È appena uscito il nuovo numero (l’8 del 2019) di «LEA. Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente», rivista diretta da Beatrice Tottossy e pubblicata da Firenze University Press, dal quale proponiamo per la cortesia dell’autrice il saggio di Anna Dolfi su Maria Lai, uscito solo ora (col titolo Maria Lai. Con le parole dell’arte segnali verso l’infinito) ma scritto nel centenario della nascita dell’artista (27 settembre 1919-16 aprile 2013).
Una finestra sul cortile (incipit quasi privato)
Verso la metà degli anni Settanta, quasi in contemporanea, nel giro di pochi mesi, ho visto per la prima volta le opere di Maria Lai[1] e mi è capitato di osservarla al lavoro. Senza che lei lo sapesse – come avviene a James Stewart nel notissimo film hitchcockiano – il punto da cui partiva il mio sguardo (analogo a quello, non complanare, verso cui si dirigeva) era una finestra sul cortile. Solo che quel che avevo davanti non era un delitto ma un rito, e a regolare il tutto non era l’aggressività bensì l’amicizia. Nella stanza di quel primo piano di via Prisciano 75 passavano giovani e ferveva il lavoro. Ci siamo poi conosciute, con Maria, nel giugno del 1977, al secondo piano di quello stesso stabile romano (sia pure arrivandoci da una scala diversa), ma quel che sapevamo l’una dell’altra bastava perché l’amicizia constatasse non già la sua nascita, ma il suo esistere ab imis. A causa di una strana proprietà transitiva (visto che la mediazione tra noi era stata un amico caro ad entrambe: lo scrittore Giuseppe Dessí)[2], della comune passione per l’arte, di un’analoga curiosità, e desiderio di vita, di gioco…

Un percorso per Maria
È difficile pensare alle opere di Maria Lai[3], ormai dislocate in prestigiosi musei, in Italia e all’estero (ma anche disperse nelle case degli amici a cui le destinava la sua generosità), senza ricordare La Stazione dell’Arte. Uno spazio unico in Italia, arroccato com’è su un monte, in una terra che amava, l’Ogliastra, dove era tornata a vivere per passarvi gli ultimi anni. L’ho visitata con lei, quella Stazione dismessa, quando era stata da poco destinata all’uso attuale, nel settembre del 2007, arrivandoci con un’auto che Maria guidava con quella spericolata audacia di chi ha l’abitudine di costeggiare gli abissi. Le avevamo assegnato il Premio Speciale della Giuria del “Giuseppe Dessí” di quell’anno, e avevo approfittato dell’occasione per passare di nuovo qualche giorno nel cuore dell’isola, visitando le tante opere da lei pensate e lasciate per e su quel territorio. L’approdo finale di quel lunedì 17 fu proprio la Stazione dell’Arte: un edificio spoglio, a vederlo da fuori: intorno soltanto terra battuta e vento.

Ma all’interno, varcata la soglia, ben in vista, i libri di Maria (Curiosape, Il dio distratto, Tenendo per mano il sole, Tenendo per mano l’ombra, Arte in-utile…, disposti senz’ordine), i pezzi del Gioco dell’oca, offrivano colori, come se il filo da cui nascevano le storie[4], dando voce a parole nascoste, facesse da avvio a un intero percorso creativo. Un percorso basato e fatto con e su materiali poveri, nati dalla cultura e dagli usi della sua terra. Dei rami capovolti, secchi e puntuti, scendevano dal soffitto di una stanza (a ricordare la spina Christi?), aggettando su un disegno che in bianco e nero restituiva geometrie essenziali; nello spazio più ampio, isolate sul bianco delle pareti, a dominare erano invece le splendide geografie, che sul nero, il rosso, il color tela persa, tracciavano rotte per chi, come lei, avesse il coraggio e la fantasia per immaginare spazi e distanze siderali. Poco più in là un presepe (con stazioni affidate a fogli sparsi dentro teche scure) insisteva, come un polittico, su un libro posto a terra, protetto ed involto nella paglia, a creare una singolare natività centrata sul mistero della scrittura che di nuovo si traduceva tramite immagini in racconto.
“Milioni”, “miliardi” di stelle si ripetevano, per lettera e segni, poco lontano, all’interno di una cappa contadina, guidando il visitatore verso scene elementari di vita campestre nutrite – di nuovo con pochi tratti decisi, sicuri di china – dal riferimento ai dati elementari del cosmo: sole, sale, sasso, terra, scure… (scanditi anche in rima: «…Sole sale / verticale / nello spazio / delle stelle / sul pianeta / sbigottito / respirando / l’infinito…»), e verso quadri a doppio spessore, dove ghirigori di metallo sembravano nati per dialogare con le opere di Guido Strazza. Uscendo, al tramonto, Maria avrebbe dato indicazioni tecniche ai tre operai che montavano nella nicchia del caseggiato più piccolo dell’ex-ferrovia un suo grande telaio di metallo bianco. E intanto dialogava con me e con Alberto Cannas, e parlava di un progetto per Antonio Gramsci, di rose disegnate per lui perché apparissero offerte dai balconi e dalle finestre di una immaginaria Sardegna.

La mattina di quello stesso giorno, in «picciola» compagnia (ovvero con lo stesso da poco nominato cugino), ci eravamo avventurate lungo le strade del suo museo diffuso[5]: Il muro del groviglio, La casa delle inquietudini (indimenticabile, con i giganteschi mostri grigio-verdi alle cui fauci ci affidavamo, saltando con Maria da un piano e da un settore all’altro della casa stregata), La scarpata, Il lavatoio, La strada del rito, senza scordare Il gioco del volo dell’oca, I piccoli libri di terracotta, La lavagna, Le capre cucite… Ad accompagnare i ghirigori tracciati lungo le strade di Ulassai, i calchi di pesci, di pipistrelli, di capre…, era il bestiario tipico della tradizione sarda, e le parole di uno scrittore che le era stato caro fin dall’infanzia: Salvatore Cambosu[6]. Un autore/maestro/amico che le aveva parlato (e che ora, anche tramite lei, continuava a dire) di un’isola bella e dolorosa, da cui però poteva scaturire il «miele amaro» della poesia.
La sera mi sarei trovata di nuovo nella casa familiare di Cardedu, dopo un rapido passaggio che vi avevo fatto nel 1990 alla ricerca di dessiani ‘paesi d’ombra’ – e in quell’occasione mi aveva mostrato anche, girando per le montagne, la fontana-telaio che aveva fatto per il lavatoio comunale di Ulassai assieme a Costantino Nivola. Come nel mitico settembre del 2002, quando avevamo percorso in famiglia La strada del rito, e visitato al MAN una mostra a lei dedicata[7] dal significativo titolo di Come un gioco, ad accoglierci c’era il suo segno inconfondibile, fin dalla facciata: lucertole fuori misura, spicchi di luna crescente, e sul terrazzo prospiciente il paesaggio la fontana sonora dell’amico di Orani.

L’appartamento di Maria, zeppo di opere oltre ogni dire (così almeno nel 2007) ricordava (ma con una marcata, sempre più marcata accentuazione da cantiere di lavoro, e con il necessario disordine conseguente) la casa di via Prisciano che avevo frequentato per anni, con l’odore dei pennelli, delle colle, combinato alla luce di quelle stanze lontane… Telai, disegni, sculture, terracotte… Unica traccia del passato due stampe con le foto dei genitori che erano anche nell’appartamento romano: volti belli, incisi e scavati dal sole, dalla vita, forse anche da una storia tragica. Quella che, giovanissima – a partire dalla guerra, e dall’impossibilità di trovare modi per rientrare in Sardegna – aveva portato Maria ad allontanarsi dall’isola, per andare a studiare arte sul continente, prima a Roma, e poi nella Venezia del grande e mai dimenticato Arturo Martini.
In quei giorni dell’autunno 2007, Maria, piccola e forte, si librava nello studio-cantiere davanti a dei grandi (per lei quasi giganteschi) telai, per tracciare linee che mescolavano armonie naturali con suoni cosmici, per inserire sui piani intrecciati delle composizioni i più diversi materiali (disegni, ceramiche, sassi, plastica…). Intorno tubetti di tinta, scatole di pelikan a inchiostro nero, rotoli di filo, di lana di ogni colore, pezzi d’ulivo sui quali testare i versi di García Lorca, che sillabava dal ’98, da quando, con Laura, mia sorella ispanista, avevano cominciato a scambiarsi suggestioni e materiali della grande poesia castigliana per il Museo dell’Olio di Castelnuovo di Farfa[8].

Maria, ilare e seria, concentrata e attenta, sembrava stare in ascolto di suoni impercettibili, come a voler rintracciare il ritmo dell’arte, una cadenza segreta (il punto giusto dove collocare i suoi segni) che le consentisse di dare figura a emozioni. Aveva la modestia di chi per tutta la vita ha operato con le mani in modo quasi artigianale, e che pure si sa attraversato da una forza diversa. Quella che, dai telai in legno degli ultimi anni Sessanta, l’aveva portata a giocare con intrecci di spago, acrilico, tela, guidandola, un decennio dopo, a cimentarsi con scritture di stoffa (autobiografie, diari, lettere…), con lenzuoli (penso a quelli, nati negli anni Ottanta, quasi memori di proustiane paperoles) che parevano raccontare, in sintonia con la Camera da letto di Bertolucci, la storia non solo di una famiglia, ma di generazioni, di una terra, di un popolo. Canto e controcanto insieme, nei quali fondere diritto e rovescio: e a seguirli uno sguardo intenso, accompagnato da poche parole.
Già, diritto e rovescio, in quel rapporto complementare e speculare che lega l’arte alla storia, il vissuto con quanto ne può restare, su tela o su carta. Una volta che si sappia che il compito dell’artista non è quello di trascrivere ma di trasfigurare, di dire per metafore, con significative sineddochi, elisioni, cancellature… La disciplina del togliere, insomma, perché alla superficie non rimanga che il semplice nastro blu che aveva guidato anni prima Maria a parlare e a farsi intendere da un’intera comunità (con un esperimento dell’81 che avrebbe fatto storia: Legarsi alla montagna) e che ci consente oggi di interpretare anche come scrittura i grumi di fili (di inchiostro) che costituiscono i suoi discorsi di filo.

Se i bellissimi disegni ad inchiostro su carta degli anni Cinquanta rinviavano a un mondo primitivo, di caprette, di fanciulle portatrici di acqua, di impastatrici di pane…, se gli oli degli anni Sessanta traducevano in colori verde-ocra paesaggi di sassi (come quelli della sua Barbagia), le composizioni polimateriche che sarebbero di poco seguite avrebbero puntato proprio ad offrire ogni volta con il recto anche il verso, quanto è necessariamente non finito e ha bisogno dell’impuro per giungere al puro, dell’astratto per dire il concreto. Allora tessiture-libro, telai-libro, tele cucite, tappeti (nati dall’artigianato locale, dal lavoro atavico di tante donne), dove i fili, proprio come nel rovescio della trama, non seguono una linea regolare o la direzione verticale, ma si muovono trasversalmente, intrecciandosi a cappio, mescolando confusamente colori. Parlando una lingua indecifrabile, attenta a riflettere in primis sulla natura del suo suono, della sua destinazione. Insomma luoghi invisibili, parole indicibili per lavorare sull’orma, su quanto resta del paesaggio e del passaggio, nel cielo (le comete, le galassie, le stelle…) e sulla terra (dopo il rapido transito dell’uomo). Ivi comprese anche le parole dei poeti, di quelli che amava (Leopardi, Luzi, Caproni…, Whitman, Lorca, Celan…), e degli scrittori, soprattutto di quelli sardi: Cambosu, Dessí, con cui avrebbe dialogato, in uno scambio di ruoli in un suggestivo libro costruito a posteriori all’insegna del Gioco delle parti[9]; e la Deledda, a cui avrebbe dedicato una delle ultime opere. Un’opera poi collocata nel parco della Solitudine, accanto alla chiesetta di Maria Concezione, quella che dà il titolo a uno degli ultimi libri della grande scrittrice. Dalle belle maquettes ormai disponibili sappiamo che il progetto iniziale di Maria Lai era un altro, più articolato e più mosso. L’opera che ha potuto realizzare è sicuramente più statica, ma non priva di suggestione e significato: sui lati interni di una grande struttura in ferro e cemento che non ha che il perimetro – come una teca vuota – figurano parole quasi leggibili; il metallo vi si intreccia e sovrappone creando sagome vuote e fuggenti che paiono uscite da quel paesaggio dell’Ortobene sul cui sfondo si muovono tanti dei personaggi deleddiani. Alberi piegati dal vento (la natura che dialoga con l’arte, nel monumento realizzato), e storie di delitto e castigo, di rinuncia e coraggio appena adombrate; con uomini deboli e donne capaci di sfidare un mondo chiuso e arcaico con i soli arnesi umili della casa, riuscendo a trovare saggezza e speranza nelle storie del mito inseguite con la fantasia o nel sogno: janas, sardus pater, mufloni[10], folletti imprendibili… Intorno alle quali, ai quali cucire e ricucire, sul dritto e sul rovescio, per trovare/ritrovare la legge interna di una dizione pronta a una nuova consacrazione, con l’olio della terra, con il pane frutto del lavoro (penso ai tanti pani di Maria). Pane/pani per un convito nel quale spartire la cultura, in luogo della fede.

Di questo parlano anche le opere soltanto avviate, i bozzetti per un progetto mai giunto a fine, come quello inziale pensato per il Nobel sardo. Quattro sculture in legno per mettere su la quinta di un teatro (che ha ampi squarci che vanno ben oltre il pirandelliano buco nel cielo di carta) dove figure a una dimensione, create da segni bianchi su spruzzi di vernice nera, mettono in scena la commedia del mondo, escono sul proscenio, vanno fuori campo, vi rientrano, in attesa di un segno, circondate come sono, su quinte mobili, quasi ruotanti, dal rosso, dal nero della scrittura che le ha fatte esistere. Maria tornava così alle misure geometriche che avevano segnato i suoi inizi, e che (a partire dalle geografie) non erano più indirizzate a tracciare figure, animali, ma a muoversi verso lontananze… Lontananze nutrite anche da una continua riflessione, dalla capacità di suscitare, a partire da una prima lettura dell’opera (penso soprattutto ai suoi pezzi all’apparenza più facili destinati all’infanzia e riconducibili alla forza educativa e inventiva del gioco), un discorso secondo che la portava ogni volta a confrontarsi con il senso, l’obiettivo, lo scopo del suo operare, e con l’effetto liberatorio e salvifico, la capacità di comunicazione, la forza profondamente innovatrice dell’arte.
Firenze, settembre 2019
[1] Nata il 27 settembre 1919 a Ulassai, in Sardegna, dove era rimasta fino al diploma, per passarvi poi nel dopoguerra, fino al 1955, alcuni periodi di insegnamento, Maria Lai sarebbe tornata sull’isola soltanto negli ultimi anni (morirà a Cardedu il 16 aprile 2013), dopo un’intera esistenza trascorsa sul continente. La sua formazione artistica, dopo l’incontro a Cagliari con Gerardo Dottori, era avvenuta a Roma (dove aveva seguito le lezioni di Mazzacurati all’Istituto d’Arte di via Ripetta), e a Venezia, dove all’Accademia di Belle Arti dal ’43 al ’45 era stata allieva di Arturo Martini.
[2] Che era andato ad abitare nello stesso stabile dove Maria viveva dal ’56: in particolare dalla finestra della cucina di casa Dessí (per altro ricca dei quadri giovanili di Maria) si poteva agevolmente osservare il suo tinello, luogo di incontri, di pranzi/cene, di progetti di lavoro.
[3] Ormai rubricate almeno in parte dagli storici d’arte, con un’attenzione che è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni in coincidenza con mostre di grande importanza a lei dedicate (mi limito a ricordare, tra le ultime, Maria Lai. Il filo e l’infinito, Firenze, Palazzo Pitti, 9 marzo-3 giugno 2018 e Maria Lai. Tenendo per mano il sole, Roma, Maxxi, 19 giugno 2019-12 gennaio 2020). Quanto a pubblicazioni di rilievo, bisogna partire dal bel libro A matita. Disegni di Maria Lai dal 1941 al 1985, Milano-Cagliari, Franco Maria Ricci per Arte Duchamp, 1988, a cui si si affianca ormai il prezioso libro-catalogo di Elena Pontiggia, Maria Lai. Arte e relazione, Nuoro, Ilisso, 2017, ricco di splendide riproduzioni e fotografie, e altri cataloghi nati a margine di mostre (in particolare Maria Lai. Tenendo per mano il sole. Holding the sun by the end, Roma, Maxxi, 2019 e Maria Lai. Olio al pane e alla terra il sogno. Opere e giochi per il Museo dell’olio della Sabina, a cura di Marisa Dalai e Sveva Di Martino, Milano, Skira, 2019).
[4] Su questo elemento avrei insistito nel presentare la mostra di Maria Lai tenutasi nell’aprile 1980 alla galleria romana Spazio alternativo (ora, col titolo Le scritture di Maria Lai, in Anna Dolfi, In libertà di lettura. Note e riflessioni novecentesche, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 283-284 e sgg.) e il primo libro-fiaba di Maria, Tenendo per mano il sole, Nuoro, Arte Duchamp, 1984.
[5] Un museo all’aperto, per lo più nel comune di Ulassai, che ha bisogno dell’attenzione e delle cure degli amministratori locali per poter conservare la sua interezza e bellezza. Vorrei che questo racconto semiautobiografico delle mie visite sui luoghi di Maria Lai servisse anche, in questa direzione, da invito e da monito.
[6] Al suo immaginario folclorico, mitico, si intrecciava quello di Maria, che se ne sarebbe ricordata soprattutto negli anni delle sue ‘fiabe’. Ma al proposito basti il rinvio ad alcuni schizzi di Maria Lai pubblicati con il titolo Le magie di Maria Pietra (da una leggenda popolare sarda),con una nota di Anna Dolfi, in Bestiari del Novecento, a cura di Enza Biagini e Anna Nozzoli, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 349-364.
[7] Dall’11 luglio al 29 settembre 2002. Ravvicinata invece, sempre al MAN, la mostra Maria Lai. Ricucire il mondo. Dagli anni Ottanta al Duemila (12 luglio- 12 ottobre 2014).
[8] Da quell’interesse sarebbero nate, sempre su sollecitazione di Laura, in occasione del convegno organizzato in occasione del centenario della nascita, anche alcune varianti di Maria a disegni del grande poeta e drammaturgo spagnolo (cfr. in proposito M. Lai, Variazioni, in Federico García Lorca e il suo tempo. Atti del congresso internazionale, Parma, 27-29 aprile 1998, a cura di Laura Dolfi, Roma Bulzoni, 1999, pp. 675-681).
[9] Giuseppe Dessí-Maria Lai, Un gioco delle parti, a cura di Anna Dolfi, Cagliari, Galleria d’Arte Duchamp, 1997.
[10] Come quello che accompagna il sogno di Cosima, quasi Grazia (su cui Anna Dolfi, Grazia Deledda, Milano, Mursia, 1979 e Del romanzesco e del romanzo. Modelli di narrativa italiana tra Otto e Novecento, Roma, Bulzoni, 1992).
In copertina: Maria Lai, un momento dell’intervento ambientale “Legarsi alla montagna” in una delle fotografie di Piero Berengo Gardin, 1981