È appena uscito il catalogo di una mostra dedicata a Sciascia fotografo: Leonardo Sciascia, Sulla fotografia, a cura di Diego Mormorio, Milano-Udine, Mimesis, 2021. La nota a margine che segue vorrebbe essere anche un piccolo cruciverba sul tema.
Torino, Mole Antonelliana, aprile 1987. Si inaugura, su idea di Sciascia, una mostra di ritratti fotografici di scrittori scomparsi dal titolo Ignoto a me stesso. Ritratti fotografici da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges. In un’intervista sul «Giornale di Sicilia», a ridosso dell’inaugurazione, Sciascia racconta che, suggerendo il soggetto, si era lasciato guidare dalla sua passione di collezionista di ritratti di scrittori, non fotografici ma in pittura e in acquaforte. Mantenendo il titolo della mostra, tratto da una quartina di Valéry che era piaciuta a Sciascia, il catalogo, curato dalla storica dell’arte Daniela Palazzoli, uscirà da Bompiani. A impreziosirlo è la densa prefazione intitolata Il ritratto fotografico come entelechia, il vertice assoluto della riflessione sciasciana sull’ubi consistam estetico della fotografia, saggio poi raccolto in Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989).
Palazzoli si mette alla ricerca del materiale della mostra. Viaggia per quattordici mesi, tra musei gallerie e biblioteche di tutto il mondo, e a un certo punto fa tappa all’archivio della Fondazione Antonicelli presso la Biblioteca dei Portuali di Livorno, laddove rintraccia (o crede di rintracciare) la fotografia del «“vero Pirandello”», insieme ad altre di altri scrittori che lo stesso Franco Antonicelli aveva scattato con un suo apparecchio amatoriale a partire dal 1935 (nel catalogo due foto sono attribuite all’intellettuale torinese, quella che la didascalia riferisce a Pirandello, e un’altra che ritrae Gadda). Enfatizzando nel racconto di questo suo viaggio la tappa livornese, Palazzoli lascia intendere che è stata condizionata dall’idea di Sciascia secondo cui la fotografia è da intendersi come faccenda eminentemente pirandelliana, oltre che borgesiana.
L’immagine di Pirandello in questione, «il pizzo bianco a punta, seduto a un tavolo di osteria», era già comparsa in una precedente mostra torinese (e nel relativo catalogo). Nella citata intervista Sciascia la chiama in causa quando il giornalista gli ricorda l’opinione di Antonicelli secondo cui la fotografia può avere un senso, solo a patto che l’ironia sia abolita. L’intervistato non è affatto d’accordo, anche perché a suo modo di vedere l’assunto è contraddetto proprio dalla fotografia a Pirandello: l’obiettivo in questo caso compie un’«azione ironica», restituendo un «Pirandello diverso», libero dalla maschera vagamente mefistofelica del pirandellismo, «bonario, dolce […] come se a quel tavolo d’osteria avesse bevuto del vino». In quanto ha a che fare con la crisi dell’identità e lo svelamento di come stanno veramente le cose, sotto la superficie delle cose come appaiono, il ritratto fotografico s’intride di ironia, o, se si vuole, quest’ultima ne diventa la quintessenza.
In un’altra intervista apparsa sulla «Stampa» qualche giorno prima, Sciascia esprimeva invece perplessità sull’identità dell’uomo ritratto nella foto: nonostante che «oggettivamente» gli sembrasse «indiscutibile» che fosse di Pirandello, pure gli restava qualche «piccolo dubbio». A un anno di distanza dalla mostra torinese, in una prefazione a un’antologia curata da Diego Mormorio sul tema dei rapporti tra scrittori e fotografia, quel «fertile» dubbio si tramutava in certezza negativa: non si trattava di Pirandello, come ci si sarebbe dovuti facilmente accorgere dalla data 1938 (seguita dal punto interrogativo) che si leggeva sulla scheda del catalogo Bompiani (la quale a sua volta non faceva che riportare, senza filtro critico, i dati dell’archivio livornese), dall’assenza di relazioni tra Antonicelli e lo scrittore agrigentino, dal fatto che la fotografia non somigliava (mai, infatti, spiega Sciascia, Pirandello si sarebbe potuto mostrare bonario e ottimista, come «addolcito da una inconsueta libagione»). Un’imperfezione del catalogo, insomma, che può ricordare quelle volutamente lasciate nei tappeti dei navajos. O se si preferisce, un «incidente d’identità» che non poteva non toccare a Pirandello – lo scrittore che di simili incidenti aveva fittamente costellato la sua narrativa e il suo teatro – a conferma oltretutto che il fotografo, sia pure involontariamente, è capace di produrre dell’ironia, può cioè farsi complice dell’ironia della sorte. Il falso Pirandello dava modo a Sciascia di riflettere sull’ontologia del ritratto fotografico, sul suo rapporto con l’identità (oltre che con il tempo e con la morte), quindi su un mistero ben più grande di quello che avvolgeva la favola della foto cambiata, il piccolo enigma che in tempi recenti ha sciolto, con il consueto rigore documentario, Pietro Milone, riconoscendo nel fino ad allora Ignoto doppio di Pirandello le fattezze e l’identità di Edwin Cerio, esponente di rilievo della vita politica e culturale della Capri degli anni Venti.

Catania, Monastero dei Benedettini, marzo 2010. Sono messi in mostra tutti i «libri fotografici» di Sciascia, più di trenta, individuati attraverso il censimento delle «numerose prefazioni, note e introduzioni» che Sciascia scrisse per «cataloghi, album, cartelle e volumi illustrati dalle fotografie di Giuseppe Leone, Melo Minnella, Mario Pecoraino, Ferdinando Scianna, Enzo Sellerio e altri artisti». Ne è venuto fuori un catalogo davvero prezioso – che mantiene anche in questo caso il titolo della mostra-matrice: Sicilia negli occhi. I libri fotografici di Leonardo Sciascia – concepito e redatto alfabeticamente per voci, lemmi e parole-chiave dal gruppo di lavoro coordinato da Maria Rizzarelli, una studiosa che ha saputo scavare a fondo in Sciascia amateur d’images, nei suoi rapporti con le arti visive (l’équipe si era prima impegnata nella realizzazione della mostra). L’impianto alfabetico adottato consente di approcciare la materia in maniera diversificata, di zoomare – è il caso proprio di dire – ora sul singolo testo della serie, ora sul rapporto con questo o quel fotografo, ora sui principali pilastri della riflessione teorica dedicata da Sciascia all’«arte senza musa» (cristallizzazione, entelechia, invisibilità), ora sugli auctores che a quella riflessione hanno presieduto (Barthes, Cartier-Bresson, Pirandello, Borges in primis). Le voci dialogano fittamente tra loro, sicché il risultato finale è un ipertesto enciclopedico. Quelle non incentrate sui singoli volumi sono introdotte da ampie citazioni dei testi di Sciascia intorno a fotografie e a fotografi. Ai fini del nostro discorso può essere utile soffermarsi su un volume, prefato da Sciascia e datato 1982 – a sua volta originato da una mostra – che raccoglie le fotografie scattate da tre scrittori catanesi: Capuana, Verga e De Roberto. La prefazione è poi confluita, con il titolo Verismo e fotografia, in Cruciverba (1983).
In quella sede Sciascia tiene a precisare che per Verga e per Capuana la camera oscura era un «diletto» e non un «ausilio» al credo verista. Anzi è probabile che la considerassero «poco ‘verista’, stante la necessità della posa, di quel tanto di finzione che la posa comportava, e la mancanza del colore». Senza voler tener conto del fatto che Capuana si impegnò a fotografare gli spiriti nelle sedute spiritiche e intese conferire a molti suoi scatti una dimensione “metafisica”, per quanto alleggerita da una buona dose di ironia (si pensi solo all’autoritratto da finto morto). Chi invece se ne servì come «ausilio» al mestiere di storico, di giornalista, di documentarista fu Federico De Roberto. Con il succedersi delle generazioni tra Otto e Novecento il rapporto tra gli scrittori siciliani e la fotografia si trasforma: il gioco dilettantistico – nel senso saviniano e sciasciano del “procurarsi diletto” – e le incursioni nel campo dell’invisibile e del soprannaturale cedono il campo alle esigenze del moderno reporter. Il catalogo restituisce, tra l’altro, molte fotografie con cui De Roberto documenta strutture architettoniche e cerimonie antichissime di Randazzo, un paese adagiato nella valle dell’Alcantara, sullo sfondo dell’Etna.
Racalmuto, Fondazione Leonardo Sciascia, settembre 2020. Al visitatore è dato godersi una mostra allestita nei locali della Fondazione, alla vigilia del centenario della nascita dello scrittore, che può dirsi davvero singolare in quanto “mette a fuoco” un altro aspetto, fino ad allora quasi del tutto inedito, della passione di Sciascia per la fotografia, cioè le fotografie scattate dallo stesso Sciascia nel corso degli anni Cinquanta. Il curatore è il già nominato Diego Mormorio, critico e storico della fotografia di lunghissimo corso, a partire dai tempi della tesi di laurea (relatore Mario Verdone) e da un giovanile incontro “fatale” con lo scrittore di cui poi divenne amico. Per la curatela della mostra e poi del recentissimo volume – stampato da Mimesis, costruito sul materiale della mostra e arricchito da due saggi sciasciani sulla fotografia – non si poteva pensare a una persona più adatta di Mormorio. Si può dire che il suo colloquio con Sciascia non si è mai interrotto e che è proseguito, oltre la morte, sulla “strada della fotografia” dove era iniziato nel 1988 (con la realizzazione a quattro mani, anzi a sei, se si contano quelle di Maria Andronico, moglie dello scrittore, dell’antologia Gli scrittori e la fotografia).
L’evento organizzato nel settembre scorso alla Fondazione Sciascia è stato reso possibile dal ritrovamento fortuito di un vecchio rullino da parte degli eredi dello scrittore. Si sono potute vedere per la prima volta 27 istantanee, rigorosamente in bianco e nero, che rappresentano però solo la punta di un iceberg ancora da mettere bene a fuoco in tutta la sua estensione. Nella già citata intervista alla «Stampa», quella che Sciascia rilascia in occasione della mostra torinese del 1987, il giornalista dava al riguardo informazioni preziose:
L’amore per la fotografia, in lui, ha origini lontane. Era stato fotografo, («occasionalmente»), nei primi anni della sua attività letteraria e si cimentava con il clic per documentare i suoi articoli. Fotografie di Sciascia sono apparse sul «Giorno», per una serie sui paesi siciliani, e su «Storia illustrata», per i fatti di Bronte […] Ma lui non le firmava, e nessuno ha mai saputo che fossero sue. «Poi ho conosciuto i fotografi veri: Scianna, Enzo Sellerio, Giuseppe Leone. E non ne ho fatte più». L’amore gli è rimasto, alla fotografia ha preferito dedicare la propria penna, e il suo interesse di osservatore.
Per i cultori di cose sciasciane si tratta di un invito a far luce sulle «origini lontane», ovvero sulla preistoria, dell’amore di Sciascia per la fotografia. Prima di conoscere Ferdinando Scianna nel 1961 o nel 1962 – il fotografo di Bagheria gli fa vedere alcune sue fotografie di feste religiose siciliane e gli fa nascere l’idea di Feste religiose in Sicilia, il suo primo libro fotografico uscito nel 1965 – Sciascia non ha ancora elaborato la sua riflessione teorica sulla camera oscura (una delle più penetranti del secolo scorso, secondo Rizzarelli). Solo lavorando per anni al suo fianco, e poi anche attraverso la collaborazione, sempre di lunga durata, con altri «fotografi “nati”» – coloro che, stando alla sua definizione, sanno “organizzare” gli elementi visivi in maniera fulminea e personale – solo riflettendo contemporaneamente sulle paginedi Cartier-Bresson e di Barthes, Sciascia scopre il valore estetico e “metafisico” della fotografia.
Negli anni Cinquanta frequenta l’arte «senza musa» semplicemente da fotografo dilettante. Che va incontro, a sua volta, alle esigenze del giornalista impegnato a documentare, soprattutto per denunciarne stato di abbandono e miseria, la Sicilia più periferica e sperduta. Alla luce del catalogo sui lavori fotografici dei tre scrittori catanesi, si potrebbe dire che all’inizio della sua storia il rapporto di Sciascia con la fotografia si collochi decisamente dalle parti di De Roberto (mentre l’interesse “metafisico” alla Capuana si farà strada solo dopo l’incontro con Scianna). Apparecchio a tracolla – una Zeiss Ikon che gli fa da “quaderno di appunti” – viaggiava a quel tempo nell’isola per “scoprire” – nello spirito del meridionalismo d’inchiesta, tra il sociologico l’antropologico e il letterario, della coeva collana laterziana dei «Libri del tempo» – piccoli paesi e borghi del tutto estranei ai collaudati itinerari turistici (almeno in quegli anni, a metà del secolo scorso). Ne ha fatto un elenco, insieme alle scritture di viaggio che Sciascia dedica loro, Paolo Squillacioti nella sua splendida, accuratissima edizione delle Opere. Tra gli altri: Grotte, Sambuca, Niscemi, Misilmeri, Riesi, Montelepre, Mazzarino, San Cono. L’elenco potrebbe continuare, coinvolgendo almeno Savoca e Palma di Montechiaro, anche perché chiamate in causa dal materiale fotografico inedito ora portato alla luce (volendo tacere della derobertiana Randazzo e delle più “blasonate” Piazza Armerina e Modica, pure esse attinte, con inquadrature panoramiche, dall’obiettivo di Sciascia). Qui però interessa solo la questione del corredo fotografico, potremmo dire il paese con figure, evocando il titolo di un bozzetto con cui lo scrittore nel 1949 rende omaggio alla sua Racalmuto. Nel corso delle sue micro-inchieste giornalistiche o lettere dalla Sicilia degli anni Cinquanta, che dir si voglia, il paese con figure muta volto ed identità, restando però sempre al crocevia tra verbalità firmata e visualità umilmente anonima. A richiedere l’ibridazione è lo spirito e lo statuto del fotoreportage. Parlano i testi insieme con le immagini, per raccontare la stessa cosa – la “periferia” dell’isola – ma su piani paralleli, non gerarchizzati tra di loro. L’amore di Sciascia per la fotografia ha queste «origini lontane».
Non stupisce allora che nel 1955, in un articolo sull’«Ora», il Nostro commenti l’esperimento di fototesto Un paese, nato dalla collaborazione di Cesare Zavattini e del fotografo americano Paul Strand. Il recensore si mostra attento al modo in cui le parole si legano alle immagini, in questo caso di Luzzara, il paese natale di Zavattini. Sotto le fotografie dei suoi abitanti scattate da Strand si leggono, riportate da Zavattini senza tradirne lo spirito, le confidenze dei suoi compaesani. Altro che scontate didascalie. Ce n’è abbastanza per avviare tutta una storia, per dare la stura all’immaginazione. Ma sentiamo Sciascia:
Non una di queste immagini è sprecata o conclusa in estetico compiacimento e virtuosismo; di ogni figura umana la fotografia ci suggerisce la storia, e basta una sola frase, trascritta con essenziale fedeltà, ad illuminarla del tutto.

[Un paese, testo di Zavattini, fotografie di Paul Strand, Torino, Einaudi, 1955, p. 73]
Nell’opera sciasciana l’inchiostro, cioè la dimensione verbale, dialoga con la fotografia in tanti modi. Non si pensa solo ai libri fotografici di cui si è fin qui detto, ma anche – secondo quanto ha indicato Rizzarelli – a quelli nati sotto forma di fototesti, ma che poi, con la sistemazione editoriale definitiva, hanno purtroppo perduto la loro dimensione iconotestuale: Occhio di capra, Il volto sulla maschera, Cronachette. Un solo esempio. La fotografia di Borges che accompagna il “pezzo” sullo scrittore argentino nella prima edizione di Cronachette, uscita nel 1985, risponde ad un «paradigma di insubordinazione» e di conflittualità, perché la sua immagine, certificando l’esistenza di Borges, lungi dallo svolgere una funzione ancillare, contraddice e smentisce in qualche modo un testo tutto giocato sull’«inesistente Borges».
Su questa base è interessante commentare il nesso tra alcune foto scattate da Sciascia, “perse e ritrovate”, e i testi sciasciani che Mormorio ha scelto perché le accompagnino nella recente pubblicazione per i tipi di Mimesis. Si prenda lo scatto riguardante un suggestivo scorcio di Burgos, centro dell’antica Castiglia, in Spagna. Esso documenta, insieme ad altri che ritraggono Barcellona e San Sebastian, il primo viaggio di Sciascia in Spagna nel giugno del 1956. A differenza delle note trasferte iberiche nella primavera del 1983 e nell’estate del 1984, all’origine di gran parte dei pezzi confluiti in Ore di Spagna (1988), si tratta di un viaggio di cui si sa poco, fatto a sue spese, quando invece avrebbe voluto andare nella terra di Don Chisciotte e di Franco finanziato da un giornale, per “girarvi” un libro, cioè per realizzarvi un documentario (lo sappiamo da una lettera dello scrittore a Vito Laterza). Ebbene, il lettore si aspetterebbe una citazione da un passo famoso delle coeve Parrocchie di Regalpetra, uscite proprio nel 1956:
Ora quei nomi delle città di Spagna mi si intridevano di passione. Avevo la Spagna nel cuore. Quei nomi – Bilbao Malaga Valencia; e poi Madrid, Madrid assediata – erano amore, ancor oggi li pronuncio come fiorissero in un ricordo di amore.
E invece in maniera meno scontata e più stimolante Mormorio preferisce attingere al racconto-bozzetto del 1949, Paese con figure, che si è prima ricordato, precisamente al suo incipit, per muoversi anche lui nell’ordine delle somiglianze, per suggerire la continuità Spagna-Sicilia particolarmente cara allo scrittore siciliano (a tal punto da scrivere L’antimonio sotto la suggestione del verso dantesco «de l’onor di Cicilia e d’Aragona»):
Quando saremo lontani da questo piccolo paese in cui siamo nati e viviamo, quando finalmente ci sentiremo nascere dentro amore e nostalgia per le cose che oggi ci circondano e mortalmente ci annoiano […] quello sarà veramente il nostro paese: perché la lontananza darà dolci cadenze alla noia di oggi e all’angustia, e diventerà un po’ amore quel che ora è insofferenza e reazione.

Alla campagna di Racalmuto, precisamente alla contrada Noce, luogo in cui d’estate Sciascia scrisse gran parte dei suoi libri, è dedicato uno dei 27 scatti, e qui il curatore avrebbe potuto facilmente (e un po’ tautologicamente) pescare nel pezzo omonimo – una «poetica divagazione» autobiografica del 1964 – puntando in particolare sulla descrizione della vegetazione:
Il paesaggio è quello della Sicilia interna: colline rocciose sparse di mandorli e di olivi, di vigne, di sommacco; qualche pino o cipresso in cima, a lato delle case bianche di gesso o gialle di tufo arenario; fitte di siepi di ficodindia da ogni parte.
Invece Mormorio sceglie di tornare sulla bellezza che si produce nella dimensione del ricordo e della lontananza, chiamando in causa questa volta Il mare colore del vino (1973), quel che in questo racconto si dice di Nisima:
Sicilia interna, Sicilia arida… Ma, intendiamoci, ha una sua bellezza: non come questa, che toglie il respiro; una bellezza che ti prende lentamente, o più quando se ne è lontani, nel ricordo… Qui ci vuole poco a dire che è bello, anche un cretino se ne abbaglia subito; ma a Nisima ci vuole tempo, ci vuole intelligenza… È un’altra cosa, insomma.

I brani tratti da Paese con figure e dal Mare colore del vino interferiscono con un pensiero di Sciascia sull’essenza della fotografia cui Mormorio dà risalto nella sua introduzione: «verità momentanea, verità di un momento che contraddice altre verità di altri momenti». Ancor più in sintonia con l’ultimo brano citato è la definizione, formulata dallo stesso scrittore, del mistero che si celebra nella camera oscura: «risultato di un lungo e lento, anche se inavvertito, apprendimento; di qualcosa di simile al processo di cristallizzazione di cui parla Stendhal». Evidentemente – e che ne sia consapevole o no, poco importa – da storico e critico della fotografia tendente a esplorare le radici dei problemi, Mormorio non può sfuggire alla tentazione di dare spazio al discorso complessivo portato avanti da Sciascia sull’ubi consistam della fotografia anche quando costruisce il suo fototesto, accostando agli scatti ritrovati brani sciasciani che con la riflessione teorica sulla fotografia non hanno alcun nesso diretto, ma su cui pure, a pensarci bene, aleggia o, se si preferisce, sta in agguato, quel discorso.
D’altra parte la tesi di Sciascia sulla fotografia come «verità momentanea» è stata piegata da Mormorio alle istanze dell’impegno politico, nel senso che la verità contrapposta ad altre verità, nel dibattito che si dà nella società civile, dentro e fuori il Parlamento, nelle scritture militanti che lo alimentano, è stata sempre sentita da lui, che si è occupato di fotografie per giornali di estrema sinistra, come «verità momentanea» cui spetta rifuggire dal dogma, «contraddire e contraddirsi», per usare ancora le parole di Sciascia.
Restiamo sul terreno della politica (e della storia, di quella del Novecento segnatamente) per seguirne l’intreccio con la fotografia nelle pagine e nelle immagini ultimamente licenziate da Mormorio. Quest’ultimo ci ricorda che in Verismo e fotografia Sciascia cita l’incipit del Libro del riso e dell’oblio (1978) di Milan Kundera, laddove si parla del destino di Vladimir Clementis, esponente del comunismo internazionale. Alla sua scomparsa dal mondo dei vivi per impiccagione corrisponde la sua scomparsa per “fotosmontaggio” da una storica fotografia, quella che ogni bambino della Cecoslovacchia comunista ha imparato a conoscere sui banchi di scuola.

Si prenda ora la fotografia che lo stesso Mormorio mostra di prediligere, et pour cause, tra le 27 recuperate. Ritrae un gruppo di bambini che hanno acceso per strada un fuoco e sorridono all’obiettivo. Si può pensare che sia stata fatta a Racalmuto. Mormorio l’addita come testimonianza preziosa del fatto che il “dilettante” sia almeno una volta riuscito a vincere la timidezza e a fotografare la gente da vicino. Il testo che vi affianca è tratto dalla Notizia (1982) che apre Occhio di capra (1984):
Mi pare cioè di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso: un che di trasognato, di visionario, di cui non soltanto affiora – in sprazzi, in frammenti – quella che nel luogo fu vita vissuta per quel breve ramo genealogico della mia famiglia che mi è dato conoscere […] ma anche tutta la storia del paese, dagli arabi in poi.

È come se ancora una volta, pur senza darlo a vedere – si potrebbe dire, per restare in tema, à la sauvette, cioè con «destrezza e di nascosto» –Mormorio intenda continuare a porre alla nostra attenzione la riflessione teorica di Sciascia sulla quintessenza della fotografia, in questo caso sul «sortilegio di contrazione del tempo» di cui essa si mostra capace, ovvero sulla «vertigine del tempo compresso» che genera nel fruitore. Qui l’accento vien fatto cadere sul passato: tutta la storia del paese. Nel Ritratto fotografico come entelechia, il testo che apre la sezione saggistica del catalogo di Mormorio, il termine «entelechia» sposta il discorso sul futuro, caricando la fotografia della capacità di predire l’avvenire (ovvero, per dirla con Benjamin, facendo del fotografo un «successore degli àuguri e degli àuspici»).
Ai tanti auctores convocati da Sciascia nelle poche pagine del saggio – Goethe e Hofmannsthal, Mallarmé e Valéry, Barthes e Borges, per citarne solo alcuni – Antonio Di Grado ha aggiunto il non nominato, ma senz’altro a Sciascia noto, Auerbach, per via del suo concetto di figura intesa come nesso di prefigurazione/adempimento tra due eventi separati nel tempo. Nel 1987 Sciascia dice di essere stato folgorato dall’idea dell’entelechia – che tanto somiglia alla figura auerbachiana – sulle fotografie che Pedriali fece a Pasolini nell’ottobre del 1975, alla vigilia del suo assassinio (Sciascia precisa che gli erano state mostrate l’estate prima). Chiamato nel 1988 ad omaggiare Cartier-Bresson, il maestro delle images à la sauvette, Sciascia ne sceglie una sola – un po’ come fa Barthes con la Fotografia del Giardino d’Inverno nella Chambre claire – quella scattata a Siviglia nel 1933 in cui si vedono dei bambini che giocano alla guerra.

Forte della folgorazione che lo aveva assalito non molto tempo prima, Sciascia vi vede realizzata, di là dall’obiettività realistica, un’entelechia; vi scorge, cioè, tutta la storia futura di un Paese destinato a precipitare nel baratro della guerra civile:
La straordinaria capacità di Cartier-Bresson a cogliere in una sola fotografia la sintesi di una particolare condizione umana, di un particolare avvenimento, ha in questa fotografia qualcosa di prodigioso. Se non portasse la dicitura “Siviglia, 1933” e ci desse da indovinare luogo e data, diremmo che è stata fatta in un paese dell’Europa mediterranea: in Spagna tra il 1936 e il 1939, in Sicilia o in Grecia verso il 1943. In uno di questi paesi, insomma, dopo la guerra. Il fatto che sia stata fatta invece a Siviglia nel 1933, tre anni prima dell’alzamiento e della guerra civile, le conferisce un senso di ineffabile, misteriosa premonizione. Sono, obiettivamente è il caso di dire, bambini che giocano alla guerra, a una guerra che ancora non conoscono, tra le rovine di una guerra che ancora non c’è stata; ma vista oggi, quella fotografia sfugge all’obiettività: è la fotografia di un dopoguerra. Premonizione alla guerra civile s’intitola un quadro, di surreale ossessione, di Salvador Dalì: ma mi pare sia stato fatto mentre la guerra era in corso o subito dopo. La vera premonizione è però questa: una fotografia (una fotografia!) del 1933.
«On commence par reproduire et l’on finit par créer», avrebbe detto Bernand Pingaud.
L’edizione dei testi di Sciascia cui qui si fa sempre riferimento è la seguente: L. Sciascia, Opere, voll. II, a cura di P. Squillacioti, Milano, Adelphi, 2012-2019 (d’ora in poi O). Il titolo della mia nota riprende, riadattandolo, un suggestivo passaggio del racconto L’antimonio (1960): «[…] come se fossero le parole a determinare i fatti, un po’ come nella religione o nella poesia, in cui le parole fanno sacre o belle le cose, il pane che si fa corpo sangue e anima di Gesù Cristo, una campagna o un paese che prima guardavi distratto ed ora ti dice bellezza perché la poesia vi è passata» (O, vol. I, p. 229).
Dalla mostra del 1987 alla Mole Antonelliana è venuto fuori il seguente catalogo: Ignoto a me stesso. Ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges, a cura di D. Palazzoli, Milano, Bompiani, 1987. Si fanno a Sciascia domande su questa mostra in un’intervista apparsa sul «Giornale di Sicilia» del 9 aprile 1987 e firmata da Giuseppe Servello. Sul fatto che la fotografia si presenti agli occhi di Sciascia e di Bufalino come una «faccenda pirandelliana, oltre che borgesiana», mi sono soffermato nel mio Passioni della ragione e labirinti della memoria. Studi su Leonardo Sciascia, Napoli, Liguori, 2011, pp. 131-152.
Sciascia esprime forti dubbi sulla foto che Antonicelli avrebbe fatto a Pirandello in un’intervista concessa a Giorgio Calcagno e pubblicata nell’inserto «Tuttolibri» della «Stampa» il 4 aprile 1987. Sulla falsa foto di Pirandello esposta alla mostra torinese del 1987 Sciascia torna nella prefazione a Gli scrittori e la fotografia, a cura di D. Mormorio, Roma, Editori Riuniti, 1988, pp. IX-X. A svelare la vera identità dell’immagine pseudo-pirandelliana, che ha prodotto un’«imperfezione» nel relativo catalogo, è stato Pietro Milone nel suo La favola della foto scambiata. Prima perizia, «Pirandelliana», 4, 2010, pp. 15-18.
La mostra catanese del 2010 ha generato il seguente catalogo: Sicilia negli occhi. I libri fotografici di Sciascia dalla A alla W, a cura di M. Rizzarelli, M. Italia, S. Scattina, Acireale-Roma, Bonanno, 2010. Tra il vasto materiale esposto e catalogato si è qui voluto mettere in evidenza un titolo: A. Nemiz, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, nota introduttiva di A. Di Paola, prefazione di L. Sciascia, Palermo, Edikronos, 1982.
Squillacioti elenca le scritture di viaggio di Sciascia dedicate a località siciliane in O, vol. I, p. 1943n.
Il fototesto Un paese – testo di C. Zavattini, fotografie di P. Strand, Torino, Einaudi, 1955 – è stato recensito da Sciascia sull’«Ora» del 5 luglio 1955. Per un approfondimento mi permetto di rinviare al mio In un mare di ritagli. Su Sciascia raro e disperso, Acireale-Roma, Bonanno, 2011, pp. 42-43 (la recensione era sfuggita alle precedenti bibliografie sciasciane).
Della Zeiss Ikon che Sciascia usava negli anni Cinquanta, mostrando di possedere un «preciso senso dell’inquadratura», parla Mormorio nel suo Leonardo Sciascia e la «forma per eccellenza», da leggersi in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Sciascia, Racalmuto, Fondazione Leonardo Sciascia, 1992, pp. 52-55: 53.
Verismo e fotografia si legge in O, vol. II, t. II, pp. 651-655. Per Paese con figure cfr. O, vol. I, pp. 1235-1239.
Per la dimensione fototestuale di alcuni testi di Sciascia, gli scritti sciasciani sulla fotografia, il modo in cui le fotografie “entrano” nella narrativa di Sciascia, si veda almeno: M. Rizzarelli, Sorpreso a pensare per immagini. Sciascia e le arti visive, Pisa, ETS, 2013, pp. 117-198 e Ead., «Che le parole salvino l’immagine», in Fototesti. Letteratura e cultura visuale, a cura di M. Cometa e R. Coglitore, Macerata, Quodlibet, 2016, pp. 205-223. Di «paradigmi di insubordinazione», a proposito del rapporto paritario tra il codice verbale e quello visivo nei fototesti propriamente detti, si parla in A. Cortellessa, Tennis neutrale tra letteratura e fotografia, in Arte in Italia dopo la fotografia. 1850-2000, a cura di A. M. Fusco e M. V. Marini Chiarelli, Milano, Electa, 2011, pp. 47-59.
Per Ore di Spagna cfr. O, vol. II, t. II, pp. 843-901 (alle pp. 1410-1414 la preziosa notizia del curatore).
Per la lettera di Sciascia a Vito Laterza, datata 29 febbraio 1956, in cui lo scrittore esprime il desiderio di realizzare un reportage in Spagna, si veda L. Sciascia-V. Laterza, L’invenzione di Regalpetra. Carteggio 1955-1988, Bari-Roma, Laterza, 2016, p. 47.
Il brano tratto dalle Parrocchie di Regalpetra si legge in O, vol.II, t. II, p. 48; quello di Contrada Noce in O, vol.I, pp. 1331; quello del Mare colore del vino in O, vol. I, p. 747.
Per il destino crudele di Vladimir Clementis, doppiamente scomparso, cfr. M. Kundera, Il libro del riso e dell’oblio, Milano, Adelphi, 20057, pp. 13-14 e L. Sciascia, Verismo e fotografia, in O, vol. II, t. II, p. 651.
Per la citazione dalla Notizia di Occhio di capra cfr. O, vol. II, t. I, p. 1130.
Antonio Di Grado accosta l’entelechia del saggio sciasciano alla figura di Auerbach nel suo «Ignoto a me stesso»: Sciascia saggista, da leggersi in Id., L’isola di carta. Incanti e inganni di un mito, Siracusa-Palermo, Arnaldo Lombardi, 1996, p. 110.
L’ultima citazione sciasciana è tratta da L. Sciascia, Commento alla foto “Siviglia, Spagna, 1933” [1988], in H. Cartier-Bresson, Parole e immagini, Roma, Contrasto DUE, 2004, p. 55.
La frase di Bernard Pingaud, tratta dal suo discorso sui rapporti tra fotografia e pittura, L’argument du peintre, è citata da Sciascia nella sua prefazione a G. Salvo Barcellona-M. Pecoraino, Gli scultori del Cassaro, Palermo, IN.GRA.NA., 1971, p. 7.

Leonardo Sciascia
Sulla fotografia
a cura di Diego Mormorio
Mimesis, 2021, pp. 100, € 12
In copertina: Leonardo Sciascia, foto di Ferdinando Scianna (Sulla copertina del volume Mimesis: Leonardo Sciascia nello studio di Enzo Sellerio (fotografia di Giuseppe Quatriglio, 1978)