L’Africa di Peter Brook

Una strana coincidenza: nello stesso giorno “La Lettura” del “Corriere della Sera” dedica alcune pagine alla cultura “africana” (ma solo una colonnina al teatro); poi mi capita di ri-vedere “BlackKlansMan”, il bellissimo film di Spike Lee; e infine, in serata, finisco un ottimo libro: “Le Afriche di Peter Brook”, scritto con partecipe passione da una giovane studiosa, Rosaria Ruffini. Insomma, una giornata all’insegna della black culture di grande interesse. Del percorso di studi di Ruffini sono stato testimone sin dai suoi primi passi: attenta conoscitrice del lavoro fatto dal maestro Brook nel suo Bouffes du Nord, Ruffini si è da anni concentrata sul coté africano, ossia su quel fondamentale campo di analisi e di creazione che Brook ha abbracciato sin dallo storico viaggio in Africa del 1973, agli albori della sua avventura con il CIRT, il centro di ricerca internazionale fondato a Parigi alle Gobelins.

Proprio l’attenzione di Rosaria Ruffini restituisce appieno, con questo volume, la vertigine di una relazione ultradecennale, profonda, articolata, ben più ampia di quel che potrebbe sembrare allo spettatore pure appassionato. Ed è, il libro, una ferma risposta alle superficiali accuse che recentemente sono state rivolte a Peter Brook di “appropriazione culturale” dai nuovi ortodossi del puritano “politicamente corretto”. La colpa del regista sarebbe stata quella di appropriarsi di culture altre (quella africana, appunto, nei tanti spettacoli allestiti, o quella indiana nel caso dello storico Mahabharata) filtrandole con il suo punto di vista di “bianco, occidentale e di potere”.

Ruffini non fa cenno a tali sterili polemiche e forse fa bene: semplicemente mostra, con un racconto dettagliato, corroborato da tante testimonianze inedite in forma di intervista, che lo sguardo di Brook sull’Africa non è stato né superficiale né, tanto meno, violento. Sin da quel primo viaggio, considerato folle dai più, Brook ha la possibilità di abbandonare qualsiasi abitudine, qualsiasi stereotipo, ogni sicurezza raggiunta. Spiegava il maestro: «Dobbiamo lavorare senza teatro, senza codici, senza parole, senza tecniche. Dobbiamo partire dal nulla, sviluppare la nostra capacità di improvvisare e vedere quanto sia difficile». E mentre cominciavano a “andare di moda” le culture orientali – quella indiana, quella balinese – Brook sceglie di attraversare il Sahara, per arrivare al “continente nero”. Non tutto funziona in quella prima avventura: l’entusiasmo e la curiosità non bastano. Rosaria Ruffini ricostruisce i fallimenti di quella spedizione, le delusioni, le fatiche.

Eppure, in quella vertigine di fatica e di scoperte, si apre la strada a quello che sarà il “carpet show”: «Dopo l’esperienza africana, Brook ritorna in Europa con le leggi empiriche sullo spazio, la durata, il ritmo, il rapporto con il pubblico che cercava da tempo» scrive Ruffini. Ma, per l’Autrice, ancora più significativa sarà per Brook la scoperta della Nigeria e della sua vita culturale e spirituale. A Ife, il gruppo incontra il drammaturgo Wole Soyinka e il suo festival “Yoruba folk opera”; a Kano presenta un abbozzo del progetto su “La conferenza degli uccelli”, tratto dal poema di Farid al-Din Attar (che andrà malissimo di fronte al pubblico africano, tanto da far dire a Brook: «Dagli africani ho avuto la fortuna di imparare che essere troppo seri, non è mai serio»), o degli stati di possesione. Poi sarà la volta del Niger, dove Peter Brook entra in contatto con il mondo dei narratori, i Griot, che saranno una vera e propria rivelazione. Ma è ad Ife, assicura l’autrice, che Brook sperimenterà la declinazione «inaspettata, di quello spazio vuoto che lui stesso aveva teorizzato qualche anno prima, quando scriveva: “al visibile-invisibile non si accede in modo automatico… per vederlo sono necessarie determinate condizioni legate a particolari stati o a un certo tipo di comprensione. Comprendere la visibilità dell’invisibile è il lavoro di una vita”».

Ecco il nucleo incandescente, la ricerca, la profonda ricerca teatrale del Maestro con il suo formidabile gruppo di attori e attrici: l’invisibile. E sarà proprio un attore, il giapponese Yoshi Oida a fare da «mediatore tra Brook e l’Africa», non solo rispetto ai riti di possessione, ma anche durante gli altri incontri con l’invisibile e la dimensione esoterica: «queste religioni africane – dirà Oida – sono molto simili allo shintoismo giapponese». E l’inedita affinità Africa-Giappone si riverserà, spiega Rosaria Ruffini, nelle regie successive: «soprattutto quelle che affrontano il mondo dell’invisibile. Ne “La Tempesta” shakespeariana del 1990, le litanie bambarà recitate dai due attori africani che interpretano Prospero e Ariel si mescolano alla musica antica giapponese di Harue Momoyama in uno spazio scenico che rievoca il giardino zen di Kyoto». Brook, alla scoperta delle tante Afriche che si celano in Africa, si lascia guidare dal libro di ricordi di viaggio di Carl Gustav Jung, mette in gioco il corpo e la psiche. E non fa male Rosaria Ruffini ad evocare altri importanti viaggi africani, come quelli di Alberto Moravia e di Pier Paolo Pasolini, anche loro alla ricerca di un “invisibile”, che certo non si coglie al primo sguardo, ma serve tempo, frequentazione, saggezza, pazienza: «il viaggio in Africa è dunque un percorso che attiene alla sfera del pensiero e delle manifestazioni mentali». Poi, tutta questa esperienza si tradurrà in spettacoli, in concreta azione sul palcoscenico. Ecco allora eventi epocali, come “Les Iks”, del 1975, che racconta il destino di una comunità di cacciatori nomadi ugandesi colpiti da una terribile carestia. Ruffini ricostruisce passo dopo passo l’allestimento, che si basa sul testo etnografico “The mountain people” dell’antropologo Colin Turnbull. Per Brook, “Les Iks” era «una metafora perfetta ovvero qualcosa che esiste a due livelli: reale nel senso della vita come la conosciamo e reale nel senso più profondo del mito».

In questo approccio, racconta Ruffini, la messa in scena «risulta inedita dal momento che Brook (…) non promuove la dignità dei neri, ma nega tout-court l’esistenza di una qualsivoglia differenza tra esseri umani di origini diversi. Brook dichiara qui uno dei suoi capisaldi: la Reinbow Theory, ovvero la teoria dell’arcobaleno, secondo la quale in ciascun essere umano è presente l’intera gamma dei colori e delle origini dell’umanità intera. Perciò l’interpretazione teatrale non è questione di travestimenti, ma un processo di reminiscenza di quella parte di noi che è sommersa, sintetizzata dall’affermazione “abbiamo tutti un’Africa dentro di noi”».

Bellissima intuizione che per il grande critico George Banu è una “preziosa indifferenza” alle origini che supera ogni connotazione razziale, linguistica o nazionale: per cui tutti, nella meravigliosa libertà del teatro, possono fare tutto, con buona pace – aggiungo io – degli ortodossi del politicamente corretto. Scriveva Brook al tempo: «Abbiamo creato il CIRT nel 1971 per dire che, se non possiamo cambiare il razzismo o le barriere tra i paesi, possiamo, almeno su piccola scala, fare del teatro l’affermazione vivente che persone, razze, colori, relitioni, culture diverse, possono vivere e lavorare insieme, e che tutti questi punti di vista possono raccontare la stessa storia». Superando tecnicismi, virtuosità, vezzi scenici, finzioni e fascinazioni, Brook va diretto all’essenza dell’Umano, tra narrazione e azione, tra evocazione, illusione e performance. Poi ci saranno gli altri capolavori: “L’Os” in coppia con “La Conférence des oiseaux”, in cui il Maestro non perderà mai di vista la sua ricerca africana, collaborando con attori e autori straordinari. Tra questi, ovviamente, un posto d’onore merita il meraviglioso Sotigui Kouyaté, cardine del teatro di Peter Brook. Nell’ampia parte dedicata a colui che sarà protagonista del “Mahabharata”, della “Tempesta” e di tanti altri lavori, il libro di Rosaria Ruffini raggiunge il suo apice, soprattutto per la grande mole di interviste inedite – che l’attore ha concesso all’autrice – e per la dovizia di notizie, particolari, rimandi. Kouyaté è il mago, è il griot, è la figura essenziale che dipana sapienza e maestria nella leggiadra essenzialità di Brook.

Il racconto prosegue poi con un affondo nel “ciclo sudafricano” di Peter Brook, analizzando con minuziosità alcuni notevolissimi allestimenti, anche recenti. A partire dalla visione di The Island, di Athol Fugard, interpretato magistralmente da John Kani e Winston Ntshona, spettacolo nato nella terribile dittatura dell’Apartheid (per Brook: «la notte più straordinaria passata in teatro»), il regista inglese scopre che il suo libro “Lo spazio vuoto” è considerato una lettura fondamentale per tutti quegli artisti sudafricani in cerca disperata della possibilità di fare un teatro senza i mezzi del teatro. “Woza Albert!” di Barney Simon, sarà la prima regia sudafricana per Brook, spettacolo per cui sospende la Teoria dell’Arcobaleno: «la sofferenza del Sudafrica è così recente che necessita di un realismo documentario». La creazione di “Woza Albert!” moltiplica la complessità africana all’interno dell’Africa, scrive Rosaria Ruffini, e «allo stesso tempo sviluppa uno dei giochi di specchi preferiti dal maestro inglese: il rovesciamento delle origini. Per gli attori, il compito non è facile. I due protagonisti sono Mamadou Dioume, di origine senegalese e Bakary Sangaré, maliano, che avevano già lavorato con Brook». Ma lo spettacolo funziona.

Poi sarà la volta dell’ironico e struggente “Le Costume”, nel 1999, tratto da una novella di Can Themba, che segna il periodo più “black” del regista, e ancora di “Sizwe Banzi est mort”, testo di Athol Fugard, presentato a Avignone nel 2006 con protagonista l’ottimo Habib Dembélé. Ma l’ultima Africa di Brook è “Tierno Bokar”, di Amadour Hampâté Bâ, straordinaria figura di intellettuale militante. Il lavoro vede la luce nel 2004, spettacolo di grande impatto spirituale e religioso, che l’autrice definisce «lo spettacolo più invisibile di Brook» e che racconta di un’Africa ormai al tramonto. È una «Africa ammutolita dalla perdita della sua ricca diversità culturale, dapprima sotto i colpi dell’incessante uniformarsi degli immaginari contemporanei globali, e posi sotto la violenza di un fondamentalismo che ne elimina le divergenze, cancellando memorie e tradizioni. La posta in gioco è la circolazione del pensiero, delle metafore, delle creazioni, dei sogni». Un “gioco” che Peter Brook non mai smesso di affrontare e che molti, invece, hanno abbandonato attratti da altre “sirene”. Ma l’Africa, anzi le Afriche sono là, ancora come una domanda aperta, con incontenibile forza e strabilianti culture.

Rosaria Ruffini
Le Afriche di Peter Brook
Linea Edizioni
pp. 194, € 16

In copertina: Sotigui Kouyaté come Prospero ne “La Tempesta” di Peter Brook

Critico teatrale e studioso, va a teatro dal 1988, più o meno ogni sera. Ha raccontato quel che pensava su diverse testate nazionali, online, cartacee, radio e tv. Collabora con glistatigenerali.com, con L’Espresso, Radio3Rai, Che-fare.com, Lettre International e ha collaborato con altre testate nazionali e internazionali. Nel suo percorso ha incontrato Emma Dante, Ascanio Celestini, Virgilio Sieni, Ricci/Forte e molti altri artisti cui ha dedicato libri e saggi. Nel frattempo tiene corsi all’Università (all’Università di Roma “La Sapienza”) e laboratori di critica, come alla Biennale Teatro di Venezia dal 2010 al 2016. Si è dedicato alle teorie critiche applicate alla scena italiana con il libro “Questo fantasma, il critico a teatro” (Titivillus editore) e cura la collana “Guide Teatrali” di Cue Press, con cui ha pubblicato il libro “Che c’è da guardare? La critica di fronte al teatro sociale d’arte” (2017) e il più recente “Altri corpi/nuove danze” (2019). Con Luca Sossella Editore ha dato alle stampe “Il respiro di Dioniso, il teatro di Theodoros Terzopoulos” (2020). Ha diretto festival, ha fatto parte di giurie internazionali (Sarajevo, Teheran) e nazionali, e nel 2012 ha lavorato come direttore artistico del Bahrain National Theatre.

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