Anche laddove non sia stato lo scrittore stesso ad averne compilato l’estenuante regesto, come fece Edmond de Goncourt nei due volumi de La Maison d’un Artiste, le cognizioni che abbiamo intorno alle collezioni degli scrittori sono generalmente più precise di quelle che possediamo sulle biblioteche degli artisti, giunte a noi in larga misura attraverso gli epistolari. Gli stessi storici dell’arte, d’altro canto, quando non si tratti di studi sull’ottica o sul colore (com’è il caso di Le cercle chromatique di C. Henry o della Théorie scientifique des couleurs et leurs applications à l’art et à l’industrie di N. O. Rood, che sappiamo essere alla base dei lavori di Signac e di Morbelli) ne hanno tenuto poco conto. Vi sono eccezioni naturalmente (è difficile affrontare l’arte, se così vogliam dirla, di Félicien Rops senza dar nota dell’opera di Flaubert e di Baudelaire di cui sembra essere l’involontaria caricatura, o parlare delle grandi tele di Gustave Moreau prescindendo dalla sua erudizione storica e mitografica); in rari casi soltanto, tuttavia, disponiamo di studi specifici come questo di Mariella Guzzoni.
Che Van Gogh avesse trovato nei disegni di Fildes, Herkomer, Holl e altri, pubblicati sul settimanale londinese The Graphic, qualcosa più d’uno stimolo era, se non già dimostrato, facilmente intuibile. Le moderne tecniche di stampa stavano offrendo soluzioni compositive inedite a molti pittori ai quali dovette sembrar più pratico cercare negli ebdomadari o alle affiches dei café-chantant quei ricostituenti per la propria arte che Gauguin andrà cercando nelle lontane isole della Polinesia (alcuni dei lavori più innovativi di Toulouse-Lautrec sono cartelloni in cromolitografia); non c’è ragione di credere che Van Gogh fosse stato meno sensibile di altri. La suggestione ch’esercitarono su di lui le illustrazioni di Gustave Doré per il volume London. A Pilgrimage (1872) – nelle quali possono forse riconoscersi i risultati più alti di questo incisore noto ai più per i grandiloquenti chiaroscuri e i tortuosi michelangiolismi della sua Divina Commedia e del suo Don Chisciotte – sono, d’altra parte, evidenti a qualsiasi occhio allenato, anche senza bisogno d’una accurata disamina iconografica.

Non è, dunque, qui che va ricercata l’originalità del lavoro della Guzzoni. Se si fosse limitata a una anfanante e minuta raccolta di fonti e modelli, nessuno dei quali, per verità, desta gran meraviglia, il suo libro aggiungerebbe poco alla conoscenza del pittore. Che cosa leggesse Van Gogh non è una domanda interessante. Come leggesse i testi è ben altra questione. Mariella Guzzoni ha saputo rispondere a questo secondo, più rilevante, quesito.
Nel 1882 il pittore aveva raccolto quasi un migliaio di stampe studiate “nei minimi dettagli, cercando di carpire i segreti delle singole figure e delle composizioni più complesse”, eppure il suo interesse non sembrava limitarsi al piano formale: “da tutto questo archivio visivo” – scrive l’autrice – “egli trae beneficio non solo sul piano tecnico ma anche su quello umano”. Nella tavola di Luke Fildes, Houseless and Hungry, apparsa su The Graphic il 4 dicembre del 1869, che mostra un’accolta d’infelici, involta in sudici panni, addossarsi ad una muraglia sotto lo sguardo severo d’alcuni gendarmi, così come in quella di Frank Hall Departure of Emigrants, 9.15 p.m Train for Liverpool, September 1875, comparsa sulla stessa rivista il 19 febbraio 1876, è la forza del soggetto ad attirare la sua attenzione: “In tutta questa gente” – scrive a Van Rappard – “vedo un’energia e una forza di volontà e uno spirito libero, vivace e sano, che mi stimola”. Per quanto complesse siano sul piano plastico le figure, Van Gogh ne nota, soprattutto, la sincerità: “sincero”, d’altro canto, è l’aggettivo che impiega più spesso per descrivere le opere che ammira. Sinceri trova i romanzi del naturalismo francese, dove la vita è dipinta “come anche noi la sentiamo e quindi rispondono a quel bisogno che proviamo, di sentirci dire la verità”, così come la narrativa di Dickens che può accostarsi ai lavori di Fildes e di Holl, perché in essi “è un solo e stesso sentimento, nobile e sano, qualcosa su cui si ritorna sempre”. Egualmente “magnifica e di nobile sentimento” gli appare l’opera di Gustave Dorè, il cui principale valore sembra risiedere nella maniera icastica e commovente con la quale vi sono raffigurate le esistenze più meschine.

Come può immaginarsi apprezzava George Eliot (rimase molto colpito da Scenes of Clerical Life, pubblicato nel 1857) e altri scrittori vittoriani il cui puritanesimo doveva trovar consentaneo agli ideali protestanti nei quali era stato allevato. Il mondo era per lui imbevuto di lacrime (sunt lacrimæ rerum!) ed egli trovava nei libri ora consolazione, ora esempi sui quali modellare il proprio comportamento. Leggeva d’affrante prostitute e i suoi precordi vibravano! Voleva allora sanare il mondo delle sue nequizie, e così cercò di comportarsi con una ragazza di vita ch’egli prese a compagna, Sien Hoornik. Non sappiamo com’ella fosse realmente, ma agli occhi di Vincent doveva assomigliare alla Nancy di Oliver Twist o alla Ann delle Confessioni di un mangiatore d’oppio. Le dedicò un magnifico disegno di cui non fatichiamo ad immaginare il titolo, Sorrow.

Come Walt Whithman – alla cui arte la sua può paragonarsi forse meglio che non a quella di Zola, certamente più che a quella dei Goncourt dei quali pure ammirava sommamente Chérie – Van Gogh cercava la compagnia degli umili, aspirava alla familiarità dei facchini, dei minatori, dei tessitori, di tutta la povera gente le cui giornate si trascinavano fra le ambasce e i patimenti. Pittore di contadini assorti nelle quotidiane fatiche, per lui si sarebbe potuto ripetere il sarcastico giudizio di Huysmans su Millet: “egli doveva sentirli così i suoi fratelli di stalla, i suoi compagni d’aratro”.
Non fosse che in Van Gogh la parola “fratelli” si caricava d’un significato religioso, e così “seminatore”: che doveva evocargli quel periodo della sua vita (a un di presso fra il 1876 e il 1879) in cui aveva progettato di dedicarsi interamente alla predicazione. Nel Seminatore di Millet “Vincent sembra vedere” – scrive la Guzzoni – “l’emblema della sua vita: in questa metafora visiva si concentra l’esistenza di chi si era un tempo definito seminatore di parola evangelica. La figura del seminatore incarna il suo concetto dell’arte come missione – il suo credo”. S’egli descriveva gli indigenti, voleva esprimerne la sofferenza, parteciparvi; in ciò l’aiutava la pittura perché un’opera d’arte, diceva, facendo eco a Zola, è un angolo di creazione visto attraverso un temperamento; perciò rifiutava l’estetica simbolista, nel cui idealismo soggettivista sentiva qualcosa di lambiccato ed astruso.
J.F. Millet, Le Semeur, disegno V. Van Gogh, Seminatore, schizzo
Cos’è da ricercarsi, dunque, nei libri? S’era accorto che, già nel 1856, Flaubert era arrivato a degradare il soggetto al punto da scrivere un romanzo, lucido e levigato come una cornice di palissandro, su un argomento, l’adulterio in una cittadina di provincia, che lo disgustava per la sua mediocrità? “La corrispondenza coi famigliari” – racconta l’autrice – “ci dice della loro abitudine di riunirsi la sera a leggere ad voce alta. Leggevano varie opere, dalla Bibbia, alla poesia, alle fiabe, come anche le lettere che volevano condividere. […]. La lettura aveva una funzione precisa per i genitori di Vincent, formare la mente e rafforzare il carattere dei figli. Oltre alla Bibbia il padre, il reverendo Theodorus, e la madre Anna tenevano in grande considerazione i poemi lirici di Petrus Augustus de Génestet, teologo e predicatore molto apprezzato nella comunità protestante olandese dell’epoca. Anche quando i figli erano lontano da casa, i genitori li sollecitavano a leggere e rileggere i versi di questo poeta ecclesiastico liberale, ‘così che le sue parole diventino vostre, come tante parole della Bibbia, armi nella lotta della vita’. I fratelli Van Gogh avevano perciò imparato a considerare la Bibbia, la letteratura i romanzi morali come porti sicuri su cui contare nei momenti difficili, e ad apprezzarne il valore”.


Il cerchio che si formava intorno al reverendo Theodorus non doveva avere nessun carattere in comune coi circoli negromantici dai quali esteti e simbolisti, la mente agitata dall’oppio, facevano sgorgavano truculente fantasie d’imperi sfiniti, di stupri, d’incendi e d’amori contro natura: nulla di tutto questo. Possiamo, invece, immaginare che la camera fosse piccola, raccolta e che, mentre un’ombra, spessa come una coltre di vecchia flanella, s’adagiava sulle cose, il crepitio della fiamma dal camino distribuisse sui volti, vigili e attenti, quei guizzi dorati che impreziosiscono dei loro toni caldi i chiaroscuri di Rembrandt. La lettura doveva essere pacata e calma e non è da escludersi che, di tanto in tanto, il reverendo si interrompesse e additasse ai figli quel gheriglio d’umana esperienza in cui consiste la sincerità d’ogni racconto, anche se immaginario. Le poesie come i romanzi – dovevano allora pensare i fanciulli – hanno da esser sinceri. Più tardi Vincent vi aggiungerà anche i quadri. Il ricordo di quei momenti ne intrecciò il lavoro e la vita. Ciò mostra il libro di Mariella Guzzoni, che, prima d’essere un esercizio di ricerca filologica, è un eccellente e sfumato ritratto d’artista.
Mariella Guzzoni
I libri di Vincent. Van Gogh e gli scrittori che lo hanno ispirato
Johan & Levi, 2020, pp. 232 con 129 ill.ni a colori, € 28
In copertina: Vincent Van Gogh, Romans parisiens, 1887