Diceva Tiziano che la virtù da lui posseduta
era dono del cielo che però non se ne gloriò giamai,
così Mastelletta diceva di non saper nulla,
esser il Signore che gli moveva la mano.
Carlo Cesare Malvasia, 1678
Consiglio sempre, in prima battuta, di avvicinarsi al quadro evitando la sua visione frontale: arrivare di tergo, al massimo tre quarti, meglio ancora se sprovvisti di qualsiasi nozione che lo interessi direttamente. Soprattutto, mai domandare alla superficie pittorica le ragioni della nostra presenza. Poiché fondamentalmente il motivo per cui siamo qui, cioè davanti a questa o a quell’altra immagine, non è mai da rintracciare nell’immagine stessa: essa non può possedere in alcun modo il significato più profondo del nostro lungimirante errare.
Non è allora buona cosa intimare ai lavori di Shafei Xia di consegnarci subito il loro segreto poiché, fondamentalmente, essi ne sono totalmente privi – ma come ogni immagine del resto! Sempre spudoratamente così tutta ben in mostra, cosa le sarebbe possibile nascondere? –. Confesso che davanti a tutti questi lavori (visibili, fino al 16 gennaio 2021, nello spazio virtuale della galleria P420 di Bologna con la personale Welcome to my Show) sono rimasto a lungo impacciato: sapevo per certo – poiché lo vedevo con i miei stessi occhi – di esser di fronte a qualcosa che tracimava di una qualche forma di intelligenza figurativa, ma quale essa fosse, ebbene mi era difficile da definire – e certamente la visione mediata da uno schermo, benché io avessi già conosciuto dal vivo il lavoro di Shafei Xia, di certo non mi stava aiutando –. Vedevo cioè in tutte queste opere una certa esuberanza al limite del rococò più kitsch – ma anche una leggiadria di matrice smaccatamente orientale –; degli ammiccamenti alla grande tradizione degli shunga del periodo Edo – ma anche alla pornografia contemporanea di più infimo livello –; un qualche rimando al colorismo veneziano tardo settecentesco – ma sedotto da una linea estremamente bizantina –; una ferocia naïf ben poco celata – frammista però a soluzioni delicatissime –. Insomma qualcosa, in tutto questo surplus visivo, mi stava sfuggendo di mano. Ma cosa? La mia mano stessa.

(courtesy Shafei Xia e galleria P420, Bologna)
Saggiare il quadro con tatto non è, come potrebbe apparire in prima battuta, un semplice paradosso da porre tra sguardo ed occhio, anzi: non escludo possa essere piuttosto proprio questo il fine ultimo in cui si risolve la necessità più intima del vedere. Nonostante questo ribaltamento possa apparire sorprendente, basterà qui rimettere in gioco quella superba teoria berensoniana dei valori tattili per fugare ogni dubbio sulla validità di questo assunto. Ma come si declinano più precisamente queste sensazioni cinestetiche all’interno del procedimento visivo? Quantomeno, come Bernard Berenson stesso ben mostra in un suo famoso saggio, secondo almeno due direttrici: da una parte, a livello fisiologico, si tratta di evidenziare l’ingerenza tattile nel percorso di lettura visiva dello sguardo – «Le palme e le dita accompagnano l’occhio» durante le scorribande di quest’ultimo sulla superficie della pittura (B. Berenson, The Italian Painters of the Renaissance, Phaidon Press, London 1954; trad it. I Pittori Italiani del Rinascimento, Sansoni, Firenze 1959, p.70) o ancora: «Io devo avere l’illusione di toccare una data figura, devo avere nella palma della mano e nelle dita, l’illusione di stimoli muscolari corrispondenti alle varie proiezioni di questa figura stessa, prima che io possa assumerla come reale» (Ivi p.65) –; dall’altra, passando a piè pari dalla fisio all’onto-logia, è bene sottolineare come questa tattilità, portata al suo valore più onnipervasivo, comporta al limite pure un ribaltamento totale dell’organismo vedente, che non è più semplicemente di fronte ad una certa immagine, bensì piuttosto si ritrova mise en abyme al fondo di essa – «Non soltanto l’arte ci insegna ciò che dobbiamo vedere, ma ciò che dobbiamo essere» (Ivi p.159) –. Da ciò allora ben si evince che il fatto di ritrovarsi senza questa mano è, in buona sostanza, quanto di più nefando possa capitare davanti al quadro, poiché in gioco non c’è solo l’immagine in sé – questo sarebbe poca cosa! –, ma tutto l’osservatore stesso.
Perché – seppur frettolosamente – ho detto tutto ciò? Perché vorrei che chiunque si mettesse di fronte ad un lavoro qualsiasi di Shafei Xia ascoltasse anzitutto le vibrazioni della propria carne per saggiare questa superficie. Poiché in fondo mi sembra assai necessario, in tutti i lavori qui esposti, assistere all’apparizione di queste figure non semplicemente attraverso un coinvolgimento visivo (per sua natura distaccato, oggettivo, freddo, etc.), bensì piuttosto anzitutto con la tattilità onanistica della propria epidermide (cioè “palmo a palmo”, con-tatto, etc.): non è cioè meramente con l’occhio che si penetra al fondo di queste carte, bensì piuttosto con la dura realtà del proprio desiderio.

(courtesy Shafei Xia e galleria P420, Bologna)
Cosa voglio dire con ciò? Che se si comparassero, ad esempio, Waiting for my boat (2020, acquarello su carta di sandalo intelata, 96x112cm) ed il Mondo Novo di Giandomenico Tiepolo (1791, affresco staccato proveniente dalla Villa Tiepolo di Zianigo ora al Museo del Settecento Veneziano Ca’ Rezzonico, 205x525cm) risulterebbe, nonostante le numerose assonanze in parte già evidenziate, quantomeno una divergenza radicale. L’affresco settecentesco, in maniera assai mirabile, fonda la sua architettura sulla limpida visione di un nascondimento: quello cioè del proprio oggetto di desiderio – metaforizzato qui dalla storiella del divertissement appena giunto dal mare –; l’osservatore cioè, esattamente come le figure dipinte più arretrate sul molo, freme realmente cercando di sporgersi oltre tutte quelle teste per tentare di vedere l’oggetto di tanta calca. Al contrario, nella superficie di Shafei presa in esame, l’oggetto che là è nascosto qui è reso in tutto il suo splendore: il desiderio è ben visibile – c’è! –, cioè è là fuori in mezzo al mare increspato, tenuto per giunta sotto stretta osservazione dagli occhi vigili delle due grandi tigri acquattate sul primo piano (e le si confrontino, lo dico solo en passant, con quelle di Antonio Ligabue).

Che fare allora, godere semplicemente di questa plenitudine in cui nulla sarebbe più da portare allo sguardo poiché tutto già mostrato con estrema limpidezza? Certo che no, visto che questo tutto, seppur presente, rimane comunque irraggiungibile. Perché? Perché mi divide da questo godimento tutta l’infinita profondità pittorica del quadro, cioè fondamentalmente un cambio di paradigma o, meglio ancora, un vero e proprio salto di specie. È allora esasperante la pittura di Shafei Xia proprio per questo motivo, poiché mi mostra esattamente quello che vorrei, ma anche che proprio tutto ciò – cioè il mio desiderio – non potrà mai essere altrimenti che irraggiungibilmente iconico.
Non si tratta allora di riuscire semplicemente ad immaginare questo desiderio – foss’anche comunque con quel magnifico fremito tattile proprio dell’affresco del Tiepolo –, bensì piuttosto di cercare (senza speranze!) di raggiungerlo, passando attraverso il lungo errare nella sostanza pittorica. Toccare con mano questo limite impalpabile è proprio per l’appunto il paradosso dello sguardo e tuttavia anche, come ben evidenziato dall’epigrafe posta in apertura di questo piccolo contributo, il modo più intelligente di realizzare un’immagine; in fondo una mano senza spirito e senza meta che vaga sulla superficie del quadro è certamente più feconda di mille parole o concetti, poiché «Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita» (S. Freud, Bruchstück einer Hysterie-Analyse, 1901; trad it. Frammento di un’analisi d’isteria (o “Il caso Dora”), Bollati Boringhieri, Torino 2020). Diventare allora stupidi – cioè superficiali, trasparenti, silenziosi, ecc. – come un’immagine, o meglio: cercare di essere come quella grossa tigre che, pregustando la sua preda ancora lontana – e che forse mai potrà raggiungere! –, si sta già leccando i baffi in preda all’eccitazione più animalesca.

(courtesy Shafei Xia e galleria P420, Bologna)
Così, parafrasando un famoso detto del profeta Amos – ripreso poi da Sergio Quinzio come titolo per un suo bel libro –, non si tratta di uscire «Dalla gola del leone», bensì di stare senza troppi indugi sulla lingua della pittura-tigre.
In copertina: Shafei Xia, Cabinet (particolare), 2020, acquarello su carta di sandalo intelata, ph. C. Favero (courtesy Shafei Xia e galleria P420, Bologna)