Non mi è chiaro quale sia il fantasma, i miei genitori e il loro “da dietro” o il disastro climatico. Comunque una questione di ecologia e, così come la fine, il revenant non può tardare. Tutto è prossimo.
Una cosa del tutto diversa da me e te. Il fantasma, non queste immagini. Eppure entrambe sono questione di ripetizione, “uno spettro è sempre un revenant. È impossibile controllarne gli andirivieni, perché comincia col
rinvenire” [1]. Un rinvenimento che si è imposto senza passare dal lutto nella sua dimensione più facile e filmica, ma attirato piuttosto dalla costante distruzione dell’inorganico, ciò che non smette di esigere ora il ritorno. Senza eroismi di sorta.
Lo so quale aspetto hanno i miei genitori, vedo i loro volti quotidianamente, ho visto i loro fantasmi scivolare lungo le loro attese (abito tra di loro, nonostante richiedano una diversa latitudine, un diverso metodo d’avvicinamento, un avvicinamento che non trasformi nuovamente il tempo in una serra), non mi è difficile immaginare come vent’anni fa le rughe e i rifiuti si distribuissero diversamente.
Non occorre alcuna identificazione per tramite di queste immagini, non costituiscono un’indagine, è questione di prendere parte, prima che sia troppo tardi. Fear of God.
Le spinte materiali di tali oggetti intersecano affetti ed affezioni, sono incarnazioni di desiderio congelate per la posterità, o per ciò che precedeva – non ci è chiaro quali relazioni gli oggetti intrattengano tra di loro, né secondo quali temporalità si strutturi il loro desiderio, segue? precede? contemporaneo? è in ritardo? – e abrasioni di un corpo spettrale. I negativi non contano come rappresentazioni, ma come accumulo di forze, inscrizioni (la cui spettralità è diversa da quella dell’inchiostro o del sangue) sul corpo sociale.
Benjamin reputava che delle forze di liberazione fossero inerenti alle cose: “nel feticismo delle merci, pulsioni materiali intersecano intensità specifiche e desiderio. Benjamin fantastica un innesco di queste forze compresse, immagina di risvegliare l’assonnato soggetto collettivo, infestato di sogni, dal sonno della produzione capitalistica e di attingere a questa riserva di forze. Pensa inoltre che le cose possano parlare tra loro tramite queste stesse forze. L’idea che Benjamin ha della partecipazione – secondo un’interpretazione sovversiva del primitivismo di inizio secolo – prevede che sia possibile immergersi in questa sinfonia della materia.”[2]
Avevo dunque bisogno di un oggetto che, opportunamente interrogato, mi rivelasse quali desideri fossero in gioco, certamente secondo un linguaggio suo proprio. Il negativo è stato “tradotto”, e con esso le forze in esso compresse, in un’immagine che racchiude/schiude una rete di rapporti sociali, fobie, ossessioni a me più facilmente accessibili, finalmente leggibili, poiché cristallizzatesi mentre io stesso partecipavo alla vita dei computer, il mio in particolare, oggetto tra gli oggetti.
“Nel montaggio si incontra il destino”, ha detto Godard, e questo montaggio è stato demandato ad un oggetto tra gli altri. Ma dare in pasto le immagini a Google images, e produrre immagini molto diverse da quelle che probabilmente (ma che cosa significa questo “probabilmente”? che non c’era e non c’è segreto? che, segreto o no, lo si è già scordato?) ci si aspetterebbe, è un modo per divorare e obliterare l’archivio ancora prima di averlo prodotto? Si tratta di pulsione di morte?
Il suo è un lavoro silenzioso, non le è permesso alzare la testa e ribattere, anche se non è mai a rischio di perdere il posto. Non si può rimpiazzare ciò che non si può localizzare; a meno che non ci si affidi a chi non ha bisogno di occhi e mani. La pulsione di morte non è però uno spettro. È più e meno reale di questo, le pareti lungo le quali questi scorrono – ancora: la differenza fra il fruscio e la traccia che viene lasciata.
Ha in mente la distruzione dell’archivio, per questo non può distogliere lo sguardo. Deve far finta di non guardare pur tenendo gli occhi fissi davanti a sé, cancellare le proprie tracce, compresa questa stessa cancellazione. Divorare il suo archivio prima di averlo esteriorizzato. Non si edifica nello spirito e l’esteriorità è condizione necessaria all’archivio, che necessita di un luogo di consegna, di un fuori dove la ripetizione possa aver luogo. Senza che questo distragga troppo, bisogna consegnare alla memoria, poterlo riprodurre in seguito, ma la logica della ripetizione – vi è una compulsione di ripetizione – è indissociabile dalla pulsione di morte. Ciò che permette la distribuzione di una o più memorie in un archivio è esattamente ciò che lo espone alla distruzione, al suo Giudizio.
Non si vive più nello stesso modo ciò che non si archivia più nello stesso modo. Lo si è lasciato morire con quest’operazione? Lasciando che fosse la macchina, che fosse un altro archivio a decidere di questo secondo/terzo/quinto archivio? Se l’archivio è costituito da ciò che lo minaccia, qual è il destino di questo archivio doppiamente minacciato, minacciato al secondo grado? Fear of God.
L’ecologia ha a che fare col rinvenire, e, meno banalmente di quanto si possa pensare, col rinverdire. Un’eredità non si raccoglie mai, non fa tutt’uno: “La sua presunta unità, se ce n’è, non può consistere che nell’ingiunzione di riaffermare scegliendo. Bisogna vuol dire: bisogna filtrare, passare al setaccio, criticare, bisogna discernere tra più possibili i quali abitano la stessa ingiunzione”.[3] Lo stesso abitare rischia di non essere più possibile. Non si raccoglie un pianeta da terra, se ne rende possibile il segreto, l’impossibile possibile che lo costituisce.
Nell’urgenza sollecitata dall’imminente catastrofe ambientale, il Mac ha sviluppato (letteralmente, seppur non in camera oscura) questi negativi, secondo modalità di significazione che non hanno molto da spartire con l’Antropocene. La fine è vicina e ho bisogno di sapere quali desideri mi hanno generato, di sapere a quali oggetti devo una lettera al padre. Fear of God (naked).
[1] Jacques Derrida, Spettri di Marx, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994, p.19.
[2] Hito Steyerl, The Wretched of the Screen, Sternberg Press, 2012, p.55.
[3] Jacques Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 18.