I poveri di William T. Vollmann (uscito negli USA nel 2007) sembrerebbe una sorta di remake postmoderno del citatissimo Sia lode ora a uomini di fama di James Agee (testo) e Walker Evans (fotografie), capolavoro fototestuale degli anni ’30-40 (per la ricostruzione filologica si veda l’introduzione all’edizione saggiatoriana di Luca Briasco, il quale è ora editor di narrativa straniera presso minimum fax: tout se tient).
Se quel campione di (icono)letteratura sociale era un libro di profonde radici rooseveltiane e bibliche (termini che negli Stati Uniti non sono affatto in contraddizione), se quel volume viveva del felice contrasto fra un apparato d’immagini apparentemente impassibili e un testo lirico, dissonante, in perpetuo deragliamento dalle vie ferrate della narrazione ‘giornalistica’ verso gli abbagli della prosa d’arte, della descrizione fervente, dell’eloquenza più fluviale, della minuziosa descrizione – naturalistica e allucinatoria, ma non è una sorpresa per un lettore di Agee: si veda in proposito il breve La veglia all’alba e, ancor meglio, lo script di La morte corre sul fiume[1] – fino al prosimetro; se, insomma, Sia lode ora a uomini di fama era un testo pienamente modernista, I poveri di Vollmann, a partire dall’incarico personale di svolgere sia la parte verbale che la parte visiva, è in apparenza una ‘macchina celibe’ che, fin dalle prime battute, dichiara la propria incomprensione del fenomeno della povertà: come se ogni rifacimento o operazione di clonazione postmodernista non potesse che giocare su questo deficit esperienziale (di conoscenza e di verità).
Naturalmente le cose sono più complesse e I poveri non è un remake, né un clone sballato, né una versione moderna, né un omaggio al libro di Agee/Evans, ma è semmai, in barba dunque a ogni pretesa del postmodernismo più ludico e nichilista, una problematizzazione di quel capolavoro reso così una sorta di palinsesto, di modo che Vollmann, anziché intessere un gioco ri-combinatorio (o di fastidioso upgrade cronologico) dell’antico esemplare, lo rovescia. Laddove nel primo esemplare le fotografie potevano permettersi il lusso dell’impersonalità, della trasparenza e il testo doveva arrostire sulla graticola di una quête di senso, nel secondo esemplare le fotografie sono fin troppo eloquenti – così enunciative da correre il rischio di finire in qualche archivio ben incasellato – mentre è il testo che deve rimetterle in squadra: disinnescare l’icona per farla tornare al suo statuto di segno ambiguo, indecidibile.
Del resto, questo anomalo reportage scritto tra il 1992 e il 2005, nella sua peculiarità (del libro e dell’autore) global, rischia grosso: siamo ormai addomesticati alle immagini – e alle parole – di povertà, carestia, indigenza estrema (merceologia della disgrazia, spot pubblicitario-umanitario, Band Aid e giù a cascata). Ogni apparecchio televisivo – e ora anche ogni schermo – trasmette una perpetua «mostra delle atrocità», dove il limite del visibile e del rappresentabile è posto sempre un poco più avanti, giorno dopo giorno. Già Susan Sontag, nel suo fondamentale Sulla fotografia[2], puntava il dito contro l’assuefazione dello sguardo collettivo. Per lei l’immagine dell’orrore – una di quelle «immagini malgrado tutto»[3] – era stata una fotografia proveniente da un lager nazista. Ma «le fotografie sconvolgono nella misura in cui mostrano qualcosa di nuovo» e, soprattutto, è necessaria una coscienza politica preesistente per dare significato agli eventi, non il contrario: «non è mai la documentazione fotografica che può costruire – o più esattamente identificare – gli eventi […] Ciò che determina la possibilità di un effetto morale delle fotografie è l’esistenza di una pertinente coscienza politica».

Non solo: è celebre nel saggio di Sontag l’attacco che la studiosa sferra alla fotografa Diane Arbus, ritrattista di fenomeni da baraccone, freak metropolitani, deviati e persone dall’aspetto grottesco: lo sguardo in macchina dei soggetti non è sintomo di vicinanza ed empatia, ma di esibizione del mostro, i protagonisti delle sue fotografie non sono ricercati fra le pieghe miserevoli del mondo (carestie, guerre, gravi mutilazioni) ma nel quotidiano. L’uso del mezzo fotografico che fa Diane Arbus, in altre parole, mira non tanto a rendere visibile il sottomondo, bensì a isolare quei fenomeni, atrofizzarne ogni possibilità di essere compresi in una dimensione storica e sociale, insomma: politica. È questo, secondo Sontag, il problema della fotografia americana contemporanea: aver seguito l’andazzo tardo-capitalista per il quale l’individuo è isolato e vive la sua condizione con senso di colpa (riecheggiando il giovane Benjamin del «capitalismo come religione»)[4]: in ogni caso è solo, come un atomo ottusamente opposto agli altri, magneti del medesimo segno[5].
Allora, si diceva, la vocazione da globetrotter di Vollmann (il libro collega testimonianze raccolte tra Thailandia, Yemen, USA, Colombia, Messico, Giappone, Vietnam, Afghanistan, Russia, Cina Birmania, Ungheria, India, Iraq, Serbia, Australia, Congo, Kenya, Kazakistan e Filippine) gioca col fuoco; ancora Sontag: «Marx rimproverava la filosofia di limitarsi a cercar di capire il mondo, anziché sforzarsi di cambiarlo. I fotografi, che agiscono nell’ambito della sensibilità surrealista, suggeriscono quanto sia vano cercar di capire il mondo e propongono invece di collezionarlo».
La fotografia fa «inventario» del mondo, non vuol conoscerlo, giacché la conoscenza avviene nel tempo e l’immagine stampata è puro spazio[6]. Eppure, nei Poveri appare una minuscola apertura a un’acquisizione di senso proprio quando il narratore-giornalista dice che aver potuto frequentare soltanto per poco tempo la poor people raccontata nel libro ha giovato al suo progetto: averne colto un istante senza dinamismo, averli letteralmente fotografati in un intervallo di tempo ridottissimo, ha reso più crudo e vivo quel grappolo di «analogie e differenze che […] sono riconducibili all’esperienza della povertà»:
queste istantanee di come certi poveri vivono la loro condizione hanno un valore inestimabile per me; sono stato in grado di studiarle a lungo quando ormai gli intervistati avevano dimenticato me e speso i soldi che gli avevo dato. L’impossibilità di raggiungere una comprensione dinamica delle loro vite nel tempo, la mia stessa estraneità alle loro vite, potrebbe accentuare la verità di questa presentazione, perché in fondo cosa devo dimostrare? Come potrei essere tanto fatuo da sperare di «cambiare le cose»? Non mi restano tentativi onorevoli da fare, posso solo mostrare e confrontare al meglio delle mie capacità.
L’idea dell’atto fotografico che ha Vollmann, insomma, parrebbe sposare in pieno ciò che Susan Sontag condanna: «se non mi sembra strano che un povero accetti la responsabilità della propria condizione, perché (molto probabilmente) mi conviene, o perché rispetto il diritto della sua coscienza a diventare quello che qualcuno definirebbe falsa, significa che dovrò […] accettare la mia responsabilità di ricco rispetto […] alla vita di ogni povero, e in tal caso diventare intrinsecamente colpevole?».
Tant’è vero che quando parla del lavoro di Walker Evans sui fittavoli dell’Alabama, dice che il fotografo «non ha bisogno di prendere posizioni». Vollmann attribuisce cioè una neutralità alla fotografia, con una naïveté un po’ farraginosa a dire il vero (inoltre c’è da considerare che anche una distanza dall’oggetto rappresentato, una sua neutralità silenziosa, ammesso che esista, è già di per sé una presa di posizione). Tutt’altre considerazioni sono svolte a proposito del testo di Agee:
è un successo perché fallisce. Fallisce perché si fonda su due ricchi che osservano la vita dei poveri. Le gambe dell’estraneo saranno anche a portata di mano, ma l’estraneo è talmente eccelso e irraggiungibile nella sua povertà che i nostri osservatori non possono percepirlo con la facilità con cui vedono se stessi. Se avessero ritratto il soggetto dell’opera con quella facilità, sarebbero stati paternalistici. Di conseguenza Agee diventa sincero al punto di disprezzare se stesso, mentre Evans si rifugia nel silenzio rivelatore della fotografia. Una foto vale mille parole, senza dubbio, ma mille parole quali? Useremmo tutti la stessa didascalia? Un povero vi fissa da una pagina. Non arriverete mai a conoscerlo.
Tuttavia, I poveri-testo è, anzi, un tentativo di comprensione (malgrado proclami iniziali come «Io non voglio conoscere la povertà…») di quello che I poveri-immagini potrebbero far apparire solo come una ‘collezione’ atomistica di fenomeni di povertà. I riferimenti all’empirismo e al relativismo più radicali, così come alla fenomenologia più o meno filosofica – non dimentichiamo che in una corposa sezione del libro si parla esplicitamente di «fenomeni» comuni all’esperienza della povertà (Invisibilità, Deformità, Indesiderabilità, Dipendenza, Vulnerabilità, Dolore, Torpore, Separazione) – sono posti in un confronto dialettico con un marxismo forse ingenuo, ma tutt’altro che devitalizzato.

Vollmann conosce benissimo lo scarto d’epoca e di assuefazione visiva che insiste tra il 1936, quando Walker Evans poteva tutto sommato ritrarre in maniera inedita povera gente degli Stati Uniti profondi e il decennio 1994-2006, quando al Nostro non basta fare esperienze estreme[7] (senza contare i precedenti di travestitismo, di coabitazione con i mujaheddin dell’Afghanistan durante la guerra con l’URSS, della sua avventura nella Fukushima post-atomica, della sua passione per prostitute e tossici frequentati ovunque sulla Terra e così via). Vollmann vuol liberare se stesso, la sua prosa e le sue immagini dal ‘senso di colpa’ – quello che insiste sul lavoro di Agee/Evans da un punto di vista ideologico e quello che fa ombra anche alla sua operazione. Non un senso di colpa da intendersi in maniera esclusivamente cristiana, ma soprattutto una colpa intesa come marchio di pre-fabbricazione. L’autenticità che l’immagine non garantisce più deve passare attraverso un’altra esperienza.
È proprio questo riferimento all’esperienza che vedo centrale. Riducendo all’osso un libro che, come d’abitudine con l’autore – ma meno che in altre occasioni – divaga e impazzisce al pari di una miscela non controllata, I poveri mette in scena un faccia-a-faccia: da un lato il reporter (dietro la penna e dietro il mirino della macchina fotografica) e dall’altro i poveri.
Come primo atto, il reporter interroga i soggetti: «perché certe persone sono povere?» è la domanda che rivolge a tutti costoro. I poveri sono interrogati anzitutto per capire se hanno coscienza di sé, della propria condizione. Mentre Agee e Evans ispezionavano minuziosamente le case dei fittavoli dell’Alabama in loro assenza, quando loro erano a messa, Vollmann vuol essere presente al momento in cui la loro coscienza (o falsa coscienza, verso la quale l’autore non ha alcun tipo di riserva come abbiamo visto) si guarda riflessa. Dall’altro capo della domanda ci sono le costanti di fatalismo, superstizione e sfinimento che accomunano in tutte le esperienze dei soggetti coinvolti, da Sunee a Oksana a Natalia, alle «Due Montagne», a Wan, agli abitanti delle terribili città petrolifere del Kazakhstan e così via, i termini che più emergono al termine della riflessione sono karma, destino, volontà di Allah. Talvolta affiora una flebile coscienza della disuguaglianza globale, ma l’ammirazione dell’autore è tutta rivolta al senzatetto giapponese che dice: «i soldi vanno dove vogliono». Animismo del denaro, insomma.
Ma ad ogni ricognizione intorno alla coscienza di chi è povero ne segue una intorno alla coscienza di chi racconta la povertà: soprattutto se sta facendo bene il suo lavoro, ch’è anzitutto osservare e descrivere; eppure, per quanto il bravo giornalista voglia attenersi alla disciplina di documento fenomenologico il valore dell’esperienza incalza continuamente. Quando infatti l’autore-narratore si convince della ragionevolezza di una soluzione «più aiuti, distribuiti meglio», che potrebbero risolvere molte situazioni di indigenza, subito dopo deve ammettere che viviamo in una società che, per sua natura, si oppone alla distribuzione delle risorse. E allora i poveri cosa dovrebbero fare, finché non arrivano «più aiuti distribuiti meglio»? «Aspettare, sperare fuggire!».
Ma è sempre l’esperienza che impedisce una conclusione, che ri-avvia l’incandescenza ideologica, per quanto ogni vampa marxista si spegne con un atto di disillusione autocensoria. Anche il relativismo culturale che, soprattutto pensando agli anni in cui I poveri è stato scritto, potrebbe far pensare a un postmodernismo sdrucciolo, è semplicemente un’armonica dell’esperienza: è l’impronta di una ‘comunità’, di un ‘con-vivere’ che – escluso dalle immagini, perentorie, asfissianti, strette sui volti della povera gente – torna continuamente a palpitare. Paolo Jedlowski, in conversazione con Roberto De Gaetano, scrive:
Si tratta cioè di intendere oggi il nostro appropriarci dell’esperienza non come un viaggio, ma come un movimento pendolare fra il fuori e il dentro di noi stessi; ricerca di uno spessore, di una consistenza del soggetto. In questa nostra ricerca indubbiamente e radicalmente ancora conta il mondo esterno, contano gli altri; però non più come comunità originaria, bensì come comunità scelta. Io ho bisogno degli altri per prendere atto di me, delle storie in cui sono, ho bisogno di raccontarle e di dar loro un ordine e per questo ho bisogno di interlocutori, ho bisogno di avere qualcuno che mi restituisca, se non la verità, la plausibilità di quello che dico. Però, a questo punto, è comunità scelta.[8]
L’esperienza, così importante in questo libro, che ne trasforma l’ipotesi iniziale da «macchina dell’inesperienza» a ‘macchina dell’esperienza’ non è performance, non è la misurazione ‘attoriale’ del corpo contemporaneo al confronto col narcisismo sociale.
Mentre ricorda un episodio nel quale l’autore ha dato, in una frazione di secondo e seguendo quasi un comando automatico (dell’esperienza, appunto), dei soldi a un mendicante, Vollmann sa benissimo che si sta esponendo al pericolo dell’autocompiacimento:
Posso dire che lo conoscevo come persona? Sarei in grado di riconoscerlo? Il mondo è pieno di mendicanti senza gambe! Ma il passaggio di denaro tra noi equivalse a una stretta di mano tra due cittadini della Terra, perché ognuno di noi due valeva l’altro. Fu una transazione scevra di egoismo per entrambi.
E ancora:
Più mi dilungo su questo momento e più lo svilisco; perché rendendolo significativo non faccio altro che esaltare la mia generosità o superiorità, o quantomeno amplificare la deformità di quel mendicante. Ma il gesto è stato significativo proprio perché non significava niente. Ci siamo visti, gli ho dato qualcosa, lui ha accettato, ci siamo dimenticati l’uno dell’altro.
L’unica possibile epoché che s’intravede è solo questa: un brevissimo istante nel quale ogni punteggiatura significante cessa di esistere. Un istante così breve e biodegradabile che non serve neanche ricordarlo, che non ha bisogno di essere raccontato: un evento fuori dalla parola, un evento-limite, che forse riscatta, con il suo nucleo di nulla, l’aggressione inevitabile della macchina fotografica.
Esperienza e interrogazione sono il contrario di una ideologia della resa che, invece, parrebbe emergere sulla superficie (ma del resto Vollmann gioca continuamente con le superfici e con il rapporto, questo sì postmoderno, tra corpo e superficie: è necessario ricordare le sue indagini sul travestitismo?) del libro. Perché certe persone sono povere e altre ricche? È già lotta di classe.

William T. Vollmann
I poveri
traduzione di Cristiana Mennella
minimum fax 2020, 496 pp, € 19,00
[1] Il titolo originale è molto più eloquente: The Night of the Hunter. Hapax di Charles Laughton come regista, il film è un memorabile viaggio nel più lacustre, superstizioso, invasato, tracimante di terrore psichico e religioso, espressionistico Sud degli Stati Uniti che si sia mai visto al cinema. Protagonista un Robert Mitchum straordinario, il cui personaggio ha tatuato sulle nocche delle dita delle due mani le parole «Love» e «Hate».
[2] Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, traduzione di E. Capriolo, Torino, Einaudi, 1992.
[3] Georges Didi-Hubermann, Immagini malgrado tutto, traduzione di D. Tarizzo, Milano, Raffaello Cortina, 2005.
[4] Walter Benjamin, Il capitalismo come religione, a cura di C. Salzani, Genova, il melangolo, 2013.
[5] Tuttavia, leggendo il saggio di Sontag, si nota che è proprio il mezzo fotografico a possedere qualità negative per una comprensione (marxista) del proprio tempo: «Attraverso le fotografie il mondo diventa una serie di particelle isolate e a sé stanti, e la storia, passata e presente, un assortimento di aneddoti di faits divers. La macchina fotografica rende la realtà atomica, maneggevole, opaca». Diane Arbus sarebbe ‘soltanto’ campionessa contemporanea dello strumento.
[6] «La fotografia porta in sé ciò che noi sappiamo del mondo accettandolo quale la macchina lo registra. Ma è l’esatto opposto della comprensione, che parte dal non accettare il mondo quale esso appare. […] A differenza del rapporto amoroso, che si basa su come una cosa appare, la comprensione è basata su come essa funziona. E il funzionamento avviene nel tempo ed è nel tempo che deve essere spiegato. Solo ciò che narra può farci comprendere. Il limite della conoscenza fotografica del mondo è che, se può spronare le coscienze, non può mai essere, alla lunga, conoscenza politica o etica».
[7] Tutta questa parte è straordinaria: «Ho vissuto nelle tende e tenuto allegramente fuori la pioggia e le zanzare. Ho osservato le sofferenze degli esseri umani, ho compiuto qualche gesto per alleviarle e me le sono lasciate alle spalle. Le mie sensazioni in quei momenti hanno un po’ l’odore delle strade piovose e sporche di urina nel Tenderloin, dove nello slargo al piano inferiore della metropolitana i senzatetto leggono, russano o ringhiano nei sacchi a pelo fradici; contagiato dalla sofferenza, giro gli occhi, ma incontro quelli arrossati di un uomo seduto al buio sui gradini bagnati di pioggia; potrei ricordare lui o la donna che canta seduta su quei gradini; ha i pantaloni e il giaccone inzuppati dalla pioggia notturna e i capelli bagnati le colano negli occhi; le cosce titaniche sono macchiate di eczemi e non fa che grattarsele; puzza, ma sorride mentre canta; certo, sarebbe onesto ricordarli entrambi – nella mia tenda. Io sono un uomo ricco. Sono uguale all’uomo di Bogotá che diceva: Ho paura che i poveri vengano a prendersi tutto quello che ho». Oltre a questo si veda, al contrario del ‘fallito’ Sia lode ora a uomini di fama, il rispetto che l’autore porta per il John Steinbeck di Furore e, soprattutto, per le esperienze di reale povertà provate da Jack London e George Orwell.
[8] Il ritmo dell’esperienza. Conversazione con Paolo Jedlowski, a cura di Roberto De Gaetano, in «Fata Morgana», 4, Esperienza, Cosenza, Pellegrini, 2008.
In copertina: Dorothea Lange, Funeral Cortege, End of an Era in a Small Valley Town, California, 1938 (particolare) ©The Museum of Modern Art, NY