Il nuovo Ferdydurke: Gombrowicz in fortissimo

Quando il personaggio di Józio, trentenne vagheggino e inconsistente, è tornato a fare capolino tra le pagine della nuova edizione italiana di Ferdydurke orbata dei disegni dal tratto morbido, d’un color grigio topo, con i quali Bruno Schulz aveva illustrato nel 1938 il primo romanzo di Gombrowicz, a imporsi quale «modello di realtà» interno al nostro personale immaginario è sopraggiunto il Gymnasiast immortalato da August Sander.

Almeno in parte, forse, la suggestione risponde all’auspicio espresso dallo stesso Sander quando aveva cominciato a dare mano a Menschen des 20. Jahrhunderts (Schirmer/Mosel Verlag 2021), con lo scopo – come scrisse in Wesen und Werden der Photographie (1931) – di «cogliere la fisionomia di tutta una generazione e darle un’espressione fotografica». Nei suoi scatti ogni individuo avrebbe dovuto rappresentare il carattere di un’intera epoca, esprimendone i sentimenti fino al punto da influenzare la nostra immagine di essa nei modi di un paradigma assoluto, evidente e nondimeno improbabile. Nell’aria di quella fotografia di ginnasiale, dalle labbra volitive, lo sguardo sfacciato, la posa affettata, si avverte il senso di una ostentata provocazione, che tuttavia non riesce a dissimulare totalmente l’apparizione di una giovinezza eterna almeno quanto la delusione che la compenetra.

August Sander, Gymnasiast, 1926

Una giovinezza sottratta al tempo e alle metamorfosi della vita per quanto durano un pezzo di carta e qualche traccia fissata di luce: emblema di una generazione nata all’inizio del XX secolo, in bilico fra una «rivolta contro l’utile e il pratico» come i Ribelli raccontati da Márai nell’omonimo romanzo del 1930, e una pigra accettazione della vita borghese e delle sue rassicuranti, ancorché ambigue consuetudini, già vividamente descritta, nel 1903, da Johan Bojer in La potenza della menzogna (Treves 1907). D’altra parte, anche un grande aruspice del negativo come Walter Benjamin, mentre si interrogava come fosse possibile coniugare rivolta e rivoluzione in modo che questa fosse «una prassi oscillante fra l’allenamento e i preparativi di una festa», non sembrò mai cessare di rivolgersi – rilevò Tito Perlini – alla dolce e materna infanzia protetta da una calda signorilità borghese.

Bruno Schulz per Ferdydurke, 1938

La progressione verso l’infanzia potrebbe annoverarsi fra le diatesi più significative che più o meno sotterraneamente sembrano informare la psicologia collettiva d’inizio Novecento e che sarebbe andata sempre più connotandosi – secondo la diagnosi offerta negli anni Sessanta da Adorno nel saggio  Sexualtabus und Rechte heute (in Eingriffe, Suhrkamp 1963, ma ora pure ascoltabile qui) – verso una «inconsapevole omosessualizzazione della società», quale esito di un’infantilizzazione dell’Io posta in opera dal capitalismo avanzato, ma cominciata sotto i regimi totalitari sorti nella prima metà del secolo scorso. Questi infatti avrebbero voluto – secondo quanto ha testimoniato anche Milan Kundera nel breve racconto Gli angeli (nel Libro del riso e dell’oblio, Adelphi 1991) – tanti sudditi bambini, succubi dell’esigenza di avere un padre-capo. Ed è proprio questa regressione forzata al centro del romanzo di Gombrowicz, almeno nelle sue intenzioni più esplicite.

Józio – ribattezzato Giuso nella smagliante traduzione di Irene Salvadori, impreziosita dalla collaborazione di Michele Mari, che a Gombrowicz aveva già dedicato pagine importanti nei Demoni e la pasta sfoglia (il Saggiatore 2017) e che qui dà nuova prova del suo funambolismo lessicale – si trova nel bel mezzo di una sorta di coazione pedagogica che inesorabilmente lo rimpicciolisce e squalifica (l’«adolescenza da laboratorio» di cui parla Mari nella sua prefazione, alla quale il personaggio è costretto dalla «trincea di feticci» dietro i quali «gli adulti si rendono irraggiungibili»). Benché all’inizio riluttante a lasciarsi subornare dalle lusinghe d’un tutore, «il diabolico e machiavellico Pimko» che vuole blandirlo con la retorica dell’innocenza, tipico espediente del paternalismo totalitario, egli ben presto scopre quanto possa essere comoda una condizione di minorità, soprattutto se a essa conduce l’inatteso invaghimento per una «liceale moderna» e per il suo mondo lepido e disimpegnato.

In tal senso, come Gombrowicz appunta nel suo Diario (Feltrinelli 2004), Ferdydurke «rappresenta la lotta per la propria maturità condotta da una persona innamorata della propria immaturità», in ragione di una «degradazione per opera della forma», ossia di quei processi legali e regolari che ci plasmano nel nostro contatto con gli altri e che tendono ad ottundere la coscienza attraverso un ammaestramento che le impedisce di accedere a quelle energie emozionali che costituiscono la nostra vitalità: Giuso, scrive Mari, è «trentenne mancato, ragazzo mancato, scrittore mancato: ma in quanto trascrittore del proprio incubo, avendo ammesso fino in fondo le spinte dal basso, scrittore immenso».

Witold Gombrowicz

Quel «mondo di fogne e di scoli» – osservò Bruno Schulz recensendo Ferdydurke – è la «sostanza generatrice» su cui cresce ogni valore e ogni cultura: «mentre sotto l’involucro delle forme ufficiali e mature rendiamo onore ai valori alti e sublimati, la nostra vita effettiva si svolge illegalmente e senza alte ramificazioni in questa sporca sfera natia» (ora nell’edizione Einaudi, a cura di Cataluccio, delle Botteghe color cannella). Il colpo di genio di Gombrowicz sarebbe allora stato quello – notava ancora Schulz – di scoperchiare questa esistenza sotterranea e non ufficiale, infrangendo le barriere della serietà e portando così alla luce, attraverso una pratica genealogica, «il pietoso mondezzaio della cultura», colmo di ideologie a buon mercato con le quali trastullarsi nel lungo intermezzo, prorogabile ab libitum, dell’immaturità, in quanto forma incerta e indefinita, e proprio per questo vitalissima, sempre ancora irrisolta rispetto al compiersi di una ripeness stabile e conclusa.

Come ricorda Gombrowicz in Una giovinezza in Polonia (Feltrinelli 1998), era questo il «lavoro rischioso» che Ferdydurke voleva portare a compimento, valendosi di una scrittura capace di fluire in frammenti discontinui, appartenenti a sistemi diversi. «Una singolare mistura di romanzo e saggio filosofico», aveva definito il romanzo Angelo Maria Ripellino introducendone la prima edizione italiana (uscita da Einaudi nel 1961); ma non può escludersi – chiosa ora Francesco Cataluccio – che vi sia, soprattutto negli intermezzi, l’intenzione di parodiare la stessa argomentazione filosofica. Possibile è pure che Gombrowicz volesse rovesciare il modello rappresentato da Infanzia, scritto – aveva osservato Ejchenbaum e ripetuto Šklovskij – come se Tolstoj non avesse raggiunto la maggiore età, e dunque non si vedesse bambino ma fosse quel bambino: un bambino che vede la verità e la menzogna, «anche se la sua visione è un po’ da adulto». In Ferdydurke, al contrario, vi è una riduzione dello sguardo adulto a quello infantile, onde dare espressione alla convinzione, condivisa dal coevo romanzo di Paul Nizan, La cospirazione (Baldini & Castoldi 1997), che la giovinezza sia un’età votata all’errore – forse non necessariamente indotto dalla menzogna e dall’ipocrisia della società.

Certamente vi è una decisa presa di distanza da qualsiasi smorzata sfumatura luminescente possa scaturire dal richiamo d’un souvenir d’enfance. Limpido e preciso esercizio di ragione svolto secondo lo stile proprio della tragicommedia, Ferdydurke vuole – secondo lo stesso Gombrowicz – mostrare che «l’uomo non riesce ad esprimersi non solo perché gli altri lo deformano, ma soprattutto perché solo le sue parti strutturate e mature possono venire espresse, mentre il resto è silenzio». Il che impedisce anche solo di considerare la possibilità che quel grumo di sen­sazioni e di inclinazioni che gemmano da un ricordo d’infanzia – come ha mostrato Tadeusz Kantor in un testo solo di recente pubblicato (sul «Sole 24 Ore» del 6 dicembre 2020) – possa rappresentare, in virtù della sua capacità di «oltrepassare la soglia del visibile, questa condizione tirannica e assoluta, questo “cavo” spacciato come unico in grado di garantire il “vedere”», un ritrovato anti-sistema ben più efficace di qualsiasi prestidigitazione grottesca, soprattutto se figlia di un esistenzialismo asfittico, perché troppo confidente nella possibilità di organizzare in termini razionali il volto di un mondo senza volto.

Witold Gombrowicz col cane Psina, la moglie Rita e la Citroën, Vence 1965

In Gombrowicz la dimensione del grottesco è mezzo estensivo della scoperta dell’assurdità del reale, nella quale qualcosa della realtà effettiva passa nella forma stessa. Ciò fa sì che ci trovi di fronte a un «grottesco conoscitivo» (per usare una formula che Rosanna Giaquinta ha impiegato per descrivere l’affine poetica di Daniil Charms) che funge da principio, abissale ma ristretto, di tipizzazione. Come dice Mari «la satira, da sola, non è di per un valore letterario»: «che Gombrowicz avesse dei conti da regolare con la sua Polonia ci interessa artisticamente poco o nulla. Quello che ci interessa e rapisce è l’estro, un associazionismo analogico da far sbiadire il più audace dei surrealisti», e poi «su tutto, naturalmente, la lingua, un a lingua cangiante che si fa e si disfa in continuazione». Se è vero – come Gombrowicz riconosce – che in Ferdydurke «risuonano, eseguiti in fortissimo, quasi tutti i temi fondamentali dell’esistenzialismo: il divenire, la creazione di sé, la libertà, la paura, l’assurdità, il nulla» (sono parole del Diario citate da Cataluccio nella postfazione), allora esso non può che condividere anche l’idea, pure cara all’esistenzialismo, che chi parla o scrive può cogliere i rapporti di significato unicamente entro un complesso da lui stesso organizzato e stabilito: un circolo chiuso, nel quale il linguaggio rinvia al pensiero e il pensiero al linguaggio.

La proiezione di questa concezione sulle pagine del romanzo determina che la stessa dipendenza dell’individuo dal gruppo sociale in cui è inserito debba ricomprendersi entro un contesto che non riesce a rendersi indipendente da una prospettiva che ritiene ogni individuo una monade dalla quale l’altro riceve ogni volta significato e creazione, senza affatto considerare tutto quell’insieme di determinazioni intemporali, qualitative, virtuali, trascendenti che si intersecano per reciprocità. Ma la neotenia che contraddistingue le pagine di Ferdydurke determina pure che, all’opposto di quanto avvenga nella Classe morta, non vi sia alcuno sviluppo, alcuna necrosi. L’esistenza immobile e condensata alla quale Józio si lascia sempre più supinamente addestrare non approda mai alla morte. Come a giusta ragione ha sostenuto Luigi Grazioli (sul settimo numero di «Riga», a Gombrowicz dedicato nel 1994), qui come in altri luoghi della sua opera Gombrowicz cerca al più di inserire la morte in una forma, e renderla così più innocua.  Ma ciò non si deve soltanto al fatto che per la loro struttura definitiva tutte le narrazioni sono in fondo prove generali ed insieme esorcismo della morte, quanto piuttosto al fatto ch’egli, anche là dove esibisce i panni del disincantato distruttore e del sardonico ironista, «è soltanto» – ammoniva Czesław Miłosz nella Terra di Ulro (Adelphi 2000) – «uno di quei letterati che da decine d’anni cercano di farsi venire i geloni alle orecchie per dispiacere alla propria madre, benché questa resti indifferente alle loro smorfie».

Witold Gombrowicz
Ferdydurke
traduzione di Irene Salvadori e Michele Mari, prefazione di Michele Mari, a cura e con postfazione di Francesco M. Cataluccio
il Saggiatore, 2020, pp. 336, € 22

In copertina: Witold Gombrowicz a Malosyce nel 1909

(Milano 1981) insegna filosofia della comunicazione e del linguaggio presso l’Università Pegaso di Napoli; ha svolto e svolge attività didattica e seminariale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e l’Università di Pavia. Studioso di filosofia moderna e contemporanea, è autore di numerosi saggi e studi monografici fra i quali: “L’oblio del linguaggio” (Guerini 2007); “Alla ricerca della fenomenologia perduta. Husserl e Proust a confronto” (Mimesis 2009); “Brice Parain-Impromptu” (ESI 2010); “Giuseppe e i suoi fratelli: dalla filosofia narrante alla rivelazione” (Editoriale Scientifica 2012); “Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin” (Quodlibet 2015) “Monoteismo plurale. Teologia ed ecclesiologia in Schelling” (Il Pozzo di Giacobbe 2019). Ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Baumgardt, Hegel, Maimon. Di prossima pubblicazione, presso Quodlibet, è “Filosofia dell’ombra. Tre saggi”. Giornalista pubblicista, collabora con diversi periodici.

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