Nel marzo del 1970 Mario Schifano, all’epoca trentacinquenne, vola in America accompagnato da Nancy Ruspoli e Antonio Altoviti, per una serie di sopralluoghi da effettuare in previsione di un film intitolato Human Lab, il cui trattamento è stato scritto insieme a Tonino Guerra e alla stessa Nancy Ruspoli, che però non verrà mai girato. Il tour dura circa due settimane e prevede diverse tappe, tra cui il Pentagono a Washington, la sede centrale della Bank of America, Los Alamos, Cape Kennedy, San Francisco, Houston.
Le numerose foto che Schifano scatta durante quei giorni vengono poi esposte, insieme ad alcune immagini del Diario di viaggio di Nancy Ruspoli, nel 1978 presso il Salone delle Scuderie del Palazzo della Pilotta a Parma, all’interno dell’esposizione denominata Mario Schifano fotografo, che segue la mostra personale Mario Schifano, organizzata sempre a Parma nel 1974 da Arturo Carlo Quintavalle.
Una selezione di quelle fotografie è stata pubblicata nel recente volume America 1970, edito da Humboldt books nel 2019, che comprende anche testi di Francesca Zanella, Giorgio Vasta e alcuni brani e immagini di Nancy Ruspoli, disposti nelle pagine conclusive del libro.
L’America che Schifano raggiunge, attraversa e imprime su pellicola fotografica ha spedito con grande successo nei mesi precedenti i primi uomini sulla Luna ed è ormai pronta al definitivo balzo tecnologico in avanti. Si presta dunque come ambientazione privilegiata per un ipotetico film in cui il protagonista dà vita, per mezzo di un’invenzione tecnologica progettata per riprodurre qualsiasi oggetto, ad un perfetto clone della moglie, un robot di carne chiamato Eva che si trasformerà presto in assassino.
Indipendentemente e a prescindere dalle intenzioni reali che stanno alla base del viaggio, le fotografie di Schifano ci restituiscono, secondo un’alternanza dicotomica e proteiforme, paesaggi ed interni che sembrano davvero parte di un setting cinematografico già montato e stabilizzato, messinscene fabbricate appositamente, poste alla mercé dell’obiettivo. Nelle distese immense e desertiche, abitate da atmosfere sospese e allucinate, crescono stabili ed edifici che appaiono posticci, effimeri, transeunti, artifici che si installano sulla natura come escrescenze di cemento e angoli retti. Visioni dall’alto che rivelano territori macchiettati, polverosi e quasi indistinguibili, dove la terra è sempre dello stesso colore. Architetture geometriche che si stagliano su di un cielo piatto, colte di sguincio, con fare che sembra affrettato, impulsivo, secondo prospettive oblique, tagliate, dinamiche. Scenografie aliene, incise rapsodicamente dalla presenza dell’umano, che le abita e le percorre garantendo loro una misura, un senso della proporzione, un’ombra intelligibile.
L’occhio fotografico di Schifano sembra instaurare un rapporto mesmerico con i vuoti e le asprezze del reale che si manifesta intorno a lui. Nel paesaggio lunare e sassoso, invaso da sterpaglie, recinti e strani cartelli, trova piena immanenza la vocazione trascendentale che si nutre per lo spazio al di là del mondo, per l’universo più lontano, assoluta alterità mai davvero conoscibile, e per il futuro al di là di oggi, tempo incipiente della nuova tékhne, che tutto sottende e trasmuta. Schifano disancora, manomette l’analogia col circostante fenomenico per ispessirne le sfumature e le aporie, per raddoppiarne gli enigmi visivi. Inscrizioni, moduli, reattori, attrezzature, volumi contrastanti, simulatori di volo, ogni oggetto rappresentato pare approntato a un nuovo realismo, al contempo materico e fantasmagorico.
Refrattario ad una narrazione lineare e prosastica – quella che oggi viene definita con un termine eccessivamente abusato “storytelling” – Schifano compie un atto di rifigurazione, assimilabile per certi versi a una testimonianza infedele, che si nutre di una puntuale operazione di decontestualizzazione e smottamento. Indugiando sul particolare perdiamo il resto, la cornice. Negli spazi chiusi osserviamo invece costanti variazioni di angoli, rilievi, interruzioni, linee. Tute abbandonate, pezzi di missili, razzi issati sulle rampe di lancio, funzionari e turisti che si fondono e si mescolano, statuine e gloriosi manufatti del recente passato, strutture aeree, impianti filiformi. Un ragazzino è seduto in un mini-scompartimento, delimitato ai due lati da pannelli chiari e ha delle grosse cuffie sulle orecchie, forse gioca con l’apparecchiatura che ha dirimpetto. Schifano lo immortala mentre si gira di scatto, curioso o chissà infastidito da quell’uomo alle sue spalle, e immortalando il giovane immortala il riflesso di sé stesso che imbraccia la macchina fotografica, emanato dallo specchio posto centralmente di fronte alla sua figura. Il ragazzino osserva Schifano che lo sta fotografando e quindi, per intermediazione osmotica, in virtù dell’eterno presente dell’attimo fotografico, guarda noi che lo stiamo osservando ora, punctum che trafigge la bidimensionalità del dispositivo e irradia segnali per un dialogo da istituire oltre i propri limiti costitutivi, oltre gli estremi confini del supporto rettangolare, uno scambio di istantaneità infinito che prosegue da decenni ed è destinato a perdurare ancora.
Due uomini – probabilmente le guide americane dei due viaggiatori – e Nancy, raffigurati dalle spalle in su, sostano davanti a una teca vuota su cui capeggia una scritta in caratteri spessi e squadrati che recita “PINOCCHIO”, nome del tutto insolito in cui imbattersi nei locali ariosi dello Space Center della NASA. Dentro la teca, sulla superficie rettangolare del perimetro di vetro che la sormonta noi vediamo i volti e i corpi sfuggenti di presenze assenti, di impressioni vicarie, un nugolo di persone interessate anch’esse alla teca, posizionate non innanzi a Schifano ma dietro di lui, dietro la macchina fotografica, eppure al centro della foto in virtù dell’effetto doppiamente riflettente del vetro e dell’azione fotografica, come fossero state catapultate all’interno della teca, imprigionate sotto la scritta “PINOCCHIO”, resurrezione paradossale dell’impossibile. Due bambini vengono fotografati alle spalle mentre si attardano a scrutare l’interno di una capsula spaziale, la prospettiva è totalmente appiattita, sembra che i bambini e la capsula siano sullo stesso piano, sovrapposti. Un uomo tagliato a metà, nell’estremità sinistra della foto, sta forse spiegando loro il funzionamento della navicella. Non vediamo i loro volti, non li conosceremo mai. Presenze umane inconsapevoli, che non sanno di essere state catturate di schiena e di essere state consegnate al nostro sguardo, che indugia qui con un certo effetto di sorpresa e complicità.
Stampate su carta baritata e ai sali d’argento, le foto di Schifano acquistano un tono chiaroscurato tenue e vaporoso, da figurina cangiante e translucida che brilla in controluce, in cui le nuance di nero, argento e grigio-metallo dialettizzano senza sosta con bianchi lattiginosi e sulfurei, entro uno spartito di accostamenti vertiginosi, profondità celesti, grattacieli persi nelle nubi, panoramiche dall’alto, reticolati, casupole fatiscenti, rade chiazze boschive. Anche all’interno di questi luoghi frementi di calcoli e previsioni, in cui si pianificano le sorti del domani, gli oggetti sembrano investiti da un’aura defatigante e immaginifica, come fossero complessi fittizi, cartonati deliberatamente montati e fissati al terreno.
Nessun’enfasi di ritrarre o descrivere, nessuna glorificazione visuale dell’epos statunitense, piuttosto un gusto tutto personale per il gioco, la combinazione e la messa in forma di geometrie e superfici, assonanze speculari, residui di sguardi e corpi, pose disimposte e fantasmatiche, frutto evidente di una naturale predisposizione artistico-pittorica, che estetizza e agglutina con naturalezza i volumi, gli oggetti, i contrasti, i visi che gli appaiono di volta in volta davanti. Sono fotografie non conative, non assertive, non apparecchiate, ma anzi studiatamente istintuali, caratterizzate da uno sviluppo interno e intimo, dalla progressione stratificata verticalmente del supremo immoto, della piatta evidenza, capaci perciò di spazializzare il tempo, il tempo del futuro, il tempo del divenire, il tempo dell’altro. Immagini che conversano tra loro, scambiandosi rimandi e allusioni, instaurando un dialogo sotterraneo e ritmato.
Concretizzando visivamente il mito – il doppio mito dell’America sulla Luna e dell’America lunare –, rendendolo plastico e astraendolo in forme geometriche, ricomposte poi nell’occhio dentro l’obiettivo, Schifano lo destruttura, lo rende leggibile e suscettibile di uno sguardo nuovo, non conforme e multilaterale, allo stesso tempo razionale e però artisticamente suggestionato, soggettivamente trasfigurato. Dismessa la mediazione testimoniale-documentaristica, Schifano ci fornisce una visione alterata, spuria e anti-egemonica, in cui il carattere e l’esprit autoriale che si rivelano al fondo del gesto fotografico condizionano le coordinate e le costanti, indirizzano le traiettorie e i significanti, innescando un processo laboratoriale e però perfettamente compiuto di derealizzazione del reale. D’altronde derealizzare il reale vuol dire rinunciare alla tentazione di feticizzarlo.
Mario Schifano
America 1970
Humboldt Books, 2019
80 pp., 18 €
Immagine di copertina: ©Mario Schifano, Fondo Mario Schifano, sezione fotografia dello CSAC dell’Università di Parma