Filippo Tuena, giù nel buco bianco

04/02/2021

Il documento dei destini possibili di un libro è, in accordo con quanto scrive l’autore stesso, uno strumento utile esclusivamente agli studiosi e forse neanche a loro. La vita di un libro si svolge nell’unica versione che esso dà di sé: quella che va in stampa e che permette l’instaurarsi d’una triangolazione epistemologica tra libro-autore-lettore. Del resto, che nella sostanza narrativa di Filippo Tuena il lector in fabula sia previsto lo sappiamo da lungo tempo. Tutti i suoi libri sono disseminati dall’effetto del libro che guarda se stesso. In questo dispositivo di moltiplicazione ottica le numerose talee fotografiche non fanno che ribadire, più che la natura metamorfica e transmediale del libro stesso, la sua capacità – e direi anche: la sua necessità – di autocommento.

Ad esempio, nelle Variazioni Reinach (Rizzoli 2005; Beat 2015) la forma musicale si adatta per divenire “maschera” che accoglie nella sua cornice la materia narrativa: il sabotaggio della tradizionale messa-in-abisso degli espedienti tecnico-formali e la loro esposizione alla luce del sole, per così dire, non mostrano altro che c’è una presenza – un «uomo in più» – nella prosa: il lettore appunto. Lo stesso scrittore, nelle ampie e generose pagine d’introduzione alla nuova edizione dell’ormai classico Ultimo parallelo (Rizzoli 2007; il Saggiatore 2013 e adesso, per le cure del sempre meritorio Saggiatore, di nuovo in libreria), lo ripete più e più volte: «Posso affermare senza pericolo di essere smentito che la voce del narratore assieme allo sguardo del lettore compongono l’architettura di ogni libro. Ultimo parallelo racconta e mostra questi due punti di vista che concorrono alla vitalità di un testo».

Possiamo, infatti, leggere questa introduzione come un racconto d’avventura esistenziale e letteraria, che narra la scrittura di un’avventura realmente accaduta, ma che, in nel romanzo, diviene ancor più un’avventura letteraria. L’impresa fallimentare del capitano Scott e dei suoi uomini alla conquista del Polo Sud nel 1911-1912, in aperta competizione con la parallela spedizione di Amundsen, è narrata attraverso il ricorso a una ricca strumentazione stilistica: prosa, prosimetro, utilizzo di fotografie e cartografie; e ancora palinsesti omerici, danteschi. Il libro è nettamente diviso in una prima parte caratterizzata dall’azione e una seconda parte dove l’inevitabile buco diegetico – l’ellissi di chi non può aver preso parte all’ultimo pezzo del Southern Party, giacché proprio quell’assenza gli ha permesso di sopravvivere –, questo “buco bianco”, viene colmato dalla lettura da parte di Atkinson[1] dei diari ritrovati della truppa massacrata dal gelo.

Herbert Ponting, Iceberg al largo di McMurdo, 1910

Ma su tutto veglia e accompagna e racconta «l’uomo in più», un’ombra pensante e ubiqua, che – apprendiamo ora dal regesto degli scartafacci e dalle preziose appendici all’edizione – in un certo momento della stesura del libro è stata “incarnata” dallo spettro dell’able salesman George Vince annegato nel 1902. Ma nella redazione finale la presenza è vaga, citato omaggio all’Eliot della Terra desolata (a sua volta ispirato dai resoconti di spedizioni antartiche). L’indeterminatezza di questo soggetto è decisiva per il clima di mistero e di solennità che costituisce la bellezza di questo libro.

Esiste, tuttavia, un rimpianto. Apprendiamo, infatti, che nelle prime fasi di scrittura il tempo scelto per la narrazione doveva essere un profetico futuro. Ne sarebbe nato certamente un «libro spietato», l’ombra che segue i viaggiatori, da testimone elegiaco della disfatta, sarebbe diventata un minaccioso rapace invisibile, una specie di Erinni che avrebbe accentuato il carattere esiziale della spedizione Scott: il lettore avrebbe colto dietro a ogni faticoso metro di neve guadagnato la sconfitta anticipata. Con somma frustrazione avremmo assistito non già al fallimento del Southern Pole Sledge Party, ma al Fato stesso dell’uomo: avremmo visto i fili invisibili che muovono le sorti del mondo. Tuena scrive che, poi, ha scelto di adottare un più canonico tempo passato perché non avrebbe potuto rinunciare a «quella marea [della memoria] che sarebbe montata di tanto in tanto». Per uno scrittore come lui, così addestrato a seguire i flussi della memoria, così sedotto dalla saggistica, dalla memorialistica, da tutto quanto non sia d’invenzione della fase d’innesco, rinunciare all’elemento del “passato” sarebbe stato troppo. Eppure, anche se come reperto archeologico, non tutto è andato perduto. Rimangono tracce di questo utilizzo incombente della lingua letteraria ed è proprio in questo rapporto dialettico ch’è possibile intendere le immagini riprodotte nell’infratesto.

Herbert Ponting, La spedizione di Scott

L’utilizzo delle immagini che Tuena abitualmente usa nei suoi romanzi è una questione ormai ampiamente dibattuta. Da ultimo Giuseppe Carrara[2] collauda una formula critica per la quale le fotografie innestate fra le parole, al pari dell’illustre predecessore W.G. Sebald, del quale Tuena è senz’altro un omologo italiano, sono appoggi della memoria, di modo che ogni libro è, grazie alla quota di evocazione ectoplasmatica favorita dalla presenza d’immagini tanto più spettrali quanto più appartenenti a un referente “storico”, una sorta di indagine trans-medianica non soltanto attraverso i media che compongono l’opera (le parole e le immagini) ma anche attraverso i mondi che questo particolare medium pone in contatto. Ultimo parallelo, infatti, sovrabbonda di sacche fantasmatiche: dall’ombra silente e caritatevole che segue i nostri, fino alle immagini che, a loro volte, sono già state manipolate.

Che l’ontologia fotografica sia una hauntologia, utilizzando un lemma di Derrida ormai invalso e già in odore di logoramento (Spettri di Marx, Cortina 1994), è quasi scontato. Già Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia doveva ammettere che, grazie alle sue proprietà tecniche (rallentamenti, ingrandimenti, disconnessioni, sovrapposizioni), il nuovo medium rivelava quello che il critico stesso chiamava «inconscio ottico», al pari di quello pulsionale ‘scoperto’ dalla psicanalisi freudiana. Come scrive Massimo Filippi in una bella recensione all’ultimo libro di Georges Didi-Huberman, «le immagini non solo sono infestate e si infestano tra loro, ma che, sorta di virus simbiontici, possono sopravvivere e farci ri/vivere solo contagiandoci, smontandoci e rimontandoci nel momento stesso in cui, assunta la posizione giusta, le smontiamo e le rimontiamo»[3].

In questo strano sabba compositivo dove le parole si vedono accadere, mentre un personaggio vero e finto al tempo stesso legge e noi lo vediamo leggere (ma leggiamo anche quello che Atch vede), sapere adesso che una modalità di narrazione avrebbe potuto essere – e rimane come traccia fossile, residuo di carbonio – il futuro, garantisce un rapporto di «com-mozione» (ancora Filippi) con le immagini. Le immagini della spedizione Scott, che ci guardano, entrano in sintonia – e quindi lì vanno studiate, indagate, seppur rabdomanticamente – con un’ipotesi, poi scartata, del libro, con una sua energia potenziale che, come l’Esausto per Beckett/Deleuze/Agamben non esaurisce le sue potenzialità nell’atto, ma si esaurisce nell’atto con le possibilità ancora inespresse. Come scrive Tuena: «è il viaggio privato delle aspettative; il viaggio dei disillusi; il viaggio dei reduci. […] Spogliati di ogni possibile ricompensa, sulla via del ritorno, i cinque si sono persi, in tempi e luoghi diversi, a volte seguendo una determinazione autodistruttiva, altre semplicemente assecondando l’esito naturale degli eventi».

Dobbiamo ragionare per scomponimenti e diffrazioni (ancora termini che provengono dal vocabolario di Didi-Huberman): vedere qualcosa che solo il dialogo incessante tra interrogazione memoriale e sua restituzione visiva può darci: il mistero del referente. Mi pare che tutto Ultimo parallelo – e tutto il lavoro di Tuena – si ponga su questa linea. Lo scrittore romano, infatti, lavora sempre con documenti “reali”: per lui il referente è imprescindibile. Del resto, ogni fotografia ha sempre un referente in sé: quello che s’impressiona sulla lastra è certo un’entità spettrale, ma è anche la certificazione di quello che il Barthes della Camera chiara chiama un «è stato».

Herbert Ponting, La spedizione di Scott

In questa dichiarazione in versi, «cominciò a ragionare / su quelle che semplificando potrebbe considerare / come categorie di scrittori definendone almeno due: / quella di chi racconta quello che conosce / e quella di chi racconta come conosce le cose / che conosce», si potrebbe ben leggere non soltanto un percorso epistemologico, ma anche “come si trattengono le cose che si apprendono”; in altre parole, come si forma la “memoria”. Le immagini, allora, sarebbero veri e propri supporti esterni d’ausilio per la memoria e la Storia. Soltanto che le immagini non sono mai neutre: fin dalle manipolazioni che nel 1921 operò il fotografo Herbert Ponting, che aveva seguito la spedizione per un breve tratto», nel volume The Great White South (si veda il cut di alcune figure, tra le quali della dello “sciamano” Gran, il dialogatore onirico con gli spettri; a Tuena si deve pure, nel 2011, l’edizione del bellissimo libro fotografico Scott in Antartide che riporta molti degli scatti di Ponting) è evidente che lo scomponimento, l’ingrandimento, il taglio, la fenditura, il montaggio/smontaggio sono elementi propri e sempre utilizzabili delle immagini; non solo: ora queste immagini-riprodotte vivono anche nell’ulteriore scomposizione prismatica del tempo editoriale, delle variabili, delle intenzioni, delle possibilità e degli scarti. Ma del resto non è sempre questa quella che Cortellessa chiama «insubordinazione» degli icono-testi? In questi oggetti letterari e culturali la presenza dell’immagine – cioè vorrei dire, del referente – è sempre straniante: sempre questa presenza, anziché aiutare la memoria a coagulare intorno a nuclei affidabili, lascia insorgere il dubbio, una crisi di presenza.

Le opposte forze temporali che operano in Ultimo parallelo sembrano trovare un punto di azzeramento, di a-cronia, proprio al parallelo del titolo: «l’asse di rotazione della Terra è leggermente obliqua e oscilla determinando la non coincidenza tra l’asse di rotazione e il punto del parallelo 90, che rimane a sua volta iscritto al centro in quella astratta circonferenza diventando paradossalmente inesistente. Tuttavia la possibilità, anche solo teorica, che vi sia un punto della Terra non sottoposto alla rotazione e che questo punto coincida con il polo rimane come eventualità sospesa. Se un punto di un solido non si muove, se ne potrebbe dedurre che l’intero solido è immobile e forse almeno per un istante, in quel luogo, coloro che lo hanno raggiunto hanno visto la Terra smettere di girare e rimanere immobile». Verso questo punto immobile, di situazione verbo-ottica ‘pura’, Ultimo parallelo tende.

Filippo Tuena
Ultimo parallelo
il Saggiatore, 2021, 432 pp., € 21


[1] «Edward “Atch” Atkinson. Chirurgo di marina e uomo di riserva e di seconda linea, l’unico col quale credo di aver parlato o l’unico che crede di aver parlato con me, proprio vicino ai cadaveri degli amici, e che non penso sarà capace di liberarsi di quell’immagine che ha tenuto con sé nell’intimo dei suoi ricordi: la ricognizione autoptica che eseguì all’interno della tenda, nella penombra e in perfetta solitudine. Avrebbe voluto raggiungere il polo ma ne ha appreso la natura soltanto dalla lettura dei diari e tuttavia credo abbia avuto perfetta coscienza del silenzio di quel luogo».

[2] G. Carrara, Fotografia e straniamento: i romanzi storici di Filippo Tuena, in «Lea»,9 (2020), pp. 139-149.

[3] Il libro recensito è: Georges Didi-Huberman, Popoli in lacrime, popoli in armi. L’occhio della storia, vol. 6, a cura di R. Boccali, Milano-Udine, Mimesis, 2020.

Filippo Polenchi

è nato e cresciuto a Firenze. Lavora, ha famiglia, legge, scrive. Descrive, osserva. Suoi articoli sono apparsi su “Alfabeta2”, “L’indice dei libri del mese”, "Le parole e le cose", “La balena bianca”. Suoi racconti sono apparsi su “Nazione indiana”, “Collettiva”.

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