Jacques Perconte per Boomer

17/02/2021

Ectodica

La Sonata in si bemolle minore op. 35 di Chopin, oltre ad essere una composizione rimarchevole, di rara fascinazione, è nota anche per un famoso errore di copiatura che si è nel tempo trascinato nelle diverse edizioni novecentesche, inficiandone nella maggior parte dei casi l’esecuzione. Lo segnala in maniera rimarchevole Charles Rosen nel suo prezioso volume intitolato La generazione romantica. Un importante momento del primo tempo si trasforma in una fastidiosa insensatezza. «Una doppia stanghetta che indica l’avvio di un tempo nuovo e più veloce alla battuta 5 è di solito corredata, su entrambi i pentagrammi, dei due punti che stanno a indicare l’inizio di una sezione da eseguirsi due volte». Così appare ad esempio nella prima edizione tedesca stampata a Lipsia. Volendo considerare il manoscritto conservato ora a Varsavia (che non è autografo, ma presenta correzioni eseguite di pugno dallo stesso Chopin), ci accorgeremmo che quei punti non sono altro che «un capriccio dell’incisore». È a partire da una delle prime edizioni a stampa che questi capricciosi due punti hanno contaminato quelle successive, per tradizione. Rosen ricorda che le opere di Chopin venivano sempre pubblicate contemporaneamente in tre diverse città: Parigi, Lipsia, Londra. Se l’edizione tedesca presenta questo passaggio sbagliato, così non è per l’edizione francese e inglese, che riportano correttamente l’attacco della sonata. Nel libro, la riproduzione del pentagramma dell’edizione londinese appare infatti conforme al manoscritto. La cura filologica di Rosen è a tutti nota e ci ricorda che tutte le edizioni novecentesche da lui consultate ricadono nella svista. Solo l’edizione critica ottocentesca, ristampata nel Novecento e curata da Liszt, Reinecke, Brahms appare corretta. Si tratta dell’edizione pubblicata da Breitkopf & Härtel. Brahms – segnala Rosen – non era così sprovveduto da non notare quell’errore madornale. E, anche se lavorò sull’edizione di Lipsia, si accorse del passaggio inconcepibile, di fatto emendandolo.

Questo per la precisione, e per la filologia. L’inizio della sonata finisce dunque col somigliare a uno shock. Come qualcosa che ci va di traverso. Eppure: «Non dovrebbe, comunque, esserci nemmeno bisogno di dare un’occhiata all’evidenza documentaria. L’indicazione erronea è musicalmente insostenibile, in quanto interrompe una trionfale cadenza in re bemolle maggiore corredata di una figurazione nell’accompagnamento in si bemolle minore. […] Una frase, che è al tempo stesso un’iniziale melodia drammatica e una modulazione che dalla tonalità secondaria dell’esposizione riporta alla tonica, è il frutto di un’idea straordinaria. Ancora più rilevante è l’accuratezza del modo in cui essa viene tradotta in termini di ritmo, armonia e tessitura. Se pensiamo che l’errore di stampa presente in quasi tutte le edizioni non solo non è stato corretto ma, verosimilmente, nemmeno notato per oltre in secolo, ritengo – conclude Rosen con understatement – che si possa con ragione decidere di dare ben poco peso al corrente giudizio critico secondo il quale il trattamento della forma-sonata in Chopin sia privo di interesse».

Jacques Perconte, Le Tempestaire. Enregistrement n.1, 2020

Ircocervi

Cosa può essere transitato nella testa del nostro tipografo di Lipsia? Avrà voluto giocare uno scherzo a Chopin e ai suoi esecutori piazzando due punti in più, alterando la partitura e la cadenza della sonata? Oppure il manoscritto giunto nelle sue mani, trascritto da un copista, appariva già corrotto? Vengono alla mente le pagine zampascritte dal Gatto Murr, felino che dopo essersi appropriato di un po’ di carta, strappata da un libro di proprietà del maestro di cappella Kreisler, suo padrone, finisce per infilarle nel manoscritto di quest’ultimo, pronto per andare in stampa, producendo un pasticcio di materiali estranei che creerà non pochi grattacapi al curatore-editore, E.T.A. Hoffmann («Contrariato e contrito, il curatore deve quindi ora confessare che l’astruso guazzabuglio di materiali allotri è dovuto soltanto alla sua leggerezza, poiché avrebbe dovuto esaminare attentamente il manoscritto del gatto prima di inviarlo alle stampe»).

Insomma, com’è che dei punti finiscono sul pentagramma, non richiesti? Per un errore. Di lettura. In una magnifica ricognizione dedicata alla fenomenologia della copia, il filologo Alphonse Dain ricorda come ci si possa trovare di fronte a veri e propri lapsus di lettura. Anche Sigmund Freud li ha presi in considerazione nel suo Psicopatologia della vita quotidiana. È stato Louis Havet, nel suo prezioso Manuel de critique verbale appliquée aux textes latins (1911) a soffermarsi per primo su quelli che considerava veri e proprie condizioni psicologiche della copiatura. Nel suo Les manuscrits Alphonse Dain distingue almeno quattro condizioni, quattro operazioni fondamentali nell’atto della copiatura che possano implicare l’alterazione del testo: 1) lettura del modello (con conseguenti errori di copiatura); 2) memorizzazione del testo («Per andare dal modello al foglio che scrive, il copista deve ricordare il testo, e capita che lo ricordi male»); 3) la dettatura interiore, a cui si devono la maggior parte degli errori di copia  («Lo scriba si detta interiormente il testo che sta per scrivere»); 4) il ruolo della mano («La copiatura è un atto manuale e anche la mano produce errori»). Giorgio Pasquali (che ha recensito il saggio del Dain) segnala lapidariamente in una pagina del suo Storia della tradizione e critica del testo come: «Ogni errore di lettura implica un errore di pensiero». Esistono casi di omissione o di aplografia capaci di creare calembour testuali. Armando Balduino lo ricorda in un passaggio del suo Manuale di filologia italiana, confessando di esserci incappato numerose volte. Trattando i lapsus di Freud, scrive: «A fattori analoghi è dovuta, appunto, la maggior parte dei fenomeni di omissione. Ed è forse utile qui precisare, senza cercare lontano, che, in questo stesso paragrafo, là dove ora si legge  “importa non tanto” avevo in realtà scritto di mio pugno “importanto”. In effetti era ancora aperto sul mio tavolo il libro di Freud che ho citato e, benché stessi affermando che per un filologo importano relativamente le motivazioni dell’inconscio, esse invece continuavano ad attrarre il mio interesse; senza avvedermene ho perciò soppresso il non. In tal modo venivano ad essere contigue due sillabe identiche, quella finale di “importa” e quella iniziale di “tanto”, e proprio questa contiguità ha favorito il crearsi dell’ircocervo che ho appena riferito («importanto»)».

Cosa può essere accaduto dunque al nostro copista o al nostro tipografo-editore? Una lettura interiore superficiale ha innescato l’errore? Oppure, il nostro amico era forse un melomane e si è permesso di correggere il manoscritto provocando un errore critico? Quel che ci interessa, ora, è che quell’errore – volontario o meno – crea una piccola sincope nell’esecuzione, uno shock per chi ascolta. Faute de mieux, possiamo considerare questo passaggio un ircocervo musicale. 

Jacques Perconte, Ving-neuf minutes en mer. Haute Normandie, 2016

La vendetta del testo (.jpg – .txt)

Vorrei parlare dei lavori di Jacques Perconte, un artista che apprezzo, ma non ho sufficienti nozioni informatiche per farlo. Così, per cercare di raccapezzarmi, ho provato a considerare alcuni di quelli che mi sembrano suoi gesti abituali, operazioni che hanno il fine di modificare le immagini che ha filmato, trasferendole, traducendole, visualizzandole grazie all’apporto della filologia. Dunque, un artista che lavora sulla compressione delle immagini avrebbe qualcosa a che fare con la filologia? Forse.

In un’intervista piuttosto recente, pubblicata sul sito critikat.com, Jacques Perconte si sofferma su aspetti tecnici e teorici legati al suo lavoro. Vediamoli: «Ho avuto la fortuna di essere un autodidatta e di aver cominciato a lavorare su questi elementi prima che le interfaccia grafiche finissero per apparire stabili e suddivise. Nessuno aveva da insegnarmi nulla al riguardo e questo ha fatto sì che me la sbrigassi da solo. La programmazione informatica non è in realtà una cosa forzatamente complicata: non si tratta di entrare nella complessità matematica inaccessibile del codice. L’essenziale è apprendere a manipolarlo al fine di produrre qualcosa di nuovo».

Jacques Percontes, Avant l’effondrement du Mont Blanc, 2020

Cerchiamo di chiarire. Jacques Perconte lavora in digitale. Filma, cattura immagini che si depositano sulla memoria della videocamera. Queste immagini sono destinate ad essere trasferite su file compressi e lavorate al computer. In verità, la questione è molto più articolata di come la spieghiamo. Invito, chi volesse, a leggere l’ottimo intervento di Bidhan Jacobs, apparso sul n. 26 de “La Furia Umana”: Jacques Perconte: voies et formes de la libération du signal. Il saggio chiarisce perfettamente ogni passaggio legato al modo in cui l’immagine registrata da Perconte giunge a noi spettatori. Possiamo qui riassumere i passaggi in una formula: rilevazione / codifica / ricostruzione. Un’immagine viene registrata. Il segnale luminoso viene convertito in un segnale elettronico. In un secondo momento questo segnale viene alterato attraverso una serie di strumenti informatici. Il risultato viene in seguito sottoposto a noi spettatori. L’aspetto che più ci interessa è legato al modo in cui Perconte lavora, modifica gli algoritmi di codifica del segnale. In poche parole, non ci interessa tanto la resa visiva, ma il momento che lo precede: ciò che sta alla base e permette la lettura dell’immagine. Siamo cioè interessati al modo in cui quell’immagine viene costruita; al modo in cui a partire dalla sua base si provochino degli errori nella sua decodifica. Cosa accade? I pixel si disfano, si ammassano, formano una sorta di “rumore”, si polverizzano. Sono colti in stato di metamorfosi. Questo è il dato visivo. Ma a noi interessa ciò che sta a monte e ne permette la resa visiva. In poche parole, ci interessa il modo in cui Perconte agisce sul codice che definisce quell’immagine. E quel codice è scritto.

Risulterà forse ora più chiaro il ricorso alla filologia. Ma, prima, c’è un aspetto paradossale che va sottolineato. La maggior parte delle immagini che oggi ci circondano su schermi si basa su un testo scritto. Se cambio l’estensione di una foto da .jpg a .txt e lo apro in un editor di testo, apparirà solo un codice intricato. Kenneth Goldsmith, nel suo CTRL+C, CTRL+V (Scrittura non creativa), arriva a sostenere che oggi siamo più che mai sommersi dalle parole: «Persino Marshall McLuhan, che nel predire la nostra era digitale ha avuto ragione su così tante cose, su questa si è sbagliato. Anche lui vedeva all’orizzonte un Image World, e inveì contro la linearità di Gutenberg, predicendo che ci saremmo ritrovati in un mondo multimediale sensuale, tattile, basato sull’oralità, che ci avrebbe liberato dagli angusti secoli della prigione testuale. E in questo aveva ragione: più il Web cresce, più si fa ricco, tattile, intermediario. Ma McLuhan dovrebbe comunque ammettere che questa ricchezza è in fin dei conti prodotta da righe ordinate di linguaggio organizzato, programmato su vincoli ancora più rigidi di quelli di qualsiasi forma retorica che li ha preceduti». E appena dopo continua: «Ma ben lontano dalla prigione di parole di cui parla McLuhan, il rovescio della medaglia è la grande malleabilità di questo linguaggio. Un linguaggio che assomiglia alla creta, con cui possiamo sporcarci le mani, un linguaggio da accarezzare, modellare, strangolare. Il linguaggio digitale mette in bella mostra il suo aspetto materiale in modi che prima erano sconosciuti».

Jacques Perconte, Après le feu (Corse), 2010

Immagine e materia

Mi pare che Jacques Perconte abbia fatto sua questa intuizione. Ciò che nel tempo va elaborando è dunque un’opera di sabotaggio testuale in grado di provocare magnifiche ricadute visive. Attraverso programmi che ha messo a punto personalmente (stanco di dover trascrivere codici per manipolarli) non fa altro che inserire nel testo una serie di lapsus, errori simili a quei due punti nella Sonata in si bemolle minore op. 35 di Chopin, in modo tale che il microprocessore leggerà erroneamente l’immagine, eseguendola e trasmettendola in maniera sbagliata, creando una serie di capricci visivi, specie di ircocervi digitali che si palesano e variano lungo la durata dell’inquadratura. Il tempo, la sua verificabilità nell’inquadratura, la sua cadenza, è insomma modulato da queste sincopi, da questi errori testuali.

Perconte lavora sulla materialità di questo nuovo linguaggio visivo, sulla sua specificità. Lontano da sirene postmoderne, ci sembra più prossimo a certe posizioni moderniste: «A mio avviso l’essenza del modernismo consiste nell’uso dei metodi caratteristici di una disciplina per criticare la disciplina stessa, non per sovvertirla ma per circoscriverla con maggior rigore nella sua area di competenza», sosteneva Clement Greenberg. Il metodo di Perconte non ci sembra così distante. Più che giocare sulla superficie delle immagini con applicazioni stile glitch (che detesta), egli lavora e modifica alla radice l’immagine, cioè ragiona sul suo specifico, che è paradossalmente testuale. Dietro alla magnificenza dei suoi lavori dobbiamo situare questo indefesso traffico di codici, l’operare continuo sulla malleabilità e la materialità del linguaggio che ne definisce l’immagine destinata ad apparire sullo schermo.

Resta un’ultima considerazione. Che ne è del supporto? Possiamo ancora parlare di supporto quando parliamo di digitale? Che cos’è uno schermo quando tutto diventa improvvisamente nero, come nell’ultimo DeLillo? Forse è vero ciò che scrive Giorgio Agamben: «Negli strumenti digitali, il testo, la pagina-scrittura, codificata in un codice numerico illeggibile per gli occhi umani, si è completamente emancipata dalla pagina-supporto e si limita a transitare come uno spettro sullo schermo».

Ma questa è un’altra storia.*

*I riferimenti alla Sonata in si bemolle minore op. 35 di Chopin si trovano in C. Rosen, La generazione romantica, Adelphi, Milano, 1997; sulla “fenomenologia della copia” rimandiamo a A. Dain, “Il problema della copia”, in A. Stussi, Fondamenti di critica testuale, Il Mulino, Bologna, 1998; la citazione di Pasquali è rintracciabile in Storia della tradizione e critica del testo, Le Monnier, firenze, 1962; Balduino parla di omissione e “ircocervi” nel suo Manuale di filologia italiana, Sansoni, Firenze, 1995; sul lavoro di Jacques Perconte rimandiamo a B. Jacobs, Jacques Perconte: voies et formes de la libération du signal, in “La Furia Umana”, n. 26, 2015; Kenneth Goldsmith parla di testo scritto e materialità in relazione all’immagine in CTRL+C, CTRL+V (Scrittura non creativa), Nero, Roma, 2019; la famosa definizione di Greenberg si trova all’interno di “Pittura modernista”, ora in Giuseppe Di Salvatore, Luigi Fassi (a cura di), Clement Greenberg. L’avventura del modernismo, Johan & Levi, Monza-Milano, 2011; l’osservazione di Giorgio Agamben è contenuta in “Dal libro allo schermo. Il prima e il dopo del libro”, in G. Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Roma, 2014.    

In copertina: Jacques Perconte, Impressions, 2010

Rinaldo Censi

scrive, traduce e svolge attività di programmazione cinematografica. È interessato alle frontiere disciplinari. Collabora con la Cineteca di Bologna, per la quale ha curato il dvd “Histoire(s) du cinéma” di Jean-Luc Godard, oltre che rassegne su diversi filmmaker. Il suo ultimo libro si intitola “Copie originali. Iperrealismi tra pittura e cinema” (Johan & Levi, 2014).

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