«Il barocco è qualche cosa che è saltato in aria, che s’è sbriciolato in mille briciole: è una cosa nuova, rifatta con quelle briciole, che ritrova integrità, il vero». Ho pensato a queste parole folgoranti di Giuseppe Ungaretti (verso la fine degli anni Sessanta dettate a commento della sua raccolta “barocca” anni Venti, Sentimento del Tempo), guardando lo splendido video che documenta una delle più stupefacenti opere di Gordon Matta-Clark, Office-Baroque. «Un film-scultura», ha scritto Stefano Chiodi, che ci regala «una vertigine piranesiana»: facendoci precipitare in «nuove prospettive, impreviste, instabili, sorprendenti».
Il video, di una quarantina di minuti, era fra quelli proiettati alla bellissima mostra Collecting Matta-Clark. La raccolta Berg. Opere. Documenti. Ephemera (tenutasi per le cure di Harold Berg, Federico de Melis e Gianni Dessì all’Accademia di San Luca, a Roma, dal 14 dicembre 2018 al 25 febbraio 2019); ma è su You Tube: sicché tutti possiamo assistere alla preparazione meticolosa, all’esecuzione peritosa, e al «lirico» (secondo Nancy Spector) risultato finale di uno dei più spettacolari “tagli” fra quelli praticati da Matta-Clark in quei pazzi, calunniatissimi, fantastici anni Settanta.
Era l’estate del 1977 (l’anno dopo, il 27 agosto, un tumore fulminante al pancreas porrà fine, a soli 35 anni, alla sua traiettoria) quando, nell’ambito dei festeggiamenti per il quarto centenario della nascita di Rubens, il direttore dell’Internationaal Cultureel Centrum di Anversa, Florent Bex, invitò a realizzare un intervento in città il giovane artista di New York. Lui prontamente sottopose al suo tipico “trattamento” un palazzo di cinque piani adibito a uffici, proprio di fronte a una delle viste più turistiche di Anversa, il castello di Steen. “Barocchi”, elegantemente fioriti quanto fastosamente ornamentali, erano risultati nell’occasione i suoi “tagli”, le sue ellittiche spirali e volute (ma non per questo, come documenta il video, meno faticosi e pericolosi da realizzare per l’artista e i suoi collaboratori).

Figlio d’arte (del celebre pittore surrealista cileno Robert Sebastian Matta Echaurren), due anni prima Matta-Clark aveva fatto rumore col suo Conical Intersect: spettacolare “taglio” che, nelle more dei lavori al nuovo e flamboyant museo d’arte contemporanea voluto da Georges Pompidou, aveva trapassato da parte a parte un seicentesco palazzo del Beaubourg destinato a venire abbattuto per massimizzare i profitti degli investitori immobiliari nell’area. Era stato, quello presentato alla Biennale di Parigi, un intervento polemico: non tanto nei confronti di quella spregiudicata (e infatti chiacchieratissima) operazione architettonica, quanto della non meno spregiudicata prassi urbanistica che, allora come qualche decennio prima (i famigerati “sventramenti” nella Roma fascista dei tempi di Ungaretti…), non si peritava di demolire edifici vecchi di secoli in nome delle esigenze speculative del presente.

La valenza anche politica dei “tagli” di Matta-Clark era dichiarata. In uno dei suoi ripetuti soggiorni in Italia, nel ’75, tenta di realizzare un “taglio” a Sesto San Giovanni, dove un gruppo di operai e di militanti di Lotta Continua avevano occupato una fabbrica abbandonata: in una lettera-progetto che intitola Arc de Triomphe for Workers, propone loro di «aprire brecce nei muri e pareti per comunicare un’idea di libero passaggio». In una lunga intervista a Donald Wall, uscita nel ’76 su «Arts Magazine» (e riportata nel bel catalogo dell’Accademia di San Luca), spiega come in ogni sua opera vadano considerati almeno tre versanti. Da un lato, in senso appunto politico, «l’atto di smantellare un edificio è un gesto contro tanti aspetti delle odierne condizioni sociali»: «una reazione contro condizioni sempre meno sostenibili in termini di privacy, proprietà privata e isolamento» e, più alla radice, la messa in evidenza del «vuoto centrale», dell’«interstizio […] che divide l’io dal sistema capitalistico americano», «una schizofrenia di massa molto reale e attentamente nutrita in cui le nostre percezioni individuali vengono continuamente sovvertite dai mass media». C’è poi l’aspetto metalinguistico, che mette in discussione l’«attitudine funzionalista» dell’architettura modernista (nel ’68 Matta-Clark si era laureato in Architettura alla Cornell University; e nel ’74 aveva fondato il gruppo Anarchitecture insieme, fra gli altri, a Richard Nonas e Laurie Anderson). C’è infine, aggiunge, quello «che si potrebbe definire l’aspetto ermetico»: «un gesto interiore/personale che collega l’io microcosmico all’insieme».

C’è qualcosa di struggente, nell’ironica consapevolezza di Matta-Clark che – proprio per i condizionamenti del sistema capitalistico immobiliare, prima di quello specificamente artistico – nulla, dei suoi lavori, sarebbe mai restato. Sempre a Wall dice che, se davvero un museo fosse interessato al suo lavoro, dovrebbe consentirgli di «tagliare l’edificio». Sue vere opere sono infatti gli edifici, e le azioni che li hanno modificati, non gli ephemera rappresentati da fotografie, video, pubblicazioni, disegni preparatori eccetera. I frammenti dei templi conservati nei musei, «anche se sono belle pietre, non sono l’Acropoli».
È dunque un paradosso squisito votarsi a collezionare questo artista votato alla «dispersione militante», come la definisce Federico de Melis intervistando il felice colpevole di questa perversione, Harold Berg: che, a partire dal 2006, le ha dedicato la propria esistenza. Secondo lui le ultime opere di Matta-Clark risentono della tragedia consumatasi nel ’76: quando il fratello gemello Batan (al secolo John Sebastian), a sua volta disegnatore di talento ma affetto da gravi disturbi psichici, cadde da una finestra del loft newyorkese di Gordon mentre questi si era assentato per andare a comprare qualcosa da mangiare. C’era sempre stato un aspetto circense, acrobatico, nelle “azioni” di Matta-Clark; impressionanti per esempio i passi di danza di Carol Goodden (allora moglie dell’artista, ballerina nella compagnia di Trisha Brown), sul vuoto di uno dei primi suoi “tagli”, ai Bronx Floors nel ’72 (da lui ripresi dal basso in alcune fotografie riprodotte in catalogo); ma verso la fine vi prevale in effetti una coloritura ermetica, per dirla con l’artista; e, si può aggiungere, “apocalittica”. Cioè, secondo etimo, rivelatoria: dei penetrali propri, oltre che di quelli architettonici.

Sempre nel ’77, all’indomani della morte del fratello, Matta-Clark gli dedica Descending Steps for Batan. Un atto semplice quanto radicale e scopertamente rituale, psicanaliticamente esorcistico: l’artista scava un pozzo nel sottosuolo della galleria Yvon Lambert a Parigi (un museo che davvero, per una volta, gli consente in qualche modo di tagliarlo…), sino a raggiungere le fondamenta dell’edificio. Come ha scritto Riccardo Venturi, Matta-Clark «nei sotterranei non cercava le fondamenta quanto il vuoto […], pensava le fondamenta come un vuoto e non come un pieno, non come una pietra sopra la quale poggia fisicamente una struttura». Certo, è il manque-à-être lacaniano, quello che Matta-Clark mette a nudo: il vuoto centrale, come lo chiama lui, del nostro modo di vivere.
Ma c’è pure, direi, un riferimento a un’idea, una matrice culturale che – volendo definirla con una sola parola – davvero si può chiamare con l’attributo da lui impiegato per definire il lavoro di Anversa. All’inaugurazione della mostra romana ho chiesto a Harold Berg il perché di quel Baroque nel titolo. Lui mi ha dato prima la risposta “ufficiale”, da studioso: il riferimento è all’originale occasione “rubensiana” e, più alla radice, alla passione di Matta-Clark per Borromini (ben comprensibile, data l’attitudine di questi all’architettura dentro l’architettura: che per inciso fa dell’Accademia di San Luca, collo scalone elicoidale da lui progettato, la sede ideale per l’omaggio al discepolo newyorkese). Ammiccando aggiunge poi, però, una versione più personale: la parola baroque, in inglese e soprattutto in fiammingo, si pronuncia quasi esattamente come broke.
All’indomani della morte prematura di Matta-Clark, Florent Bex si batté perché l’edificio da lui “tagliato” non venisse demolito; e che se ne facesse, invece, la sede del museo d’arte contemporanea della città. Niente da fare: nel 1980, al solito, le ruspe cancellarono per sempre Office-Baroque. Sostiene Jane Crawford, la sua seconda moglie, che Matta-Clark non pensava al suo lavoro come mera distruzione: «preferiva concepirlo come un’apertura di nuovi spazi». In quest’ambivalenza «struttiva» (come Robert Musil sintetizzava, in una pagina dell’Uomo senza qualità, quella squisitamente novecentesca fra distruzione e costruzione) c’è forse tutto il paradosso di un artista estremo, puro e assoluto – e tale proprio perché calato nelle apocalissi della storia collettiva e della biografia individuale. Per dirla col maestro di Ungaretti, Mallarmé, la distruzione, davvero, era stata la sua Beatrice.
Questo articolo è uscito sul numero 1-2 della rivista «La Foresta. Itinerari nell’arte contemporanea», nel febbraio del 2019
In copertina: Gordon Matta-Clark, Conical Intersect, Parigi 1975