Da mesi, oramai, il teatro vive – in Italia e non solo – senza spettacolo. Sembra un paradosso, ma non è la prima volta, e non sarà nemmeno l’ultima, che l’umanità, almeno quella europea e occidentale, si trova senza il rito laico e popolare della “messa in scena”. Lo spettacolo è l’apice della vita teatrale, è la concretizzazione di sforzi, azioni, studi, pratiche, pensieri, che ne sono sostanza. Nella storia si è dato più di un caso – politiche restrittive, comandi religiosi, pestilenze, malattie, economie – in cui lo spettacolo è svanito, cancellato con un colpo di spugna. Oggi, nella faticosa resistenza al contagio da Covid-19, i Teatri sono formalmente chiusi, non possono aprirsi al pubblico, agli spettatori: e tutto passa, inesorabilmente, nel piccolo schermo del computer o in quello (appena più grande) della tv. L’offerta così si è moltiplicata all’inverosimile: in questa epoca di estensioni tecnologiche, di “device” sempre attivi, di formule comunicative “da remoto”, il teatro è stato costretto a fare i conti con il video, con lo streaming, con le dirette o differite tv, con le radio e le registrazioni. Se l’evento scenico era ed è, si sa, incontro, scontro, ascolto, dialogo, comunque presenza, oggi, forzatamente, si è mutato in immagine riprodotta attraverso la tecnologia. Il mezzo, ancora una volta, sembra farsi messaggio. Dovremmo dunque stare h24 davanti allo schermo, e il tempo non basterebbe per cogliere un centesimo della enorme quantità di immagini proposte. Immagini sempre e ovunque. E non tutte, raggiungono il minimo di qualità necessaria.
Tutto questo prolisso preambolo, sorta di contestualizzazione non richiesta, per dire che ben ha fatto la storica del teatro Valentina Valentini a dare alle stampe un bel volume omaggio a Bill Viola. È noto: Viola è il maggior video-artista vivente. Ed è straordinariamente interessante, allora, ripercorre – pagina dopo pagina – la sua storia e confrontarsi con il suo pensiero.
Valentini ha creato una collezione di testi, testimonianze, interviste, cataloghi, firmati da autori vari, che vanno dal 1976 al 2014 (edito da Sciami editori, 321 pagine).
Così, ci si imbatte in un percorso complesso, articolato, approfondito. Viola racconta di sé, svelando non solo una contagiosa curiosità, ma anche quella profonda umiltà che lo ha portato a studiare, sistematicamente, storia dell’arte, ma anche filosofia, teologia, poesia, teatro, e tanta, tanta “tecnologia”. Il confronto con il “mezzo” è uno dei tempi portanti di questo libro.
Si avverte, scrive Valentini nella introduzione, «una voce che manifesta il suo pensiero, ricostruisce il processo di lavoro, dichiara le fonti di ispirazione, le motivazioni: un pensiero che gode della fluidità dell’oralità e nello stesso tempo si dispiega in una struttura coerente sulla pagina. Bill Viola è un teorico dal pensiero complesso, al pari di alcuni artisti nel contesto delle avanguardie storiche come Ejzenstein, Klee, Mondrian, Moholy Nagy, i quali hanno accompagnato la pratica artistica con riflessioni teoriche che ne proseguivano ed estendevano la portata (…). La battaglia che Bill Viola ingaggia attraverso gli scritti e le opere è quella di superare il dualismo che contrappone corpo e mente, intelletto e emozione. Nella sua visione del mondo al centro si trova l’essere umano, non la tecnologia. Infatti l’artista è convinto e lo ribadisce costantemente, che i limiti nella prassi artistica sono dovuti alle capacità e all’immaginazione dei produttori e degli utenti che agli strumenti utilizzati».
Ecco la questione, il nodo in ballo ancora oggi: il confine fragile tra creatività e tecnologia. Viola cita il poeta William Blake: «Se le porte della percezione fossero pulite, allora tutto apparirebbe all’uomo così come è – infinito».
Aggiunge ancora Valentini: «La sua “teoria dell’immagine” esula da discorsi sociologici, mass-mediologici e semiologici, infatti gli autori cui si riferisce sono più attinenti alla letteratura che non alle teorie sulla comunicazione, più Huxley che McLuhan. Siamo di fronte a una sorta di organismo vivente, mortale. Il suo concepire il medium come dispositivo non di registrazione del reale, ma dell’invisibile, dello spazio interiore, a partire dalla metà degli anni Novanta, diventa centrale». Ed è allora oltremodo affascinante, a tratti davvero sorprendente, seguire il percorso di studi e di esperienze di Viola. Dalla Syracuse University («ero uno dei peggiori pittori della classe»), fino alla fondamentale attività di direttore tecnico di “art/apes/22”, un centro sperimentale di produzione video e di ricerca (con le videocassette!) nato nel 1973 a Firenze grazie a Maria Gloria Bicocchi. A Firenze, Viola si confronta con Botticelli, Pontormo, Michelangelo, («la prima volta che vidi il David fu una esperienza scioccante. Era troppo grande», racconta), con la grande pittura rinascimentale – che pure rimarrà riferimento costante – ma anche con l’arte contemporanea italiana (come Giulio Paolini o Gino De Dominicis).
Ed è commovente registrare la sua emozione per ogni innovazione tecnologica annunciata dalla Sony o dalle altre ditte: il sistema Pal rispetto alla Secam, l’U-Matic, il colore, il primo videoregistratore portatile, la risoluzione delle immagini. Poi la prima mostra di videotape nel marzo 1975, a Milano, alla Rotonda della Besana; i costanti riferimenti a un maestro come Nam June Paik; oppure gli innumerevoli rimandi alla natura, alla percezione degli animali: nel libro sono evocati reiteratamente istrici, delfini, scoiattoli, formiche, anatroccoli, insetti. Sono animali protagonisti di vicende, aneddoti, citazioni, esperimenti. Per arrivare a dichiarare: «Nella scienza, la copia è una conferma della verità; nell’arte moderna, sfortunatamente, gridiamo subito al plagio. Se noi consideriamo la “scoperta” non come un processo creativo ma semplicemente come la realizzazione di qualcosa che è già esistito, qualcosa di antico e non di nuovo, allora le nostre opinioni su questi argomenti mutano drasticamente».
E ancora spiegare: «Quando, nel 1976, ho avuto la mia prima esperienza con il computer per il montaggio di un video, mi è rimasta impressa in modo significativo un’esigenza che questo nuovo metodo di lavoro creava. Si tratta dell’idea di olismo. Mi sono reso conto che la mia opera era terminata e contemporaneamente esisteva realmente prima di passare sul videoregistratore. I computer digitali e la tecnologia software sono olistici; pensano in termini di struttura globale». E infine ammettere: «Uno degli aspetti più eccitanti e frustranti della tecnologia video è che essa cambia continuamente. L’hardware è in una condizione di costante trasformazione o di cosiddetto miglioramento (…) Oggi il video sembra più vicino per analogia alla carta: un enorme foglio bianco su cui si possono fare tante cose diverse. L’arte è solo una delle cose che ci si possono fare. Video come una matita. Video come carta. Gli strumenti e le nostre metafore su di essi cambiano continuamente, ma una cosa rimane più o meno la stessa: la persona che usa questi strumenti. Questo probabilmente non cambierà mai (…) Il vero lavoro del videoartista contemporaneo, quindi, dopo aver acquisito le necessarie competenze tecniche, sta nello sviluppo e nella comprensione del sé. È proprio qui che sta il lavoro veramente duro».
Sempre affiancato dalla moglie Kira Perov, il newyorkese Viola si lascia andare ai ricordi esistenziali e poetici, anche relativi al suo metodo di lavoro. «Dal 1974, avevo iniziato a studiare la memoria umana: i sensi, la percezione, il cervello, la memoria… L’”hardware” umano, poiché mi ero accorto che, essendomi così tanto concentrato sull’hardware tecnologico, avevo trascurato l’altra metà dell’equazione. L’idea delle immagini come organismi viventi mi affascinava».
In questo studio, possono apparire San Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno, Francis Yates, sacerdotesse cieche giapponesi del monte Osorezan, il sufismo («tutta la conoscenza non è altro che un unico punto, è l’ignorante che lo ha moltiplicato»), il Buddha Shakyamuni e il suo sermone del silenzio, Aldous Huxley, John Cage, Bruce Nauman, filosofi greci e racconti africani, Nikola Tesla, gli indiani Hopi e molto, molto altro.
Consapevolmente, Bill Viola arriva a preconizzare nel 1985: «La computer graphic sostituirà quelle che oggi chiamiamo immagini cinematografiche. Io sto aspettando questo momento, credo che saremo capaci di vederlo nella nostra vita. La fine della telecamera! Penso che andrò a comprare una bottiglia di champagne quando andrò a Parigi e le metterò da parte per questo momento – tra dieci, venti o trent’anni – quando la telecamera finirà di esistere. Sarà uno dei momenti storici più importanti nella storia delle immagini. Credo sia paragonabile al momento in cui si sviluppò la prospettiva illusionistica durante il Rinascimento. Dalla camera oscura ad oggi, il prerequisito di tutte le immagini è stata la luce, e questo sta per finire. Saremo in grado di creare immagini complesse, realistiche, senza dipendere dalla luce; e nel momento in cui avremo un’immagine che non utilizza la luce come fonte primaria, allora saremo nel dominio dello spazio concettuale». Fantastica previsione, no?
E oggi, che siamo sommersi dal mare delle immagini, cosa resta da fare con questi strumenti, con questa tecnologia? «L’utilizzazione degli strumenti non è che il riflesso di chi se ne serve, le bacchette possono essere un utensile semplice per mangiare oppure un’arma, tutto dipende da chi le utilizza» ammonisce Bill Viola. Le analisi tecniche si alternano a considerazioni esistenziali, in questo bel libro, che ritrae a tutto tondo il lungo viaggio creativo del Maestro che, quest’anno, il 25 gennaio, festeggerà i suoi 70 anni.
Nella intervista concessa a Valentina Valentini, del 2010, Viola riflette: «L’anno in cui ha aperto a Londra la Tate Modern Gallery (nel maggio 2000, ndr), due milioni e mezzo di persone sono andate a vedere un museo di arte contemporanea d’avanguardia. Questo non era mai successo prima, e la ragione per cui tutto sta cambiando si deve al nostro medium, quello con cui io lavoro, il video, la cui tecnologia ci permette di essere in contatto fra di noi e con il mondo intero e permette alle persone di vedere e sperimentare più cose».
Sarebbe utile dunque, per tutti coloro che oggi si trovano costretti a cimentarsi con la produzione forsennata di immagini, leggere questo volume. Magari cogliendo anche un prezioso e sulfureo suggerimento: citando Eben Arabi, maestro Sufi andaluso del XIV secolo, Viola afferma: «il Sufi è qualcuno che studia il buio per capire la luce. Ecco un buon consiglio per gli artisti: se vuoi capire qualcosa, studia il suo opposto».
Valentina Valentini (A cura di)
Bill Viola. Testi e conversazioni 1976-2014
Sciami Edizioni 2020, 321 pp, € 19,00
In copertina: Bill Viola, Five Angels for the Millenium, 2001