Round and round. In margine a “Teoria delle rotonde” di Italo Testa

«Appunti per un saggio sull’Italia contemporanea»: questo l’attacco, di sapore pasoliniano, del nuovo libro di Italo Testa, Teoria delle rotonde. Paesaggi e prose, edito dai tipi di Valigie Rosse (2020). Arricchita da dodici fotografie d’autore rielaborate da Riccardo Bargellini e da una penetrante nota critica di Paolo Maccari, la silloge rappresenta una delle tappe più convincenti di un ormai consolidato percorso creativo – l’esordio risale al 2004, con Gli aspri inganni – e conferma la volontà del poeta e saggista piacentino di fare della scrittura uno strumento di esplorazione e insieme un esercizio di ripensamento della realtà contemporanea. Da tempo Testa affida alla pagina una lingua-pensiero viandante, tra antropologia ed estetica, decisa a sondare non tanto le forme del territorio quanto le strutture percettive e le dinamiche (dis)aggregative dei gruppi sociali che quel territorio abitano e attraversano. Si è accennato a Pasolini, ma è soprattutto al Celati e al Ghirri delle “pianure” che viene fatto di pensare, magari incrociati con la scuola di Documents, con certo situazionismo, ovvero curvati verso l’indagine documentaria filosoficamente e politicamente orientata, e un occhio sempre rivolto alla nostra migliore tradizione di pensiero poetante, da Leopardi a Zanzotto.

Diviso in sette sezioni, il volume raccoglie testi di varia provenienza elaborati tra il 2007 e il 2019, diversi per natura e movimenti stilistici ma nell’insieme perfettamente compatti, saldi, paratattici, tutti ruotanti attorno all’idea di luogo come precipitato psichico dei costumi e delle forme di vita riscontrabili nell’odierna società urbana. Le prime due partizioni, dai suggestivi titoli di Il paese guasto e Teoria delle rotonde, sono consacrate a tre specifici elementi del paesaggio contemporaneo: cancelli, spiagge e rotonde. Dettagli, in apparenza, ma fortemente sintomatici: ci torneremo. La sezione successiva, intitolata Google Heart, riunisce tre piccoli esperimenti di psicologia dello spazio: Geografia temporanea (l’altrove che è nei nostri stessi luoghi: la vita biologica marina tra fisiologia delle meduse e atroce destino dei migranti), Terra gemella (détournement situazionista e schizo-stratigrafia di una Marsiglia cosmico-erotica) e Giro del mondo, riscrittura multilinguisticamente straniata di un proprio testo del passato (Non ero io, prelevato dall’omonima sezione di Tutto accade ovunque, silloge del 2016). Mentre la quarta sezione, Vicolo corto, la più svagata, è una sorta di diario minimo, carnet di un girovagare sur place da memorialista psicogeografo alla (ri)scoperta dei paesaggi emozionali d’infanzia, i capitoletti Detour e Non luogo a procedere presentano considerazioni di poetica applicata, per così dire, alla dimensione topologica. Si potrebbe dire che qui Testa si interroga, letteralmente, sull’aver luogo della poesia, offrendo pagine di notevole densità speculativa.

L’ambiente prodotto dagli insediamenti umani – questa, crediamo, la tesi di fondo di Teoria delle rotonde – risponde in apparenza a una razionalizzazione degli spazi condivisi, in realtà a una serie di determinazioni psico-ideologiche fondate su un immaginario polimorfo e sovreccitato, psicotico e latamente infantilizzato: donde i puntuali richiami a note marche di giocattoli, tra mattoncini assemblabili e sorridenti miniature antropomorfe, oltre a un celebre gioco da tavolo (che riecheggia nel citato Vicolo corto). Cancelli, spiagge vacanziere e rotonde non sono, riflette Testa, semplici ammennicoli urbanistici, bensì specchio della natura “guasta” di un Paese – ma, si potrebbe dire, dell’intero, ubiquo Occidente – che si affida a dispositivi di disciplinamento psicofisico la cui destinazione funzionale risponde a due modelli essenziali: il recinto (spazio delimitato) e il moto perpetuo (temporalità illimitata). Si agisce sul paesaggio per agire sulla componente umana, con un doppio fine: da un lato per irreggimentarla, dall’altro, per evacuarla. I cancelli rispondono al primo scopo: “Perché la recinzione è necessaria, a questa latitudine, dà una sensazione di ordine. / Poche staccionate, troppo basse, effimere. / Rare le palizzate. / Perché la cancellata forgiata dà una sensazione di sicurezza. / Differenze salienti nell’uso della cancellata nel paesaggio italiano, francese, tedesco, inglese. / Nuovi territori per la comparatistica?”. Come nel caso delle pareti trasparenti, lo spazio recintato risponde a una duplice ingiunzione di invito e divieto, transitività dello sguardo e intransitività dei corpi: “Le cancellate lasciano vedere l’interno, separano facendo apparire l’interno come privato”. Considerazioni non troppo dissimili l’autore fa a proposito dei luoghi di balneazione. La linea costiera è come vista dall’alto, da un ipotetico drone (o occhio di bambino chino sul suo mondo in scala) che ne mostri il disegno disarticolato, franto in una sequenza di microconfini: “oppure considera le spiagge // la distesa uniforme di cabine, // il litorale segmentato // dietro le assi colorate // inchiodate sul paesaggio: // da dove iniziare un saggio // sullo spazio pubblico in Italia, // sullo spazio privato, // sui confini visibili e invisibili?”.

Un imperativo uguale e contrario a quello del recinto presiede al moto perpetuo incoraggiato dalle rotonde, peculiari “figurazioni • degli anni zero”, il cui moltiplicarsi nel nuovo millennio risponde al principio, sacro alla mistica capitalistica, del flusso ininterrotto, del rifiuto della stasi, della vettorialità obbligata. Principio peraltro già affrontato dall’autore con l’invenzione degli inesorabili automi, portatori di un oscuro progetto di movimento, protagonisti della plaquette iconotestuale I camminatori (2013, versi poi confluiti in Tutto accade ovunque). Se il tema “viario” non è nuovo in Testa (codice stradale era il titolo di una lirica de L’indifferenza naturale, 2018), qui è la figura della rotatoria, questa la rilevante intuizione del libro, ad agire da reagente sensibile, rivelatore di un fatto altrimenti destinato a restare impercepito: il frammentarsi della strada in un’ininterrotta sequenza, in una “teoria” – ossia infilata: il lemma è evidentemente ancipite – di zone di transizione indistinguibili, elementi modulari inospitali, indisposti a lasciarsi attraversare linearmente, pianificati per azzerare punti di riferimento e prospettive durevoli.

Come dire: l’estinzione dei semafori, segnacoli luminescenti sparsi da mano previdente a regolare il transito nelle placide pianure dell’Europa moderna, è la conseguenza di un meccanismo di evoluzione genetica del vivere collettivo infastidito da ogni forma di ostacolo, basato su logiche rigidamente competitive e sopraffattorie: “declino della ripartizione • dell’equità • dei diritti di precedenza • tramonto • della regolamentazione impassibile • dei semafori • della distribuzione • del tempo”. Il semaforo era egualitario, socialdemocratico; figlia del darwinismo sociale postumano è la rotonda. Qualcosa di simile accade, a ben vedere, con la progressiva estinzione delle panchine, un portato del mondo antico divenuto oggi inutile e dannoso, se questi improduttivi luoghi di sosta impaludano i corpi nelle piazze, nei parchi, nelle stazioni: ipotesi intollerabile per una società tutta muscoli pronti allo scatto, tesi nello sforzo di ammazzare i tempi morti. I pedoni, i ciclisti, gli anziani e ogni altro impacciato tardigrado non sono che oltraggi alla fantasmagoria della produzione e del consumo, allo “scintillio ininterrotto • dei flussi”, soggetti destinati a soccombere nella competizione della prova su strada.  

In conclusione, due rilievi sullo stile e sulla natura iconotestuale del volume. Il piglio sperimentale delle pagine di Testa, costruite come una sequenza di appunti, saggi (ma ellittici, privi di snodi argomentativi), esperimenti con il vissuto e con il percepito, esclude quasi del tutto la forma versale – ancora molto presente nella precedente, e più tradizionale, L’indifferenza naturale – presentando invece un’originale varietà di tipologie testuali, tra continui scarti grafici e spiazzanti variazioni nella misura e nella natura dei caratteri. Come opportunamente evidenziato da Maccari nella sua nota critica, e in continuità con i precedenti lavori di Testa, la pagina è ritmicamente sollecitata tramite una costruzione iterativa, con effetto straniante della ripetizione, sorta di effetto loop che cortocircuita e destruttura ogni automatismo percettivo, intellettivo, linguistico. La sintassi segmentata in moduli spaziali oltre che sonori fa pensare a un libro-spartito da eseguire vocalmente; in particolare sono da segnalare i grandi punti sospesi (•) che costellano la sezione eponima riprendendo la tecnica del neuma,notazione musicale incaricata di cadenzare – ma sarebbe forse più corretto dire: mozzare – il respiro disarticolando la pronuncia in una teoria di singhiozzi, di scat (forse sulla scorta della lezione di Gabriele Frasca).

Quanto al dialogo con l’immagine, Testa non è nuovo a tale interazione, che lavora, si potrebbe dire, sulla psicologizzazione disvelante del dato visivo. Nella plaquette I camminatori, parimenti edita da Valigie rosse, le sei fotografie di Riccardo Bargellini erano volte in negativo, con inversione di chiaroscuro dei paesaggi. Il significativo rovesciamento di luci e ombre comportava la restituzione di un mondo notturno e disumanizzato, nel senso anche proprio dell’assenza di esseri umani. In Teoria delle rotonde le foto sono dell’autore e Bargellini interviene per rielaborarle, con effetto opposto ma risultato analogo. “Schiacciati” su un bianco e nero da fotocopia, bidimensionale e quasi grafico, i paesaggi urbani, senza figure, della sezione Italia[n] Aila[n]ti – una pagina bianca soltanto a comporla: vuoto d’un pieno che il lettore dovrà ricercare altrove – sono restituiti alla nuda evidenza della loro tangibile, ma irreale, estraneità al mondo degli uomini. Vengono in mente certi esperimenti del cinema e della fotografia d’avanguardia volutamente lo fi, dove a contare è la natura prettamente simbolica di realtà apparentemente più banali e prive di significato. L’ailanto, chiamato anche albero del paradiso, è una pianta infestante: Testa allude qui forse alla precarietà del paradiso chiamato Occidente, al suo tarlo che affiora da sotto i sorrisi eternamente stampati delle donnine e degli omini di plastica tanto cari alla nostra infanzia.

In copertina: Luigi Ghirri, Reggio Emilia, 1973 ©Eredi Luigi Ghirri

insegna all’Università di Salerno; si occupa di letteratura euro-statunitense tra Sette e Novecento, con particolare attenzione ai rapporti tra arte della parola e arti della visione. Tra i suoi lavori più recenti “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci 2020). Nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il Premio Giuseppe Borgia per i suoi contributi sulla poesia.

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