Dopo Todtnauberg. Celan e Heidegger, vicini su monti lontanissimi

20/01/2021

Curiosamente, il primo termine di paragone in cui si imbatte la conferenza radiofonica Tempo e essere (1962, poi pubblicata, insieme ad altri saggi, nel volume Zur Sache des Denkens,1969), uno degli scritti decisivi dell’intera opera di Heidegger, sono due opere di Paul Klee: l’acquerello Heilige aus einem Fenster [Santa, da una finestra] e la tempera su iuta Tod und Feuer [Morte e fuoco]. Dichiara Heidegger: «Se adesso ci fossero mostrati gli originali di questi due dipinti di Paul Klee nell’anno della sua morte, potremmo anche soffermarci a lungo davanti a essi, ma abbandoneremmo ogni pretesa di comprenderli immediatamente».

Lo stesso vale per la poesia Siebengesange des Todes [Settemplice canto della morte] di Trakl: «Potremmo anche ascoltarla più volte, ma abbandoneremmo ogni pretesa di comprenderla immediatamente». Conclude Heidegger non senza – inusuale – ironia: «Ciò non accade nei confronti del pensiero chiamato filosofia, giacché esso dovrebbe offrire una “saggezza pratica”, se non addirittura un “avviamento alla vita beata”. Ma il pensiero chiamato filosofia potrebbe trovarsi oggi in una situazione tale da esigere meditazioni che sono molto lontane da una saggezza che si possa utilizzare nella vita. Potrebbe essersi reso necessario un pensiero che mediti su ciò a partire da cui sono determinate addirittura la pittura, la poesia e la teoria fisico-matematica» (poco prima, Heidegger aveva nominato anche Werner Heisenberg). Va notato come uno degli scritti che più hanno segnato il pensiero del XX secolo, Tempo e essere (ed. ital. Longanesi2007, pp. 3-4), prenda le mosse dalla necessità di fornire una risposta diversa rispetto alla stessa «svolta» (Kehre), un’interrogazione riguardo al suo stesso cammino: guardando a Essere e tempo (1927) si tratta di pensare la «medesima cosa», rovesciandola. «Tempo e essere» doveva intitolarsi anche la parte annunciata e poi mai pubblicata di Essere e tempo.

Paul Klee, Heilige, aus einem Fenster, 1940

Celan e Heidegger, com’è noto, si incontrarono nel ’67, prima a Friburgo per una lettura tenuta dal poeta in quella Università, l’indomani nella Hütte di Heidegger a Todtnauberg (che si può ragionevolmente tradurre «montagna della morte»). Tale incontro (Laura Darsié nel saggio Il grido e il silenzio, Mimesis 2013, ha parlato addirittura di «in-contro», riprendendo i trattini tanto heideggeriani che celaniani) è stato variamente interpretato, cogliendo nei suoi molteplici riflessi uno snodo fondamentale della storia della poesia e del pensiero novecenteschi. E non ci sono solo interpretazioni letterarie o filosofiche, o letterario-filosofiche (e non sono poche quelle che si collocano in mezzo al guado), della mitopoiesi Celan/Heidegger. Eppure, di fronte alla grande mole di riflessioni, in molti casi cruciali, crediamo che il significato del silenzio di Todtnauberg vada ricondotto a uno spostamento dell’orizzonte d’attesa. Ci si aspetta qualcosa che non sarebbe mai potuto arrivare. V’è l’irriducibilità del linguaggio a colmare le reciproche aspettative, per quello che del rapporto fra la Sprache e il Poema (così come lo delinea Celan nel Meridiano, La verità della poesia, ed. ital. Einaudi 1993) dovrebbe essere pronunciato da entrambi i “duellanti”.

Paul Klee, Tod und Feuer, 1940

Celan e Heidegger sono accomunati senz’altro dall’etichetta di essere “oscuri”. «Ci diciamo cose oscure» è un verso di Corona (La sabbia delle urne, 2003, ed. ital. Einaudi 2016, p. 96), la prima poesia che Celan dedica a Ingeborg Bachmann. La sabbia delle urne riunisce tutte le poesie da cui si generò poi Papavero e memoria, la prima raccolta di Paul Celan. In questa prospettiva, il rimprovero di Primo Levi a Celan, dell’essere oscuro e nichilista, non centra il bersaglio. Ma l’oscurità è tutt’altro che pretestuosa, o “stilistica”. La complicità tra Bachmann e Celan si crea probabilmente, almeno all’inizio, anche attraverso la tesi di laurea della Bachmann, intitolata La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger (ed. ital. Guida, 1992). Tale testo costituiva una vera e propria demolizione della ontologia fondamentale di Martin Heidegger, impregnata dell’influsso del Circolo di Vienna. Tra Celan e Heidegger non si creò mai alcuna complicità. Non basta spiegare questo con l’iniziale adesione di Heidegger al nazionalsocialismo, o anche con alcune frasi ritenute antisemite dei Quaderni neri, perlomeno di dubbia interpretazione se slegate dal loro contesto.

In Luce d’addio. Dialoghi dell’amore ferito (Olschki 2016), Sergio Givone immagina addirittura di fare incontrare Heidegger e Celan in un ex campo di sterminio. Siamo al confine, in una contraddizione non risolvibile, in una «dialettica negativa». Sostiene, infatti, George Steiner: «Con tutta probabilità Celan scoprì l’opera di Heidegger in seguito al suo incontro con la Bachmann, che aveva scritto la sua tesi di laurea su Sein und Zeit. Gli archivi di Marbach rivelano la meticolosità, il livello di concentrazione delle letture fatte da Celan. Annota, sottolinea, chiosa passo dopo passo i libri più importanti di Heidegger. […] I neologismi heideggeriani, il modo in cui il filosofo salda insieme le parole in composti ibridi, la sua brusca paratassi, l’omissione di inerti connettori qualificativi, diventano funzionali al dettato ermetico di Celan» (La poesia del pensiero, ed. ital. Garzanti 2012, p. 251).

Attraversando il guado, troviamo in Tempo e essere più di una consonanza. Fra Celan e Heidegger non vi sono semplici analogie, non è nella “metaforica” che si intersecano, né tantomeno nella metonimia o sineddoche. La convergenza è realizzata negli armonici, in senso propriamente musicale. Gli armonici naturali sono multipli di una nota di base, detta fondamentale. È la vibrazione di una corda nella fisica acustica, che chiama a “consonare” le altre note, indifferentemente vicine e lontane. Basterà, fra moltissimi altri, confrontare questi passi: «Passato e futuro sono un mé ón ti: qualcosa che non è, certo non però qualcosa di assolutamente nullo, bensì qualcosa che è presente [Anwesendes] ma a cui manca qualcosa, e questa mancanza è indicata come ora-“non-più” e ora-“non-ancora”. Considerato in questi termini, il tempo appare come il succedersi l’uno all’altro degli “ora”, ognuno dei quali non appena è nominato già si dilegua nel “poco fa” ed è immediatamente seguito dal “subito dopo”» (Tempo e essere, cit., p. 15). Scrive Celan in una lettera a Nelly Sachs: «Tutte le domande non trovano risposta in questi giorni bui. Questo spettrale e muto non-ancora, questo ancor più spettrale, più muto, non-più e di-nuovo, e nel frattempo l’imprevedibile, già domani, già oggi» (Celan-Sachs, Corrispondenza, ed. ital. Giuntina 2017). Heidegger e Celan, in questi passi, sembrano disperare della medesima idea di temporalità. Celan e Nelly Sachs si scriveranno di non avere una patria e di essere stati, l’uno per l’altra, come la terra che non avevano: un analogo destino di sopravvissuti. Celan scrive nel Meridiano di voler scoprire «il luogo in cui la persona, nell’atto di afferrare l’io come estraneo a sé, si liberi».

In Figure poetiche e teatrali del nichilismo da Beckett a Celan (in «Davar», III, 2006, pp. 9-10) Givone, prendendo in esame due poesie, Die Niemand Rose (La rosa di nessuno) e una poesia scritta a Zurigo dedicata a Nelly Sachs, riflette sul concetto di alterità insito in questi testi: «Un tu che non si sa bene se sia veramente tale, ovvero se sia un personaggio che mi sta di fronte, con cui ho veramente un dialogo, o se non sia questo ma tu»; quindi afferma, discutendo il saggio di Gadamer su Celan Chi sono io, chi sei tu: «Gadamer […] ci mette sulla strada giusta. Egli […] sostiene che non pare affatto necessario sapere chi sia l’io e chi sia il tu. Infatti ciò di cui si parla accade a entrambi. […] Gadamer dice di lasciar stare i contenuti, l’identificazione con l’oggetto del contendere, perché la poesia dice altro, cioè che “qualcosa è avvenuto”». Così come la rosa di nessuno «fiorisce in un cielo vuoto, e tuttavia fiorisce».

Ma qui arriviamo diretti al Celan di Lévinas. Discutendo il Meridiano (in Nomi propri, ed. ital. Marietti 1984) il poema si situa proprio a questo livello pre-sintattico e pre-logico, ma anche pre-disvelante: «Linguaggio della prossimità per la prossimità, più antico di quello della verità dell’essere, che esso probabilmente reca con sé e sorregge, linguaggio primo fra tutti, risposta che precede la domanda, responsabilità per il prossimo, che rende possibile, grazie al suo per l’altro, tutta la meraviglia del donare» (p. 48). In Rosa di nessuno è contenuta Salmo, una delle poesie più belle mai scritte da Celan: «Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango, / nessuno insuffla la vita alla nostra polvere. / Nessuno. / Che tu sia lodato, Nessuno» (Poesie, ed. ital. Mondadori 1998, trad. di Giuseppe Bevilacqua).

La notissima poesia che Celan inviò a Heidegger è intitolata Todtnauberg (ed è pubblicata in Lichtzwang). Se Heidegger è difficile da capire, non poteva avere miglior lettore di Celan, e ciò vale anche in senso contrario. Il filosofo aveva una grande considerazione della poesia di Celan. Ma, occorre domandarsi, di che natura è «quella parola» che Celan chiede a Heidegger in Todtnauberg? Non era soltanto una sorta di ammissione di colpa. La «colpa» è la questione più complessa che segue alla capitolazione della Germania hitleriana. Karl Jaspers si pone il problema di quella che chiama «colpa metafisica», che «consiste nel venir meno a quell’assoluta solidarietà con l’uomo in quanto uomo. È una pretesa incancellabile, anche quando le esigenze ragionevoli della morale sono già cessate. […] Una volta che quel male ha avuto luogo e io mi sono trovato presente e sopravvivo, dove un altro viene ucciso, in me parla una voce che mi dice che la mia colpa è il fatto di essere ancora vivo» (La questione della colpa, ed. italiana Cortina 1996, p.73). Queste lezioni di Jaspers escono nel 1965, due anni prima dell’incontro fra Celan e Heidegger. Tale lucidità rispetto al passato è qualcosa che il grande amico Heidegger non ebbe mai, o non volle mai avere.

Se per Steiner (autore di una delle maggiori monografie su Heidegger) i rapporti fra letteratura e filosofia sono addirittura «incestuosi», per Heidegger pensiero e poesia abitano vicini su monti lontanissimi. Per Celan, d’altronde, ogni professione di vicinanza alberga nell’estrema lontananza, nell’impossibilità di ricongiungere l’origine in una patria, sia essa terra che koiné. L’apolide indica però implicitamente nella propria condizione un orizzonte ineludibile. Il Befremdes («straniamento») e l’Abweichend («deviazione») di Heidegger parlano la stessa lingua di Celan. Nessuno come Celan ha portato avanti la disarticolazione del linguaggio. Del resto, l’ascendenza della lontananza la esperiamo nelle «ecchimosi» del periodo romantico, anzi è proprio lì che nasce e si sviluppa. Reisebilder di Heine, trasposto in un ciclo di lieder di Schumann, così come la prima delle Kinderszenen op. 15, Di genti e paesi lontani. E come se nell’estremo allontanamento si realizzasse la possibilità della vicinanza.

Nella meditazione heideggeriana di quegli anni, v’è una sostanziale “deviazione” dal primato, più volte asserito, della temporalità, verso una nuova centralità dello spazio. Introducendo alle poche pagine de L’arte e lo spazio, scritto decisivo quanto poco conosciuto, scrive Vattimo: «Il discorso heideggeriano, in questo come in altri saggi tardi, è intessuto di metafore spaziali che, forse, non sono semplici metafore. Viste alla luce di questo scritto su L’arte e lo spazio esse diventano teoreticamente rilevanti» (ed. ital. il melangolo 2015, p. 11). Lo spazio viene riconosciuto come un Urphänomen, attraverso le parole di Heidegger: «Il fare-spazio è, pensato in ciò che gli è proprio, libera donazione di luoghi in cui i destini degli uomini che vi abitano si realizzano nella felicità del possesso di una patria o nella infelicità dell’esserne privi o nell’indifferenza rispetto all’una o all’altra di tali possibilità» (p. 25). Nel tardo Heidegger non è più il poeta a subire l’influsso del pensatore, ma è come se i ruoli si ribaltino, in un “contraccolpo”: le poche pagine de L’arte e lo spazio sono fortemente riconducibili a Celan. Talché vicinanza e lontananza non sono più metafora della condizione del Poema, non più ossimoro o paradosso, ma armonici dell’apertura dell’essere: «Fare-spazio conferisce la località (Ortschaft) che appresta, di volta in volta, un abitare. […] Fare-spazio è libera donazione di luoghi. Nel fare-spazio parla e si cela al tempo stesso un accadere» (p. 27). Ma Heidegger si avvicina ancora di più a Celan, quasi si sovrappone, quando afferma: «Rischiamo l’ascolto del linguaggio» (p. 25). Se per Celan la poesia non è alcun luogo concreto sulla mappa dell’immaginario e nella mente umana, se per l’appunto essa è un «meridiano», come una linea in uno spazio introvabile in una dimensione tecnico-fisica, tracciando questa linea a ciascuno è data la possibilità di segnare il proprio cammino verso orizzonti sempre più lontani da chi è assediato dal rumore e dalla fatuità.

È chiaro che il loro incontro non avrebbe mai potuto essere discorsivo. Ogni dialogo non avrebbe potuto accontentarsi neppure del silenzio, non restavano che crisalidi di linguaggio. Ognuno offrì all’incontro quel che possedeva, una «ricordanza», Erörterung (tradotto sovente con «indicazione del luogo»), così come Heidegger intende nel commento alla poesia Andenken di Hölderlin (il titolo può anche significare souvenir, ricordo di viaggio). Celan ricorda in una dimensione della parola che non può ritornare nel proprio ritorno, nel suo nóstos, come orrore incancellabile. Così è anche la dimensione del ritorno (Rückgangsdimension) in Heidegger, segnata dall’oblio dell’essere. Senza neanche il «luogo» che fino a Tempo e essere egli volle attribuirgli. L’essere di questo scritto estremo di Heidegger è un essere che non ha luogo. Altrimenti, ancora una volta e tragicamente, diventerebbe un sobbalzo dell’ente (ricadendo, giocoforza, nel contraccolpo hegeliano); e il tempo, parimenti, si troverebbe precipitato nella sua misurabilità.

Così, per altro verso, la necessità dell’incontro di Todtnauberg si rivela come un requiem, in senso specificamente musicale, in cui l’unico luogo è la lontananza e vicinanza di pensiero e poesia. Si celebra soltanto un linguaggio che per entrambi non può che essere una liturgia. Muto è stato quel dialogo così come, verosimilmente, sarebbe potuto essere un incontro impossibile fra Heidegger e Hölderlin. Nell’ultima casa che Celan abitò poco prima del suicidio, fra i pochissimi libri che portò con sé c’erano le poesie di Hölderlin.

Nella meditazione heideggeriana di quegli anni, v’è una sostanziale “deviazione” dal primato, più volte asserito, della temporalità verso una nuova centralità dello spazio. L’orizzonte della temporalità viene integrato con un ricorso a una teoresi della spazialità non più secondaria. E allora si capisce come lo scritto più atteso trentacinque anni dopo Essere e tempo, appunto Tempo e essere, apra sull’opera di Paul Klee in modo non accessorio o, semplicemente, esemplificativo. Così come, in modo ancora più dirimente, l’orizzonte evocato nell’Origine dell’opera d’arte su Un paio di scarpe di Van Gogh non si può ricondurre soltanto a una riflessione sull’estetica. La dimensione che Heidegger apre all’arte, che lui chiama «quadridimensionale», lo porta in una imbarazzante prossimità, non ancora abbastanza approfondita, nei confronti di Celan. Ma per quest’ultimo ciò non avrebbe mai potuto tradursi in alcuna indulgenza verso chi si era compromesso con il regime nazista.

Luca Archibugi

è nato a Roma, dove vive, nel 1957. Ha pubblicato “Capolavori della pigrizia” (Guanda 1979) e “Il dileguante” (Aragno 2011). È in corso di pubblicazione la sua intera opera teatrale (“Per filo e per segno”). Collabora a giornali e riviste e lavora dal 1984 per i programmi culturali della Rai.

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