Da una grande vetrata in Davies Street a Londra, illuminata di bianco, si possono vedere esposti piatti e ciotole su un tavolo. È una delle gallerie di Gagosian. In basso a destra leggiamo: «Edmund de Waal. Some Winter Pots». Purtroppo visibili solo dalla strada sono opere che andrebbero sfiorate, toccate per sentirne i punti di pressione delle dita, la sottigliezza dei bordi, il peso. Le ciotole e i barattoli non sono fatti solo per essere visti, «questi sono alcuni vasi per le mani – dice de Waal –, per questo inverno».
Per la prima volta dopo sedici anni, de Waal torna a creare opere singole. In una rara, quanto densa, semplicità, commenta: «Ho fatto questi vasi in isolamento durante la primavera e l’inizio dell’estate. Ero solo nel mio studio, in silenzio, e avevo bisogno di creare vasi da toccare e tenere, da trasmettere. Avevo bisogno di tornare a quello che so: la ciotola, il piatto aperto, il barattolo con coperchio». Un commento che rivela un portamento solido, uno spirito che fermo ha davanti a sé ciò che conta, quel che le sue mani e i suoi occhi sanno. Parole che fanno eco all’evidenza di queste ciotole: de Waal pratica la ceramica da tutta la vita. Ma qualcosa d’altro trapela, un’impurità formale che tradisce una contaminazione che non è solo maturazione nel tempo, ma un modello che è giunto fin qui dai tempi del suo soggiorno giovanile presso lo studio ceramico Mejiro, in Giappone. Edmund de Waal, nipote dell’ebraismo austriaco (Elisabeth von Ephrussi) e figlio dell’anglicanesimo (Victor de Waal), muove un passo verso quel luogo dove Oriente e Occidente si incontrano: l’arte ceramica diventa il crocevia tra luoghi lontani, e tempi lontani.

La sua ciotola indossa un abito vetusto. È raffinata ma innegabilmente sobria, una figura modellata con una sapienza tale da convincerci di essere una vecchia eredità, o forse una di quelle ciotole che di tanto in tanto la terra, come latrice incaricata dai nostri avi che abitarono queste – o quelle – terre al tempo del Ferro o anche della Pietra, sputa fuori. Una di quelle presenze che ci segnalano chiaramente che da allora nulla di essenziale è cambiato, che possiamo ancora riconoscerci nei nostri antenati e anche che i nostri nipoti lo potranno. Guardandola, potremmo dire che, mentre tutto il mondo umano indossa un vestito e poi un altro ancora, mentre sostituisce fronzoli e orpelli, mentre imperi e governi si ergono e crollano, la ciotola rimane immutabile come una vecchia pietra al centro della città.
Sono molti i fautori d’arte che si sono misurati con la forma di una ciotola, anche nei tempi più recenti. Edmund de Waal è uno di quelli che lo ha fatto con una sapienza coltivata non solo negli anni, ma anche nel confronto con l’arte cinese e giapponese. Lui, come mostra di essere nel libro La strada bianca, è un viaggiatore alla ricerca del «bianco perfetto», cercato e indagato da Venezia a Versailles, da Dublino a Dresda e agli imperatori cinesi; un’ossessione per il bianco unico della porcellana. E se adesso, in una delle più grandi e rinomate gallerie d’arte contemporanea, vengono esposte opere vascolari senza alcuna pretesa concettuale o ideologica, senza alcun desiderio di mostrarsi sotto il vessillo di “arte contemporanea”, ma curate per quel che sono – ceramiche –, questo è segno non solo che l’arte si profila in più larghi orizzonti, ma anche e soprattutto che la fisionomia della ciotola è ancora forte, tanto da offrirsi come bacino profetico: tutto il tempo e lo spazio del mondo tenuti in mano, portati alla bocca per bere. La ciotola trattiene denso il mistero delle nostre mani e del nostro portamento – un atteggiamento formale, elegante, di una semplicità estrema.

Edmund de Waal: Some Winter Pots
Gagosian Gallery, Davies Street, London
3 dicembre 2020 – 30 gennaio 2021
La mostra è visibile dalle vetrine della galleria dalle 8.00 alle 20.00
In copertina: Edmund de Waal, Winter pot (A4), 2020, ©Edmund de Waal, ph. Alzbeta Jaresova