono oggetti e vestiti usati su un cartone, più simili a scarti e a stracci che ad articoli in vendita.

Addossato alle mura di quello che ha l’aria di essere un grosso edificio (si tratta dell’università privata Cooper Union di New York), Hammons non sembra preoccuparsi della vendita di un prodotto che prima di quel giorno, c’è da giurarci, non è mai stato considerato alla stregua di una merce. In altri scatti però, con la stessa nonchalance, tiene in mano una di queste palle di neve, protetto da guanti dalla fantasia cromatica simile a quella del tappeto a terra.

È inverno, come evidente dalle tracce di ghiaccio circostanti, ammassate agli angoli dell’edificio, residui di una violenta nevicata urbana, di quelle soffici solo il primo giorno – della bianca neve resterà una poltiglia nera. Difficile immaginare che quegli scarti ai margini della strada siano composti dalla stessa materia della merce in vendita. Eppure si tratta di due stadi di una sola sostanza.

Pare sia domenica 13 febbraio 1983, una di quelle giornate piegate dal blizzard, le tormente di neve tipiche di una città atlantica quale New York, che Hammons, con un modo di dire vernacolare, scrive “bliz-aard”. Siamo nell’East Village, a Cooper Square, dove si tiene un mercatino dell’usato semi-clandestino. Per anni, camminando lungo Second Avenue, Hammons osserva l’andirivieni dei venditori indaffarati che arrivano nel cuore della notte per occupare il loro posto e disporre la merce tra cui trenta paia di denti falsi. È così sbalordito che si convince di dover fare qualcosa. Nella stessa zona, come un universo parallelo, pullulano nuove gallerie d’arte contemporanea – è un periodo florido per il mercato.

Dawoud Bey, autore delle fotografie, deve aver preso accordi precisi con Hammons su come documentare quest’azione, tanto più che, in assenza di un video, restano l’unica traccia. Ancora più preziosa se pensiamo che l’artista si reca al mercatino in incognito, che nessun operatore del mondo dell’arte è stato avvertito, che nessun pubblico vi assiste, che nessuna recensione sarà pubblicata, che manca qualsiasi materiale documentario supplementare. “Non era David Hammons in una performance, ma giusto un tizio che vende palle di neve […] Era per chiunque passasse lì quel giorno”, ricorda Bey, unico testimone oculare di Bliz-aard Ball Sale. Che ribadisce: “Non era nemmeno un artista in strada, perché avrebbe guastato l’effetto. Era giusto un uomo sul marciapiede che vendeva palle di neve” (p. 65). Lo riporta Elena Filipovic in un aureo libretto consacrato a quest’opera, ricco di testimonianze orali che hanno guidato le mie riflessioni (David Hammons, Bliz-aard Ball Sale, Afterall Books: One Work, Londra 2019).

Decisivo insomma il frame di Bliz-aard Ball Sale, creato e controllato in ogni aspetto da Hammons, libero da qualsiasi interferenza del sistema dell’arte, aperto a una interazione pubblica spontanea che il contesto museale tende a snaturare o disciplinare: “Preferisco fare cose in strada, perché l’arte diventa solo uno tra gli oggetti in cui t’imbatti nel corso della tua vita quotidiana. La attraversi, senza che abbia alcuna priorità sul resto” (p. 68).

Performance (come l’artista scrive sul dorso di una cartolina nel 1983), happening, azione o quale altro termine utilizzare in cui il confine tra arte e vita diventa labile? Non so decidermi. Del resto tanti aspetti di Bliz-aard Ball Sale restano oscuri; ignoriamo persino quanto è durata: una trentina di minuti o tre ore, secondo due versioni diffuse dallo stesso artista? o diversi giorni nel corso di quel gelido inverno?

Acqua congelata

Qui a Cooper Square nessuno ha un banchetto o un tavolo come nei mercatini organizzati, quelli della domenica nei quartieri bene dove le famiglie amano gironzolare e fare compere inutili convinti di aver concluso un affare. La merce è a terra, stesa su cartoni – un bric-à-brac o un vide-grenier dove ci si può aspettare di trovare qualsiasi cosa.

Qualsiasi cosa ma non delle palle di neve.

Lo si capisce dalle espressioni dei passanti o dei potenziali avventori davanti allo “stand” di Hammons, cui dice chissà cosa per convincerli ad acquistare la sferica neve. Una sequenza di due scatti mostra una signora incuriosita che riparte ridendo di gusto, perché un uomo che vende palle di neve è  una scena comica e quel tipo deve essere un po’ svitato. Se ha le mani in tasca e non ha comprato nulla, l’idea l’ha conquistata. Tra gli altri clienti si annoverano un bambino piccolo sul passeggino, cui Hammons offre una delle palle di neve più piccole; una ragazza che si fa fotografare con la mercanzia davanti a un Hammons che, divertito, sta al gioco; un’altra avventrice che punta il dito verso il basso con lo sguardo serio, come a contrattare il prezzo della bianca merce.

Già, il prezzo. Anche in questo caso le testimonianze non concordano. Si vocifera che costino tutte un dollaro ma anche che vi sia un prezzario a seconda delle dimensioni che oscilla da dieci centesimi a dieci dollari, o che i prezzi siano negoziabili. Che Hammons sia riuscito a convincere qualche malcapitato ad acquistarle? A un’analisi attenta delle fotografie, ci accorgiamo che il numero delle palle di neve – simmetricamente disposte sulla coperta come una natura morta di Klee – è sempre lo stesso: venti grandi, dodici medie, sei più piccole, dodici più piccole ancora e altre due serie da sei a scalare. In uno scatto due ragazzi sembrano informarsi o trattare sul prezzo di due tra le palle di neve più grandi, indecisi, credo, su quale prendere: inginocchiati, le tengono tra le mani protette dai guanti, rischiando tra l’altro di sciupare la delicatissima merce. Le più piccole probabilmente si scioglierebbero in mano ancora prima di essere acquistate.

Del resto da nessuna parte Hammons ha scritto “Non toccare” – tutto vuole tranne che evocare anche da lontano un’aria da museo, da scultura fragile incapsulata dentro una vetrina. Chi vuole maneggiare le palle di neve faccia pure. In una foto in cui la mano di Hammons tocca quella di un cliente sembra che gli stia dando il resto, ma nel cavo della mano potrebbe nascondersi una delle palle di neve più piccole che il cliente vuole palpare prima di decidere sul da farsi.

A fermarsi sono uomini e donne di diverse generazioni, incuriositi dall’idea di questo commerciante, attirati forse dal gesto gratuito, dalla giocosa perdita che consiste nel comprare quelle perfette sfere di neve e lanciarsele addosso svoltato il primo angolo. Perché da che mondo è mondo questo è il loro destino, lo stesso delle torte in faccia: si rendono belle compatte per fare battaglia e scagliarle contro l’amico di turno, non per ammirarle.

Nessuna delle foto che ci resta registra concretamente l’atto di vendita di una palla di neve. La cosa è così determinante? mi chiedo, visto che la merce proposta non è altro che acqua congelata, cioè niente che si possa portare a casa ed esporre accanto alle opere d’arte della propria collezione. Stiamo parlando di un tizio che vende acqua congelata d’inverno – come vendere sabbia in un deserto o aria condizionata ai pinguini!

Come vendere pietre di fiume lungo lo stesso fiume, per citare L’uomo senza talento (Munou no Hito, 1985, tradotto in italiano da Canicola nel 2017) del mangaka Tsuge Yoshiharu, figura-chiave del Geki-ga, con immagini e storie drammatiche, noir e underground, lontane dall’intrattenimento e dal disimpegno proprio dei manga. “Non sapevo più cos’altro fare. Così adesso vendo pietre”, così comincia la storia di un disegnatore di fumetti che, senza lavoro e spinto dall’indigenza, allestisce in riva al fiume il suo banchetto di pietre di fiume. Un uomo senza talento o – inevitabile il richiamo per un orecchio europeo – un uomo senza qualità.

“Le ho vendute perché sapevo che la gente non poteva tenerle”, precisa lapidario Hammons. E più ampiamente: “Nessun ‘l’ho comprata’, perché manca l’oggetto della transazione. Nessuno può dire: ‘Ho un David Hammons alle pareti, t’invito a cena per vedere il mio ultimo acquisto’. Non mi interessa” (p. 76).

Hammons ha scelto un mercatino di cianfrusaglie e non il giardino di sculture di un museo d’arte. L’unica transazione di cui ci resta traccia è verbale, legata alla fase che precede l’acquisto, in cui ci s’informa, si confrontano modelli, si discute sul prezzo, si chiede uno sconto o ci si lascia con l’intenzione di rivenire un’altra volta. Ma quella palla, ribatterebbe Hammons, potrebbe non essere più disponibile. Lavora così sull’istituzione del valore commerciale di un’opera, sulla sua vendibilità, sul feticismo del manufatto o dell’artefatto.

Cosa mai si potrà chiedere riguardo a una palla di neve? Costituita da un unico materiale (non tengo conto qui dell’infame pratica di nascondere un sasso al suo interno), a cambiare sono solo le sue dimensioni. Forse le domande sono le stesse che ci vengono in mente guardando le foto: come ha fatto a renderle perfettamente rotonde e a trasportale fino a lì? Più in confidenza, il tipo ha veramente difficoltà a sbarcare il lunario, è così sul lastrico da ridursi a vivere di espedienti? Non si rende conto che, dopo la tempesta dell’altro giorno, la neve si trova a palate a ogni angolo di Manhattan?

Dal punto di vista strettamente commerciale, il business di Hammons è un disastro, e l’artista come venditore ambulante un fallimento. Vendere palle di neve in inverno, suvvia! Eppure Hammons è abilissimo nel mettere in piedi e gestire l’operazione Bliz-aard Ball Sale nelle sue varie componenti: reperimento della location; realizzazione delle palle di neve; loro disposizione; performatività in cui si cala nel personaggio del commerciante senza lasciar trapelare la sua identità (non vuole passare per un infiltrato), dissipando l’“allusione onnipresente che l’intero affare potrebbe essere un imbroglio. Vendere palle di neve in inverno: cosa c’è di più vicino all’impostura?” (Steven Stern, A Fraction of the Whole, in “Frieze”, 121, March 2009). E ancora, gestione della vendita, perché le regole della transazione commerciale sono scrupolosamente rispettate; documentazione fotografica e sua diffusione, promozione (per così dire) e, soprattutto, sottrazione di visibilità.

Perché Bliz-aard Ball Sale è sottoposto a un regime di visibilità limitata, come molte opere di Hammons.

Solo questo complesso di condizioni ha trasformato una boutade durata forse mezz’ora una domenica di febbraio in un mercatino nero in un’azione memorabile dell’arte degli anni ottanta.

Hammons sostiene che le palle di neve sono realizzate direttamente in strada, ma pare che la sera precedente la vendita riposassero nel freezer di casa sua. Nel congelatore diventano belle compatte prima di essere trasportate al mercatino in un carrello della spesa. Sappiamo che vengono usati due stampini graduati e rotondi simili alle formine da cucina. Il dettaglio è importante: le palle di neve non sono realizzate a mano, in modo artigianale come una scultura o una qualsiasi palla di neve, ma con l’aiuto di un utensile. La fabbricazione della merce non è esibita al mercatino; arriva sul tappeto già pronta nella sua inconcussa sfericità.

Nella ricercatezza della loro forma e disposizione non manca un clin d’œil alla serialità della scultura minimalista che imperversava nel decennio scorso negli Stati Uniti. Anche se Filipovic non sa decidersi, e noi con lei, se Hammons faccia l’occhiolino più a un museo o a un supermercato. Le palle di neve come specific objects? Come critica ironica al minimalismo, in linea con quella sera del 1981 in cui Hammons urina su T.W.U. (1980), l’imponente e contestato catafalco di Richard Serra? La scultura minimalista, poco sensibile alla fluidità dell’elemento acquatico, viene irrorata e, de facto, criticamente demolita. Hammons puer mingens, come direbbe Jean-Claude Lebensztejn (Figure piscianti 1280-2014, UTET 2019). L’azione si chiama Pissed Off – pisciare sul minimalismo, pisciare il minimalismo.

In quanto alle palle di neve, Hammons sostiene di averle vendute tutte intascando una ventina di dollari, una somma magra ma superlativa se si considera il prodotto in commercio. Altre voci sostengono che uno degli specimen più grandi, rimasto invenduto, è stato conservato in un angolo del suo freezer per almeno tre anni; altre ancora che nei freezer dei suoi amici più stretti restano diverse palle di neve. Ci mancava solo la versione vintage.

Icestallation

Nello stesso periodo (1983-85) Hammons realizza altre vendite semi-clandestine, come quella di diecimila paia di scarpe di gomma bianca per bambole, al prezzo di cinquanta centesimi l’unità. Nell’arco di tre estati le vende tutte, sostiene. Anche qui nessun addetto ai lavori del mondo dell’arte è coinvolto: “Se vedo arrivare qualcuno del pubblico dell’arte, balzo dietro una porta” (p. 78). Se non ci resta alcuna fotografia, è evidente l’interesse per quella che in seguito verrà denominata estetica partecipativa: “Quando hai un oggetto tra te e loro, la gente ti rivolge la parola. Ti chiedono: ‘Cos’è quello? È in vendita?’ Ma se stazioni giusto in piedi all’angolo della strada, chiunque incontri è un tuo nemico. Un oggetto invece diventa un canale di conversazione con qualcuno che non hai mai incontrato prima” (p. 73).

Le palle di neve affascinano Hammons in quanto manifestano la potenza di un oggetto così effimero: “Non è l’oggetto d’arte in sé. È l’audacia dell’atto, del presentarlo, l’oggetto d’arte è il risultato… del potenziamento dell’oggetto” (p. 70). Empowering the object, dice Hammons, pensando a un oggetto qualsiasi e non a quei grossi blocchi di materiali industriali che ingombrano i musei americani sotto le spoglie della scultura minimalista.

Hammons si servirà della neve e del ghiaccio come materiale artistico in altre tre occasioni. Nell’aprile 1986, tre anni dopo Bliz-aard Ball Sale, mostra alla galleria Just Above Midtown (JAM) di Broadway una sola palla di neve, probabilmente quella sopravvissuta dalla vendita del 1983. È visibile all’interno di un freezer, ormai sporca e deformata. Ricorda Bey: “nel suo insieme era così brutta… Ma l’esperienza consisteva nel rivederla […] era vecchia, era sporca, era funky, non era immacolata. Ma era la palla di neve superstite” (p. 126). Una sorta di fossile. Sul cartoncino d’invito è visibile una forma rotonda e stondata, un alone sul foglio simile a quello lasciato da un recipiente bagnato sul tavolo. Il titolo della mostra è un gioco di parole, comprensibile solo a coloro che conoscevano l’antecedente del 1983: Icestallation.

Whose Ice is Colder?, 1990

Il ghiaccio torna in Whose Ice is Colder? e Cold Shoulder, esposte alla Tilton Gallery di New York nel 1990. La prima consiste in blocchi di ghiaccio poggiati su una base di barili di olio, che vanno sostituiti regolarmente nel corso della mostra quando si sciolgono. La seconda in tre grossi blocchi di ghiaccio di statura umana su cui sono appesi dei cappotti, sovrastati da tre bandiere (Corea del sud, Africa, Yemen).

Cold Shoulder, 1990

Untitled (Snowball) (1983/2003), infine, è esposto alla retrospettiva David Hammons: Five Decades, Mnuchin Gallery di New York nel 2016. Un omaggio all’azione del 1983 non in vendita. Accanto è stampata l’email di una coppia di collezionisti poco accorti che, dopo tanto rimuginare, rinunciano all’acquisto: “per quanto ci piacerebbe possedere una palla di neve, non una sola compagnia assicurativa ce la coprirebbe, e ne abbiamo chiamate una decina” (p. 128).

Untitled (Snowball), 2016, ph. Jake Naughton

Dell’elusività

Si può rileggere il percorso (stavo per scrivere “carriera” e non me lo sarei perdonato) di Hammons come una serie di tentativi di praticare una forma di reticenza o, ancora meglio, di elusività. Nell’elusività c’è il sottrarsi ma anche la componente ludica, così evidente in Bliz-aard Ball Sale. Nell’elusività l’astuzia del venir meno si accompagna allo spasso del gioco. Come bilanciarsi tra una vita da artista, costellata da premi prestigiosi come il Prix de Rome per la scultura all’American Academy di Roma nel 1990-91, e i munifici sforzi per scomparire dal radar dell’arte contemporanea?

Nel 1974, quando comincia a frequentare New York, le body prints di Hammons riscuotono un discreto successo commerciale: “Dovevo tirarmi fuori dalle impronte corporali perché stavano andando così bene. Facevo soldi a palate. Ma ero a corto di idee…”. Alla ricerca di “un’arte astratta che non fosse vendibile” (p. 43), fabbrica opere usando sacchetti di carta da pacchi con ossa di barbecue e grasso ma anche sterco d’elefante, abbracciando un’estetica dello sporco e del peloso.

Le sue interviste mettono bene in luce questa poetica elusiva: “Mi piace venire dal nulla; è un posto bellissimo. In questo modo posso guardare chiunque venga da qualche parte e vedere quanto siano irretiti” (2004, p. 34); “Vorrei essere un mito, essere sul lato invisibile delle cose. Un’ombra. Quando sei sempre visibile la gente si abitua e non sei più un mistero. L’ho riscontrato molte volte” (2012, p. 15). Fino a dichiarare una simpatia per i rinnegati alla Duchamp – “Ho sempre pensato che l’esterno fosse il posto dove stare” (1986, p. 41).

Hammons è parco nel diffondere dati biografici e non esita a disseminare notizie contrastanti; non partecipa agli opening delle sue mostre e declina gli inviti a esporre, anche quelli provenienti da istituzioni museali importanti, al punto da contattare un avvocato affinché accerti che una di queste non organizzi una sua retrospettiva (l’unica resta la mostra mid-career Rousing the Rubble, 1969-1990 al P.S.1 Contemporary Art Center, New York 1990, senza catalogo). Rispetto agli artisti preoccupati solo dal livello di visibilità del loro lavoro, Hammons è preoccupato dell’esatto contrario. “La prima cosa che David Hammons ha fatto il giorno dopo che l’ho invitato a fare una mostra personale, è stato spegnere il telefono” (p. 142), ricorda la curatrice Josine Ianco-Starrels in occasione della sua prima retrospettiva alla California State University di Los Angeles nel 1974. Per questo è ancora più eccezionale la personale di Hammons che aprirà questa primavera al Whitney Museum, Day’s End.

Le sue opere esistono, ma non per questo sono necessariamente visibili, come ricorda Dawoud Bey: “Alcuni di noi potrebbero non vederle mai. In effetti, la maggior parte non lo farà. Eppure il senso del mito creato da ciò che è dissimulato [unseen] è uno degli interessi di Hammons. Non che se ne preoccupi, ma ne comprende le implicazioni” (p. 16). Del resto le sue fotografie, fedeli a un’estetica della bassa definizione, non sono mai state esposte in quanto opere d’arte. Non sono certificate, firmate, messe in commercio come surrogati dell’azione originale, vendute a collezioni pubbliche o private. Come il polline trasportato dal vento, si sono diffuse fino ad assumere uno statuto leggendario nel mondo dell’arte.

Non a caso ne esistono diverse riprese e citazioni, in genere poco interessanti o troppo letterali (Roi Vaara nel 2007, Joe Scanlan nel 2009, Jan Hujben nel 2013), fatta eccezione per il giapponese Koki Tanaka che nel 2009, appena trasferitosi a Los Angeles, vende fronde di palme secche al mercato delle pulci di Pasadena (Someone’s Junk is Someone Else’s Treasure, 2011).

What makes Black art black

“Il ghiaccio è una metafora. Il ghiaccio cambia sempre. Il processo è affascinante. Guardi questo ghiaccio, torni indietro e la sua forma è cambiata” (p. 33): potrei chiudere così questo excursus su Bliz-aard Ball Sale. Ma una domanda che ho finora omesso s’impone: in che senso l’elusività rappresenta, oltre che una postura estetica, la marginalità vissuta da un artista nero in un mondo dell’arte dominato dai bianchi e in una società fondata sullo schiavismo e la segregazione? In che modo Bliz-aard Ball Sale riguarda il ruolo della blackness nello spazio pubblico?

La risposta non è così evidente come vorrebbe la nostra sensibilità contemporanea. In quattro occasioni d’incontro con Filipovic, Hammons si rifiuta di legare Bliz-aard Ball Sale alle questioni razziali. “Sto cercando di liberarmi dalla ridondanza dell’essere un afro-americano o di fare arte afro-americana. È come una doppia negazione, un doppio sostantivo. Mi sforzo di trovare una soluzione. Tutti sanno che sono nero, quindi il mio lavoro non deve più gridarlo… Sono un nero. Il lavoro sarà automaticamente considerato come parte della mia cultura afro-americana” (p. 96).

Non c’è dubbio che molti lavori di Hammons ruotino attorno alla costruzione dell’identità afro-americana e della blackness nelle arti visive; in questo senso la musica jazz gioca un ruolo importante quanto le sculture e le installazioni con catene e filo spinato di Melvin Edwards. Non c’è dubbio, ancora, che Hammons rifugga come la peste gli spazi del white cube: “Le pareti bianche sono così difficili perché tutto è fuori contesto. Non mi forniscono alcuna informazione. Non è così che la mia cultura percepisce il mondo. Non costruiremmo mai una forma o delle stanze in quel modo. Da noi sono per i matti, ti ci rinchiudono all’ospedale. Prima di entrare nel mondo dell’arte non avevo mai visto una stanza simile in alcun posto” (p. 102).

Ma non dobbiamo cadere nella lectio facilior che risolve le opere di un artista afro-americano nella rappresentazione culturale delle questioni razziali. Concentrati solo sull’identità, prevedibili sono le domande, prevedibili le risposte. Il circolo ermeneutico è presto chiuso e l’opera d’arte risolta senza scarti nel teorema della cultura afro-americana. Abbiamo invece bisogno di una visione dialettica al di là della blackness della black art. “What makes ‘black art’ black?” si chiede Darby English in How to See a Work of Art in Total Darkness (MIT Press 2007). La materialità e la specificità delle opere d’arte – Kara Walker, Fred Wilson, Isaac Julien, Gleen Ligon, William Pope.L – sono al cuore delle sue analisi, sebbene all’inizio si dilunghi su un’installazione di Hammons, Concerto in Black and Blue (2002).

English c’induce, come scrive in una recensione Steven Nelson, a “renderci conto che il lavoro di Glenn Ligon o Kara Walker non è una chiave per capire la vita dei neri più di quanto il lavoro di Willem de Kooning o Mary Kelly lo sia per capire i modi di fare dei bianchi” (in “Art Bulletin”, XC, 3, settembre 2008, p. 500).

White wilderness

Al riguardo mi torna in mente Stranger in the Village dello scrittore e attivista James Baldwin, un racconto incluso in Notes of a Native Son (1955) che ha ispirato recentemente un artista contemporaneo quale Glenn Ligon. Poco citato da noi, ne esistono tuttavia tre traduzioni: Mio padre doveva essere bellissimo (Rizzoli 1964), Appunti americani (Le Lettere 2007), Questo mondo non è più bianco (Bompiani 2018). Baldwin riporta le sue esperienze autobiografiche a Leukerbad, un piccolo villaggio svizzero cattolico circondato da montagne innevate e celebre per le cure termali. Immersi nella “white wilderness”, per gli abitanti il nero è il colore del diavolo. Non hanno mai visto un nero (siamo nel 1951) e Baldwin, che ha sperimentato sulla sua pelle la segregazione negli Stati Uniti, diventa una sorta di attrazione, di “meraviglia vivente” o di temuto forestiero. “Neger!” gli urlano dietro i bambini quando cammina per strada. Lo fanno senza malizia, vittime di un razzismo culturale quanto genuino, erede dell’innocenza europea in cui non esistevano uomini neri. Uno stato, precisa Baldwin, vagheggiato dagli uomini bianchi americani. Quando si abituano alla sua presenza, lo invitano a imparare a sciare, “in parte, deduco, perché non riescono a immaginare come sarei sugli sci” – un nero che scende giù da una montagna innevata? Altri, racconta, gli toccano le mani, sorpresi di non sporcarsi di nero come con il carbone.

Per questi elvetici degli anni cinquanta, se gli uomini neri occupassero il loro villaggio, quella candida neve diventerebbe tutta nera e “sporca”. Non siamo lontani dal processo di “lattificazione” imposto surrettiziamente ai neri dalla cultura dominante forgiata dal colonialismo, come indica lo psichiatra martinicano Frantz Fanon in Pelle nera, maschere bianche (1952, ripubblicato da Edizioni ETS nel 2015).

Attraverso Baldwin e Fanon possiamo riconsiderare le fotografie di Bliz-aard Ball Sale. Quello che mostrano è un nero che vende palle di neve – merce candidamente bianca – in un mercato nero. Un nero che manipola palle di neve senza farle diventare nere. Riprendiamo il titolo della mostra del 1990, Whose Ice is Colder?: secondo Filipovic, “l’adagio ‘the white man’s ice is colder’ parla di quella sorta di razzismo interiorizzato che porta i neri americani a credere che il business, i prodotti e i servizi offerti dai bianchi siano migliori e più affidabili” (p. 99). Hammons si prende gioco di questo luogo comune. Tra l’altro, chi avrebbe mai comprato le palle di neve? Secondo Bey “tutti bianchi, comunque. Studenti bianchi usciti dal college. Nessuna persona di colore ti darà una lira per una palla di neve. Non accadrà mai” (p. 89). Peccato solo che, una volta acquistato, questo concentrato di “white wilderness” si scioglierà tra le mani al primo raggio di sole.

Riccardo Venturi

insegna Teoria e storia dell'arte all'università Panthéon-Sorbonne di Parigi. Attraversa spesso i confini – non solo geografici – tra la Francia e l’Italia e, a volte, quelli transatlantici. Collabora con la Fondazione ICA di Milano, scrive per cataloghi di mostre, pubblicazioni accademiche e non, cartacee e digitali, tra cui “Artforum”, “Alias - Il Manifesto”, “Flash Art”, “doppiozero”. Armato di matita, stila spesso liste di progetti accarezzati, fattibili o chiaramente implausibili.

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