Daniel Arasse, l’inesauribile davanti agli occhi

Rileggere Daniel Arasse, a distanza di qualche anno, è come tornare sui passi di un sentiero di montagna conosciuto, all’albeggiare di un nuovo giorno, quando la luce, ancora debole, stenta a rivelare i tratti familiari del bosco. Lontano dai palazzi sigillati dell’accademismo e dalle piazze del popolo, ci si ritrova in quella foresta di visioni che è Non si vede niente. Descrizioni (Einaudi, 2013), dove un raro ecosistema di simpatia, curiosità e spirito d’osservazione stimola la fioritura di un pensiero attento ed ospitale. La fiducia nell’equivoco e l’amore per l’incertezza, l’attenzione per la dismisura e le sollecitazioni dell’inesauribile: che altro domandare ad una pagina?

Quella di Arasse è una scrittura generosa, che tende la mano e regala sorrisi, capace di offrire qualcosa di nuovo ogniqualvolta la si incontri. Si può cogliere, in ogni percorso dell’immagine da lui tracciato, qualcosa di straordinario, nel senso letterale di ciò che sfugge all’ordinarietà di una consuetudine, in questo caso, quella del guardare. Cosa aggiungere, che cosa dire e cosa pensare quando si è di fronte a quei titani dell’arte – Tintoretto, Tiziano, Velázquez, per citarne solo alcuni -, dopo secoli di congetture e teorie in cui si è analizzato, svelato, spiegato e reinterpretato ogni singolo dettaglio? Non fare niente, risponderebbe Arasse, ovvero lasciare che la visione accada. Non raccontare, non descrivere, non teorizzare se prima non si è lasciato spazio alla venuta della visione. È questo lasciare prima di ogni altra cosa, questa offerta così rara e gentile che ignora qualsiasi tipo d’arrivismo, ciò che rende lo sguardo di Arasse incline ad accogliere l’inesauribile in ciò che sta davanti agli occhi.

Può darsi che Arasse veda con gli occhi di chi è appena venuto al mondo. Gli occhi di chi non ha ancora imparato il significato delle cose, o di chi ha disimparato tutto per ritrovare la grazia dell’inizio in ogni cosa. La cultura, la tradizione, la storia, sono tutte lì, in seconda fila, pronte a tendere la mano. Ma il centro della scena è solo dello sguardo, è lui ad indicare la via. Le cerimonie della visione qui raccolte lasciano spazio all’inaudito, rischiano tutto, dimenticano di sapere e, così facendo, rendono omaggio all’evento della visione. La visione, per Arasse, è predilezione per l’evento: che cosa accade quando guardiamo un’immagine senza riconoscere in essa ciò che vediamo? In un certo senso, Arasse mostra come non saperguardare, o meglio, come vibrare il pensiero e lo sguardo aldilà di ogni sapere acquisito.

Senza alcuna riserva, Arasse lascia che l’evento della visione accada, si fa abbagliare dalla sua controluce, lascia che giunga ossigeno là dove le certezze ristagnano, dove tutto si vizia di conoscenza e dove il significato corrode il pensiero. In questo abbandono, Arasse dimostra, attraverso uno sguardo disposto, proteso, una sincera ospitalità verso ciò che si presenta senza essere annunciato. L’inatteso trova rifugio in uno sguardo che lascia spazio, che lascia entrare senza chiedere conto, senza modellare tutto a propria immagine e somiglianza. Arasse ha intuito – sulla scorta di Derrida e di altri grandi pensatori ‘ciechi’, certamente – che le questioni del pensare e del vedere sono radicate in una condivisa necessità: mostrare l’inesauribile in ciò che si dà. Rischiare tutto, perché no, nel pensare contro il pregiudizio di un atto finale. Con il suo dubitare e la sua viva curiosità, Arasse mostra che è necessario non perdere la visione di quel che si vede, per dirla con Pessoa. Come Arasse di fronte alla Venere di Urbino, Pessoa, di fronte alla pescivendola, esprimeva un solo – impossibile? – desiderio: voleva vedere la ‘realtà umana’ della pescivendola prima ancora di saperla, voleva sentire il primo battito di ogni cosa vista, disimparare tutto per vedere davvero le cose non ‘apocalitticamente’ ma ‘come gemmazione della Realtà’ (Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Mondadori, 2011, fr. 298). Lì, davanti alla Venere e alla pescivendola, davanti a quello sguardo, tutto, persino il niente, è inesauribile. Sospendere non solo i significati ma anche, soprattutto, la fine, l’apocalisse, per vedere l’inesauribile gemmazione che trascende la pretesa di una parola ultima. Inesauribile gemmazione della Realtà: non è una questione di rivelazione altra dalla Realtà, o di un disvelamento che illumini il ‘niente’ in ciò che si guarda – come l’altro inizio di cui scriveva Heidegger guardando, per esempio, il rilievo votivo dell’Atena pensosa. Si tratta, piuttosto, di cogliere la dismisura dell’inesauribile come elemento strutturante, come ciò che rende il ‘niente’ internamente eccessivo – incompleto, inesausto.

Dimenticando di sapere, dimenticando la fine, Arasse guarda la Venere sospendendo il tardo Panofsky e tutta l’iconografia per iniziare a pensare vedendo, per imparare a vedere la ‘donna ignuda’ non con lo sguardo del conoscitore, ma con gli occhi privilegiati di chi sa sbilanciare il pensiero oltre la conoscenza. In quella donna dipinta da Tiziano, nell’espressività di quello sguardo che ci guarda, c’è qualcosa di ostentatamente volgare, di eccessivamente erotico per essere contenuto da una dea, e nella realtà umana di quella pescivendola c’è sicuramente qualcosa di divino. L’inesauribile trascende il confine dettato dalla denominazione e la Venere mostra la sua dismisura, il suo essere né dea né pin-up ma la quintessenza visuale dell’erotismo, il carattere erotico della pittura che trascende il limite identitario. Lasciandosi toccare da questa dismisura oltre ogni dichiarato epilogo, oltre ogni identificazione e significazione, Arasse insegna a coltivare la visione. ‘Questo non è storia dell’arte’, replica il suo interlocutore. Come dargli torto? Questo è molto più che storia dell’arte, se per ‘storia’ s’intende una narrazione omogenea senza vita pulsante e priva di ferite aperte. Questo è smuovere il pensiero oltre la presunta fissità del confine disciplinare – di più, oltre i limiti della conoscenza – verso l’esperienza di una visione non riducibile alla percezione della ‘cosa’ vista e, allo stesso tempo, imprescindibile da essa.

Come ogni pensiero capace di svincolarsi dai parametri della conoscenza, la riflessione di Arasse invita ad un domandare che sconfina da qualsiasi specialismo disciplinare. Che cosa resta del mondo, di noi, quando si perde la visione di ciò che si vede? L’inquietudine che si fa strada nel venire a meno della visione è l’immagine di un’umanità infertile e insofferente, incapace di lasciar(si) entrare, indifferente alla gemmazione, che rifiuta di dar spazio alla meravigliosa, ora fastidiosa, dismisura dell’inesauribile. Come Arasse di fronte alla Venere, come Pessoa di fronte alla pescivendola, educare lo sguardo a non perdere la visione di ciò che si vede, della Realtà, dell’arte, per proteggere la nostra fertilità.

Fertilità. Lascio il sentiero di Arasse con questa parola in mente. Lontano dalla foresta di visioni e dalla beatitudine di quel mattino in montagna, come per un assurdo scherzo del destino, le prime parole che giungono dalle piazze del popolo raccontano di come, in alcuni ospedali universitari inglesi, il personale, da protocollo, d’ora in poi comunicherà evitando di riferirsi al latte materno come materno, della madre. Meglio il neutro human milk, buono anche chestmilk – latte del petto. Ancor meglio evitare, ove possibile, riferimenti alla donna e alla madre: pregnant person pare sia più corretto. Non posso che ripensare alla venere volgare, alla realtà umana della pescivendola divina, ai seni giganteschi delle veneri paleolitiche, a tutte le Madonne, a tutte le tele e le pietre consacrate, dall’alba dei tempi, alla figura della Madre, agli Ave Maria recitati in sæcula sæculorum – dopo questa trafila di femmine, dovrei forse scrivere più correttamente e includere un Ave Mario? O neutralizzare la Vergine?

Come non sentire che l’inesauribile contenuto in quei ‘secoli dei secoli’è già fuori misura, nel soffio androgino che accarezza il neutro del greco pneuma[πνεῦμα], il femminile dell’ebraico ruah [רוח], il maschile del latino Spiritus? Come non vedere che questa eterogeneità di respiri contiene e allo stesso tempo trascende Maria, Mario ed ogni neutral? Dov’è finita la capacità di vedere quanto ogni singolarità sia, di per sé – senza bisogno di neutralizzare – smisurata, incontenibile, instancabilmente mobile, finita ma inesauribile? Come non sentire che questa parola, fertilità, appartiene tanto alla madre, quanto al padre, che ad ogni neutro – come vuole il principio della gemmazione, che ama il singolo sui generis, e se ne infischia dei gameti – indipendentemente dalla nostra sete di significato?

Ritorna l’inquietudine della domanda: che cosa resta del mondo, di noi, quando si perde la visione di ciò che si vede? Tolta la realtà umana dalla pescivendola, tolto il seno dalla venere, tolta la visione dal vedere, resta solo un delirio di contorno, un falso sapere, un sapere esaurito, che non ha nulla da offrire e che sbatte la porta in faccia ad ogni ospite inatteso e alla sua dismisura – all’altro. Diceva bene Arasse, non si vede niente. Ma quel niente è decisamente troppo quando si ha perso la visione di ciò che si vede. Quel niente era, per Arasse, l’inesauribile davanti agli occhi. Il pericolo, la tragedia, è non vederlo.

In copertina: Tiziano Vecelio, Venere di Urbino, 1538 (Firenze, Galleria degli Uffizi)

Dottoranda in letteratura comparata presso la Goldsmiths, University of London e consulente didattico presso l’università Queen Mary. La sua ricerca ha come oggetto d’indagine principale la tessitura teorica tra le figure di Walter Benjamin, Aby Warburg e Georges Didi-Huberman, alla luce delle loro rispettive modalità di intendere il rapporto immagine-critica. Dal 2018 collabora con il CPCT - Centre for Philosophy and Critical Thought - per il quale ha co-diretto diversi eventi accademici nell’ambito della sua ricerca. Tra i più recenti, "Benjamin’s Baudelaire: Constellations of Modernity" e "Berlin Childhood around 1900: a Film Project in Progress" di Aura Rosenberg e Frances Scholz (2019).

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