Flavio Cuniberto, credere nei luoghi

I.

Potete mettere tutti i disclaimer che volete – e questo libro ne esibisce uno, chiarissimo, proprio nelle prime righe – ma se intitolate un libro Viaggio in Italia, è inevitabile che il lettore corra subito con la memoria ai cento, mille libri che esibiscono lo stesso titolo o comunque hanno lo stesso oggetto. Magari non necessariamente il confronto si istituirà con i classici del genere, da Montaigne a De Brosses a Goethe, troppo lontani nel tempo e che per certo hanno visto un’altra Italia, ma come evitare di chiedersi quale possa essere la cifra specifica di un Viaggio in Italia dopo quelli di Piovene, di Arbasino, di Ceronetti, e i libri di studiosi d’arte come Brandi o Zeri che non portano lo stesso titolo stereotipo ma sono a tutti gli effetti dei viaggi nel nostro paese? Intitolando il proprio Un viaggio in Italia, con l’indeterminativo, Ceronetti evocava subito la legge del genere, per cui il viaggio si va a inserire in una serie nutritissima di viaggi, e rende tanto più curioso il lettore di scoprire la peculiarità della nuova aggiunta.

Una strada facile, per differenziare i viaggi di oggi da quelli del passato è quella di mettere tutto l’itinerario in chiave di denuncia e di indignazione per gli scempi perpetrati sul paesaggio, inserendosi in un filone letterario che dall’Italia rovinata dagli Italiani di Leonardo Borgese ai Brandelli d’Italia di Antonio Cederna fino al Paese sfigurato di Vittorio Sgarbi è ormai un sottogenere nel genere. Da questo punto di vista forse Piovene è stato l’ultimo a vedere un’Italia ancora largamente fedele a un’immagine di equilibrio, di misura e di vivibilità, con paesaggi rimasti armonici e con le città e i borghi che mantenevano un equilibrio e una identità tanto nei centri storici quanto nelle periferie. Al punto che Piovene, che aveva viaggiato tra il 1953 e il 1956, poteva soffermarsi a descrivere le attività produttive, le fabbriche e le infrastrutture, come componenti del paesaggio e non come minacce alla sua integrità, quali sarebbero diventate, nella quasi totalità dei casi, di lì a pochi anni. La sua Italia è l’Italia della ricostruzione, animata da uno spirito positivo di laboriosità e di collaborazione. Venticinque anni dopo, L’Italia di Ceronetti è l’Italia dopo il diluvio, dopo la trasformazione radicale del paesaggio e delle periferie, dopo l’invasione delle seconde case, dell’edilizia abusiva, degli insediamenti industriali sparsi nel territorio, del turismo di massa. Tutto il suo Viaggio, e forse ancora di più il successivo Albergo Italia, sono sotto l’egida della perdita della bellezza, sono dominati dal brutto, e declinati quindi nei modi della insofferenza e del disagio.

Nel Viaggio di Cuniberto non dirò che i toni della denuncia e dell’indignazione, da un lato, dell’elegia e del rimpianto per l’Italia prima del miracolo economico, dall’altro, manchino del tutto. Sarebbe, del resto, difficile parlare oggi del paesaggio e delle città italiane senza toccare per nulla questa corda. E così ecco subito, quasi ad apertura di libro, la devastazione della riviera ligure di Ponente, “una delle grandi ferite dell’Italia postbellica”, e poi l’“impazzimento edilizio”, i “disboscamenti cementiferi”, il “penoso paesaggio di Sirolo”, nelle amate Marche. È il “grande strappo” di una civiltà secolare che si è “squagliata in pochi anni”, in cui “lo sfregio è sempre in agguato”. È il dramma di un paesaggio che “nasce dalle macerie di quello antico anziché svilupparlo”. Pure non sono queste note a dare il tono generale del libro e il carattere del viaggio compiuto da Cuniberto. Quel tono andrà dunque cercato altrove.

II.

In uno scritto di una decina di anni fa Giorgio Agamben, parlando di Venezia come città-spettro, abitare nella quale è come “sillabare una lingua morta”, sosteneva che l’unico rapporto autentico con la città lagunare consisteva nel “compitare e mandare a memoria le scarne parole e le pietre” (Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere tra spettri, 2011). Per Cuniberto l’Italia non è forse ancora ridotta a uno spettro, ma il rapporto che il viaggiatore intrattiene con lei assomiglia molto a quello che Agamben raccomandava per Venezia. Tutto il Viaggio è un annotare, un mandare a mente, un elencare luoghi, paesaggi, architetture, ma soprattutto tesori d’arte nei musei. In assenza di illustrazioni (avrebbero dovuto essere migliaia, e del resto oggi non servono più) il lettore corre continuamente alla rete per ritrovare le opere citate, e ha sempre la sorpresa di constatare che l’osservazione di Cuniberto, per quanto rapida, è netta e precisa, il rilievo critico è sapido ma anche affabile, niente affatto sussiegoso, si tratti del Bellini della Pala di San Giobbe, nella quale il santo dedicatario è colto in una ossimorica ma esattissima “florida vecchiezza”, o dell’odiato-amato (o forse solo sopportato) Perugino con la Maria Maddalena macrocefala e “le pose assurde da ballerino di varietà” di sant’Ercolano. La “raccolta di impressioni”, modestamente promessa in Prefazione, si rivela succosa e piena di sorprese.

Vertigine della lista, maledizione dell’elenco: è evidente che se il viaggiatore volesse entrare in ogni galleria o museo, fermarsi in ogni sala, non ne caverebbe le mani e soprattutto renderebbe indigeribile il resoconto del suo viaggio. Ma l’Italia di Cuniberto, fortunatamente, per quanto l’autore la voglia ‘stenografica’, non è e non può essere tutta l’Italia, ma un’Italia scorciata e seletta sulla base di luoghi innanzi tutto propri, o perché familiari per storia personale, o perché particolarmente diletti. Il Piemonte nativo, un poco Torino e Asti ma soprattutto Vercelli; qualcosa di Lombardia, Emilia e Romagna; inevitabilmente, Venezia. E, per il Nord, è tutto o quasi. Ancor meno al Sud: qui i musei, e quindi le opere, praticamente non ci sono: un poco di Sicilia (Erice su tutto), qualcosa degli interni straordinariamente vuoti della Sardegna; un poco di Puglia, soprattutto il Gargano. Il nerbo del libro, l’Italia più amata è, senza confronti, quella centrale. Ma non tanto quella delle grandi città, Roma o Firenze, quanto quella delle cittadine: Volterra, Pistoia, Cortona, Camerino, Tolentino, Foligno, Todi, Spello, Amelia. E poi Vetralla, Viterbo, Tuscania. E, già più grandi ma ancora in una misura che le fa percorrere agevolmente a piedi, Perugia, Siena, Orvieto. Il Centro, insomma, e quel centro del Centro che è l’Umbria. Il punto è che in questa scelta non agisce solo l’inclinazione personale, che pure l’autore mette avanti parlando di “qualcosa che assomiglia troppo a un innamoramento per pretendere la mediazione della ragione”. No, c’è qualcosa di più e di più importante, un partito preso formale: la convinzione che “L’Italia di mezzo possieda quella misura fantastica, quel canone della Forma che la candida a baricentro estetico (e metafisico) dello stesso spazio”.

III.

A questo partito preso formale concorrono a pieno titolo i paesaggi, e c’era da aspettarselo perché ai paesaggi dell’Italia centrale l’autore aveva dedicato, solo pochi anni fa, un libro impegnativo e singolare, Paesaggi del Regno,  nel quale già erano evocati (e illustrati, con utili fotografie per nulla estetizzanti) molti di quelli che compaiono anche qui, il paesaggio della conca spoletina e il paesaggio della campagna assisiate; l’Umbria dolce e serena e quella più aspra e montana di Gubbio e di Gualdo; il paesaggio della Val d’Orcia, ma non quello generico diventato un’icona turistica contemporanea, quello concreto che si scorge affacciandosi dal giardino all’italiana dietro al palazzo Piccolomini di Pienza, Cortona e Cetona, l’Amiata, l’alta valle del Tevere e il Montefeltro, ma anche la conca reatina, il Conero e i colli di Recanati. Sono spesso, anche se non sempre, i paesaggi francescani, legati alla memoria del santo, ma non nella chiave pittoresca e sentimentale di certi viaggiatori e viaggiatrici dell’inizio del secolo scorso, tutti presi da un cliché fatto di campagne serene, colli verdeggianti, angoli ‘poetici’. E ancor meno quelli di un Francesco ecologico ante-litteram, difensore della purezza delle acque e della salubrità dell’aria. Questi paesaggi conservano a parere di Cuniberto la memoria dell’origine edenica, sono il frutto secolarizzato del giardino che fu il Paradiso.

L’esperienza moderna del paesaggio è quindi un’esperienza di risulta, l’effetto di una perdita. Il paesaggio si costituisce a partire dall’oblio del suo sostrato paradisiaco, ma mostra ancora la presenza di una finalità non pianificata, un accordo non ricercato ma prodottosi spontaneamente, che rende così spesso il paesaggio italiano, quando non manomesso, un’opera “sinfonica”, nella quale “una qualche intelligenza sembra presiedere al gioco delle forme”. Il paesaggio non è di nessuno, sia nel senso che esso non è riconducibile a un autore, a un pianificatore (in questo già si dà a vedere la sua differenza dal giardino), sia nel senso che esso è inappropriabile, appartiene a tutti e non può essere considerato una proprietà di qualcuno come appunto lo può – e non conta nulla, in questa prospettiva, se la proprietà sia pubblica o privata – un parco o un giardino.

IV.

Ogni libro di viaggi è sempre anche un poco il depositario delle idiosincrasie dell’autore, delle sue piccole o grandi insofferenze, dei suoi fastidi e delle sue esaltazioni. Persino il Viaggio in Italia di Goethe non si sottrae a questa legge, con le lamentele dell’illustre viaggiatore per il freddo patito proprio nei posti caldi (si sa che al Nord hanno sempre scaldato gli interni più di noi) o per le locande poco confortevoli. Ma il tasso di soggettività e di irritabilità può molto variare, da un minimo (che sarà per esempio quello di Piovene, pochissimo incline a lasciare posto a qualcosa di personale) a un massimo in autori tutti self-centered come Ceronetti, i cui libri di viaggio sono lo specchio delle inclinazioni o diciamo pure manie dell’autore (in campo igienico come in campo alimentare). Cuniberto appartiene senza ombra di dubbio al primo tipo, e raramente si lascia andare a confessare disagi personali o indignazioni che non siano quelle oggettivamente giustificate per la devastazione, il degrado o la bruttezza. Qualche ammissione di stanchezza, una pagina tenera sul rapporto con la figlia, la confessione di un atto mancato che lo porta a sbagliare itinerario per evitare una conferenza importuna: ed è – quasi – tutto. Lo sforzo è invece concentrato a cogliere lo spirito dei luoghi, impresa nella quale Cuniberto riesce benissimo, capace com’è di caratterizzare in pochi tratti l’atmosfera cosmopolita di cittadine dell’Italia centrale che sono diventate il rifugio di Tedeschi ed Inglesi, quella ‘ombelicale’ di Perugia, o la compresenza di sudicio e sublime come cifra costante della Roma di oggi. Come Handke, scrittore al quale lo lega qualche somiglianza, Cuniberto potrebbe ripetere “io credo nei luoghi”, e nulla lo dimostra meglio di questo libro.

Ricerca di oggettività non significa che questo viaggio in Italia non abbia le sue polemiche ricorrenti, i suoi bersagli e, se vogliamo, anche le sue fissazioni. Ma sono tutti atteggiamenti ben sostenuti sul piano teorico, non mai abbassati alla ubbia personale, lo sforzo restando sempre quello di “isolare mentalmente” opere, paesaggi, immagini. I bersagli, appunto. Per esempio il narcisismo degli architetti che talvolta agiscono come se fossero i demiurghi del paesaggio e dei luoghi (ci sarà capitato di incontrarne qualcuno che proclama spavaldo: il paesaggio lo crea l’architetto), come accaduto ad Aosta nel Teatro romano o nella necropoli antica e paleocristiana. O la pervasività del concetto di ‘patrimonio’, il “Minotauro dei Beni culturali”, congiunta con una certa vocazione agli eccessi documentari di certa archeologia ‘stratigrafica’, pronta a mettere in questione, in nome del documento storico, la fruizione estetica (una polemica che può ricordare certe pagine di Cesare Brandi). Sul piano letterario, la stoccata contro d’Annunzio, letto giustamente come antesignano della cultura di massa dietro il paravento dell’élite estetizzante cui dovrebbe appartenere Sperelli nel Piacere (“la raffinata cultura di quelle pagine è già la cultura globalizzata, senza confini di tempo e di spazio, propria dell’era tardomoderna”).

La sensibilità più acuta però Cuniberto la riserva alla perdita del senso del sacro, alla fine della religiosità e ai suoi effetti sui paesaggi e sulle arti. I monasteri trasformati in Hotel de charme, con la saldatura tra la ricerca di benessere spirituale e benessere fisico negli ex-luoghi dello spirito. La derelizione della architettura religiosa contemporanea. L’effetto della nuova liturgia post-conciliare sulla spazialità interna delle chiese. Il sospetto di una omologazione ormai compiuta tra l’atteggiamento dei turisti italiani che visitano i templi Maya in Messico o le rovine dell’Acropoli in Grecia con lo stesso spirito col quale entrano in una chiesa o si soffermano su una pala d’altare, “pellegrini di un culto tutto moderno, il culto dell’arte e dell’antico, dove le antichità cristiane sono solo cronologicamente più vicine a Palenque o alla Casa delle Vestali”. Forse è questa la cifra più caratteristica di questo viaggio in Italia, che non a caso dedica una attenzione speciale alla Cappella della Sacra Sindone a Torino, alla Santa Casa di Loreto, al santuario di Monte Sant’Angelo. Alla domanda che pone, “che cos’era un mondo in cui l’intero territorio urbano era segnato, costellato di edifici sacri, con edicole, icone, predicatori, ospizi. E che cos’è un mondo in cui la maggior parte delle chiese è chiusa, il clero non è più in grado di mantenerle tutte e dell’antica devozione popolare rimane ben poco?” sospetto che risponderei in modo diverso da Cuniberto, ma l’averla posta con tanta chiarezza, e soprattutto l’averla sostanziata con tante osservazioni puntuali sui luoghi di un’Italia non sempre ben nota non è l’ultimo dei suoi meriti.

Flavio Cuniberto
Viaggio in Italia
Neri Pozza, 2020, 368 pp. € 18

In copertina: Un castello in riva al mare, attribuito a Stefano di Giovanni di Consolo, detto ‘Il Sassetta’ (1400 ca. – 1450), Pinacoteca Nazionale di Siena.

insegna estetica all’Università Roma Tre. I suoi libri più recenti sono: “Estetica”, Laterza 2011; “Le nevrosi di Manzoni”, il Mulino 2013; “Filosofia del paesaggio”, Quodlibet 2014; “Il problema Croce”, Quodlibet 2015; “Sprezzatura”, Columbia University Press 2018; “Attraverso la storia dell’estetica”, vol. I “Dal Settecento al Romanticismo”; vol. II, “Da Kant a Hegel”, Quodlibet 2019; “La tirannia delle emozioni”, il Mulino 2020.

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