La modernità polacca nasce da un insostenibile senso personale di perdita e vuoto: ma non è, non è solo, la costante disperazione patriottica di chi è costretto ad abitare in un paese che non esiste, in quella «Pologne – c’est‑à‑dire nulle part», di cui scriveva Alfred Jarry non molti anni prima, ma ha la tangibilità, anch’essa romantica, di due amori tragici. Il suicidio della fidanzata di Stanisław Ignacy Witkiewicz detto Witkacy (1885-1939), il «co-fondatore dell’arte polacca moderna», come lo definisce Ewa Skolimowska, e l’amore struggente e impossibile del futuro antropologo di fama mondiale Bronisław Malinowski (1884-1942) per «la ragazza con la veletta», sono uno dei motivi che spingono i due amici a una celebre spedizione del 1914 ai Tristi Tropici: «l’ultima speranza di un radicale ribaltamento», aveva scritto Witkiewicz all’amico. Il viaggio, che si svolge «in un’atmosfera ossessiva di morte e di vuoto, splendore e terrore, bellezza e degrado» porta al modernismo polacco due contributi fondamentali: «l’incertezza identitaria e l’alterità multiculturale». Così esordisce il saggio introduttivo di Andrzej Turowski, L’inizio del viaggio esotico.
Sebbene in forme diverse e almeno all’apparenza meno “esotiche” di questa apertura, lo “sfondamento” sul resto del mondo rimane una delle caratteristiche di quanto descritto nei sette saggi di studiosi polacchi di fama raccolti in questo volume, a cui si aggiungono le importanti prefazione e postfazione di Anna Jagiełło e di Stefano Chiodi, e la cronologia di Ewa Skolimowska. Rimane anche una costante, in tutto il periodo trattato, la speranza in quel «radicale ribaltamento», che neanche la rinascita dello Stato polacco nel 1918 aveva saputo realizzare.
Bizzarro che proprio quegli anni, che oggi ci appaiono magari gloriosi, straordinariamente densi di scambi internazionali e di idee, venissero così definiti, a soli tre anni dalla rinascita della nuova Polonia, dal pittore e critico (e campione di scherma) Konrad Winkler: «E da noi l’arretratezza, l’apatia, la noia, una strana spossatezza di anime e cuori, e, inoltre, il mondo tenuto lontano, cento volte peggio di prima della guerra». Lo cita Piotr Rypson nel suo saggio sul «papa dell’avanguardia» Tadeusz Peiper; poco oltre, leggiamo il brano di una lettera dello stesso Peiper al poeta cileno Vicente Huidobro. Scritte anche queste nel 1921, sono parole che sembrano presagire il ben concreto «silenzio» che agli intellettuali dell’Europa orientale sarebbe toccato in eredità dopo la Seconda guerra mondiale: «Gli effetti della guerra […] hanno ridotto alla fame gli intellettuali dei paesi dell’Europa Orientale. [….] Siamo stati allontanati dall’Occidente da una costrizione fra le più desolanti, la costrizione del silenzio». Eppure, questo silenzio allora risuonava di voci: quelle della lezione di cui parla Stefano Chiodi alla conclusione del volume, ovvero «la necessità di un rapporto vivo e immediato tra individui e tradizioni culturali, una dimensione pluralistica, fluida e aperta al futuro, che ci appare oggi tanto più preziosa quanto più essa è messa in discussione».

Singolare come, restando sullo sfondo, alcuni elementi si ripetano attraverso le differenti vicende narrate. Le sorti tragiche e bizzarre dei suoi protagonisti: Stanisław Ignacy Witkiewicz, pittore, saggista, romanziere, autore di opere teatrali fra le più moderne e sconnesse, il grande «pazzo disperato» della cultura polacca (questa la definizione di Witold Gombrowicz, che per parte sua si dava del «pazzo ribelle»: ben nota in Italia perché citata nell’incipit di una celebre introduzione di Angelo Maria Ripellino alle Botteghe color cannella del «pazzo sommerso» Bruno Schulz, altro grande protagonista della cultura polacca ed europea), suicida nel settembre del 1939, all’ingresso delle truppe sovietiche in Polonia, a 53 anni.

A Katarzyna Kobro (1898-1951) è dedicato il saggio di Karolina Kurc-Maj. La moglie di Władysław Strzemiński è oggi considerata fra i più grandi artisti di quel periodo così fertile di opere e idee; morì in totale miseria e solitudine a 52 anni dopo un tragico, violento divorzio dal più celebre marito: la maggior parte delle sue opere distrutte nelle vicende di guerre e insurrezioni, le ultime sculture lignee bruciate da lei stessa per accendere il fuoco su cui poter cucinare per la figlia Nika. Mieczysław Szczuka, da alcuni ritenuto l’“inventore” dell’arte del fotomontaggio (ne parla nel suo saggio Karolina Ziembińska-Lewandowska), morì durante una scalata sui monti Tatra nel 1927, a 29 anni (ed è bizzarro che esattamente trent’anni dopo, nello stesso luogo e alla stessa età, morirà Andrzej Wróblewski, probabilmente il più importante pittore del dopoguerra polacco). La compagna di Szczuka, la pittrice, scenografa, scultrice e architetta ebrea-polacca Teresa żarnower, morì suicida a New York nel 1949, a 52 anni. E infine morirà di tubercolosi a 58 anni il già menzionato Władysław Strzemiński (1893-1952): è il protagonista dell’ultimo film di Andrzej Wajda, Il ritratto negato, del 2018, che ne fa un eroe della resistenza intellettuale al comunismo. Nel film lo si vede nei primi anni del dopoguerra, circondato e venerato dagli studenti della scuola d’arte di Łódź; ma dopo l’introduzione del socialismo reale in Polonia, alla fine del 1949, vedrà le proprie opere distrutte e vandalizzate, condannato alla solitudine e alla miseria.

È Strzemiński il maggiore interprete e ideatore dell’avanguardia polacca (non è un caso che, come nota Anna Jagiełło, il suo nome ricorra in ciascuno dei saggi): il fondatore del Museo di arte contemporanea di Łódź, uno dei primi al mondo (aperto al pubblico nel 1931, è l’unico in Europa tuttora esistente, fra quelli sorti prima della Seconda guerra mondiale) nella Grande guerra aveva perduto la gamba destra, il braccio sinistro e la vista dall’occhio sinistro. Era dunque un povero storpio, che nella vicina Germania sarebbe stato liquidato al più presto in quanto «vita indegna di essere vissuta», senza neppure passare dalla condizione di «artista degenerato». Vedendolo saltellare con grazia su enormi stampellone di legno, nel film di Wajda (dove ha il viso bello e lievemente ambiguo di Bogusław Linda), si potrebbe certo pensare a una vittoria dello spirito sulla materia. Ma Strzemiński era uno strenuo oppositore di qualsiasi spiritualismo e psicologismo, un avversario accanito dell’«atteggiamento metafisico» di Malevič o Kandinskij (ne scrive Andrzej Turowski nel saggio sull’unismo), con cui pure aveva, negli anni trascorsi in Russia e in Unione Sovietica, più volte collaborato: «Mentre tutte le riflessioni di Malevič si concentravano intorno alla fine, all’ultima istanza e allo Zero filosofico, la teoria dell’arte di Strzemiński si rifaceva all’unus organico come superficie uniforme e finita del quadro».

Neanche la sua innovativa teoria della visione, a cui è dedicato il saggio di Luiza Nader, aveva aspetti metafisici: essa si basava sull’interconnessione fra elementi fisici e fisiologici e la capacità del vedere. Preannunciando alcune scoperte delle neuroscienze attuali, nella Teoria del vedere, pubblicato postumo nel 1958, Strzemiński affermava che «la vista umana si sviluppa in due ritmi, indipendenti uno dall’altro: quello biologico e quello storico-sociale-civile». La sua, scrive Nader, era «un’intuizione fenomenale, del tutto appropriata alle attuali conoscenze neurologiche, secondo cui oltre all’occhio esistono specifiche aree del cervello responsabili di complessi processi visivi». Quella di cui parla Strzemiński è una visione consapevole, un imperativo etico; secondo Nader, la sua teoria precorre per più aspetti l’odierna e fondamentale categoria della testimonianza.

Una carenza, in questo volume, degna di menzione? È a dir il vero indicata da Jagiełło nella sua prefazione: l’assenza della avanguardia, o meglio delle avanguardie, ebraiche. Forse il volume avrebbe dovuto intitolarsi Avanguardia polacco-cattolica? No, perché Kobro era ortodossa. Avanguardia dei polacchi-etnici? Nuovamente no: Kobro era (anche) russa. O forse… ma la questione (scherzosa) non conosce forse risoluzione. Qui un’immagine tratta dalla rivista «Yung yidish» è inserita a titolo di simbolico risarcimento, e anzitutto di altrettanto simbolico impulso a render note anche in Italia le vicende di almeno tre gruppi (Kultur-lige, Yung yidish, Khaliastre) che, in pieno partecipi al dibattito delle avanguardie, vi hanno apportato un radicalismo estremo, un concreto cosmopolitismo, l’appassionata e quanto attuale discussione sulla, in apparenza insanabile, aporia fra il legame alla tradizione e l’apertura universalistica.

A parte le forse inevitabili assenze, importante è in questo volume anche quello che ne tracima e necessariamente ne resta fuori – e questo forse a dispetto delle teorie di Strzemiński, che voleva che i suoi quadri non indicassero altro che la superficie della tela, delimitata dalla cornice. Ne resta fuori il lascito odierno di un’esperienza e di un pensiero spesso estremi, che hanno modificato in profondità il nostro modo di intendere e di vedere l’arte. Come il legame, ormai imprescindibile, fra l’arte e le scoperte scientifiche. O come, ad esempio, la necessaria compartecipazione dello spettatore, che dell’opera artistica è in qualche modo co-creatore: un elemento diventato ormai luogo comune. O, per restare anzitutto nell’area dell’Europa Centro-Orientale, quello che Piotr Piotrowski ha definito, in un libro del 2010, la agorafilia dell’arte dei paesi ex comunisti: e risona ancora forte oggi l’eco della teoria e della pratica di uomini e donne convinti che l’arte avrebbe concretamente cambiato il mondo nella sua struttura e nei suoi rapporti sociali. O l’idea che il museo, piuttosto che una «tomba di famiglia», possa costituire un elemento vitale e imprescindibile nel cambiamento sociale e nella formazione della cultura visiva (del Museo di Łódź scrive Jarosław Suchan): fra gli altri, della capacità dei musei di essere parte integrante della struttura sociale e agente di dibattito pubblico e cambiamento ha parlato di recente Artur Żmijewski (1966).

Il nome di questo artista, fra i molti eredi dell’avanguardia, è fin troppo semplice da additare in questo contesto. Pur affermando più volte negli ultimi anni la mancanza di «efficacia» delle opere artistiche, alla ricerca di tale «efficacia» direttamente sociale e politica, Żmijewski, considerato il maggior esponente dell’«arte critica» polacca, ha dedicato le sue azioni di teorico dell’arte e di autore di innumerevoli installazioni video e fotografiche. Su un altro piano, forse proprio in molte sue opere e fra le più celebri, riconosciamo un’eco dell’avventura spesso grandiosa e spesso tragica dell’avanguardia polacca. Żmijewski più volte riproduce immagini di uomini e donne menomati – dalla malattia, dal caso, dalla guerra – dai cui corpi, anche bizzarramente belli, riverberano la sofferenza e la dignità. Un’assonanza forse casuale e non voluta, o un omaggio implicito al maestro dell’avanguardia? Corpi offesi e indomiti, come quello del geniale e tormentato Władysław Strzemiński.
Avanguardia polacca. Arte e cultura in Polonia tra il 1914 e il 1952
a cura di Anna Jagiello, traduzione di Marina Fabbri
Quodlibet 2020, pp. 186, € 22
In copertina: Stanisław Ignacy Witkiewicz (Witkacy), Ritratto multiplo allo specchio, 1915-1917