Chi osa ancora attraversare le sabbie mobili
per tirare il proprio sogno dal gregge?
Christine Lavant
Si passa ammirando la scultura di una martire decapitata, la protettrice della musica. Il severo scultore, Stefano Maderno, ci nasconde la sua testa, ci mostra il taglio come un solco arato alla gola con qualche goccia di sangue in marmo, forse i semi della fede. Lo scultore non vomita nulla addosso allo sguardo di chi scopre l’atrocità fatta subire a una donna, una ritenuta visiva di cui l’arte dovrebbe fare costante lezione. Le dita della martire ci indicano il segno simbolico della Trinità. Un’opera simultanea, segno concreto del martirio e segno concreto della salvazione; racchiusa in uno spazio altamente riflessivo in lastre di marmo nero, architettura in sé. Mi chiedo sempre perché le arti abbiano spolpato la carica simbolica del lavoro, appesantendo e complicando i discorsi intorno ad esso.

Roma, Basilica di Santa Cecilia, decenni fa. Busso al convento delle monache incastonato tra le mura della Basilica. Con le monache ho familiarità, a scuola sono state le mie prime insegnanti, da loro ho ascoltato le prime lezioni tra i banchi. In una di quelle classi, alla domanda della nostra maestra suora se preferivamo andare in Paradiso o Inferno, fui il solo a dire di preferire l’Inferno. Mi costò la cacciata dall’aula, ricordo che quel giorno pioveva tantissimo. Forse la risposta del bambino che ero ha consentito all’adulto, poi, di evadere dai luoghi comuni. Il Paradiso è il luogo comune, l’Inferno la differenza.
Perché mi trovo a suonare il campanello di quel convento? Penso a Pier Paolo Pasolini nel ruolo di un allievo di Giotto nel suo Decameron, accetto quel suo ruolo solo perché Giotto è presente tra le righe di Boccaccio. Pasolini ha seguito quelle righe, ma quel ruolo a me non è mai piaciuto. Ho preferito cercare tra altre righe: quelle rare, quelle carsiche di una Storia dell’Arte detta minore. Lo studio ama le difficoltà, poche carte, poche opere rimaste come testimonianza, gran parte distrutte, scomparse, incendiate. Ma cosa ci voleva a mettere le orecchie sotto gli zoccoli dei cavalli di Giovanni Battista Cavalcaselle. La Storia dell’Arte è andata a cavallo con Cavalcaselle, storico dell’arte che resta impareggiabile in Italia e ancor più impareggiabile disegnatore. Quando saranno di nuovo editi i suoi studi riscopriremo lo studio dell’Arte come esplorazione, l’amore dei territori non consumati dal già saputo.
Ed eccoci di nuovo a quel campanello. Una suora anziana apre la porta color noce scurissima. Ricordo il suo sguardo sorpreso di fronte al fratino che gentilmente, col cuore in gola, chiedeva di essere ammesso nel convento. Venivo direttamente dalle Fiandre, in quel tempo abitavo a Gand, ero lì per vedere ciò che volevano vedere le mie mani. Attraversavo con la suora un’infilata di corridoi lindi, piante agli angoli e tavoli ordinatissimi. Nell’aria il profumo del silenzio. Nei sussidiari di Storia dell’Arte quello che stavo per vedere è trattato con qualche piccolo ritaglio di fotografie fatte male, appena qualche riga di chi non ha voglia di parlarne. I locali del convento erano illuminati da una luce che masticava tepore. Arrivati dove dovevamo arrivare, la suora mi lasciò solo. Ero al primo piano, in una grande sala, c’erano antiche panche in legno dove riposarsi col proprio sguardo tra le mani. Ero di fronte a quanto era stato salvato da un incendio. Mi appariva l’antica controfacciata della Basilica, con i resti del Giudizio Universale a buon fresco dipinto da Pietro Cavallini. Ero di fronte alla teologia di figure che cercavo, una differenza: Pietro Cavallini. Da lì comincia per me l’avventura delle Arti Murali: non da Giotto ma da Pietro, il semisconosciuto. All’iride dei nostri occhi arriva il soffio di colori delle ali degli angeli di Cavallini; prima di trovar posto nel coro degli apostoli, quello che si vede è tutto vero nella sua millenaria immobilità. L’astrazione aveva già fatto sosta tra quei pigmenti, i muri hanno sempre saputo masticare astrazione mettendo ali.

Cominciando da quello stupore, dipingere a buon fresco per me è stato come scrivere note su uno spartito musicale fatto di interminabili spazi, ogni pennellata un gong nell’aria. Mi trovavo di fronte alle figure ieratiche dei personaggi dipinti a buon fresco da Cavallini. Pietre dipinte nello spazio. Tutto questo era una via traversa per cominciare daccapo le Arti Murali. Le Arti non hanno mai avuto bisogno di manuali come quelli della scuola guida, dove la segnaletica è sempre la stessa. Nelle Arti la segnaletica viene cambiata continuamente, dalla sera alla mattina. Questa la sua libertà.
Per cinque anni mi sono svegliato alle sei del mattino, da Afragola raggiungevo l’Istituto Statale d’Arte a Napoli in piazza Plebiscito. Alle otto in punto ero sotto allo splendido portico dell’Istituto, progettato e realizzato da Filippo Palizzi e dai suoi allievi un secolo prima. Lasciato incompiuto, il suo non finito dichiara la sua attuale vitalità, la sua ariosità nella piazzetta Demetrio Salazar. Il primo giorno in quell’Istituto, la prima lezione col professore di Tecniche Pittoriche, fisicamente identico a Eduardo De Filippo. Il professore si chiamava Salvatore Volpe, e a differenza di Eduardo non plasmava voci o comportamenti teatrali; ci mostrava come si mischiava la voce degli elementi naturali, la calce spenta, la sabbia di fiume e i pigmenti, custodendo tutta questa ricchezza con grande premura nel suo armadio dalle pareti scialbate a calce e pigmenti. È dalle sue mani che ho visto per la prima volta come si costruisce un supporto d’intonaci per ricevere pittura a buon fresco, un graffito o altro di questa natura. Ero un ragazzo, quell’austerità e quella fatica non mi avevano ancora raggiunto anche se vivevo in quegli anni, all’inizio dei Settanta, fra grandi difficoltà economiche, la vita solcava la mia memoria attraverso il dolore a gran passi. Ma dopo, a trent’anni, di colpo aprendo gli occhi dallo stento della mancanza… il professor Salvatore Volpe non è morto.
A Marsiglia, dove abitavo, cercai cazzuole stecche calce sabbia e pigmenti, aprendo così di nuovo il sipario delle Arti Murali. Dalla Plaine, uno dei quartieri della città, spesso scendevo nel tardo pomeriggio al Vieux Port; anni fa lungo il molo c’erano circoli di pescatori, si riunivano dopo il lavoro per una partita a carte o un bicchiere. L’emigrazione italiana a Marsiglia è arrivata prima di quella araba: riversati in Francia dalla fame e dal fascismo, venuti dal Piemonte e dal Sud del nostro paese. Era un misto di dialetti che veniva fuori da quei circoli, ma il napoletano si alzava su tutti. La gran parte dei pescatori erano napoletani. Mi appoggiavo alle recinzioni che confinavano con quelle baracche in legno, restavo lì ad ascoltare e guardavo i tramonti in lingua napoletana al Vieux Port. Era il mio modo per sentirmi a casa. Dalla voce ai gesti, anche i gesti volevano sentirsi a casa; così le Arti Murali sono state il sentirsi a casa dei miei gesti, è stato come dare suono fisico a un linguaggio dimenticato, il salire e scendere da una costola d’arte rimossa, ammutolita. Attraverso quella mancanza si sono incontrati voci e gesti, salivano e scendevano dalle impalcature dei confini, mi aiutavano a guardare e ascoltare lontanissimo. Ero sgomento dalla meraviglia di scoprire i compiti dei muratori, di quegli italiani che prima di me hanno dovuto indossare abiti impolverati di sabbia, in una terra non loro, per impastare il pane per i loro figli. Accanto a quel solco di fatica e perdita ascoltavo l’eco di un popolo emigrato da sempre, quel dolore rinnovava il suono della mia lingua. Mi responsabilizzava.
Sono tante le ragioni per cui le Arti Murali si sono rinnovate linguisticamente attraverso l’impegno fisico, la compenetrazione storica delle urla del passato e le incognite dell’avvenire. Chissà, forse tutto viene da ciò che ci manca, se non c’è la ferita della perdita non c’è nulla. Ci sarebbe continuazione, non accadimento. In arte continuare a continuare non serve, servirebbe a sé stessi per costruirsi una rassicurante casa di muri ben caldi, perderemmo la possibilità di rendere giustizia al nostro destino attraverso il compito datoci in sorte dal lavoro. In fondo a spingermi a riscoprire le Arti Murali sono stati gli elementi di cui sono costituite, la loro nobiltà, l’odore della terra umida che asciugandosi si trasforma in luce, pareti illuminate dai colori, il semplice guardare l’aria scintillare intorno. Architetture vestite d’umiltà, nello spazio si ascolta il gesto dei muratori. I muratori mi hanno ammaestrato, ho mangiato ai loro tavoli. Nessun esempio dal passato, solo la giornata di lavoro di un muratore è stato l’esempio da percorrere e portare ai muri la luce… in un mondo dove i valori umani andavano riformulati. Lontano dal fumetto degli Anni Trenta del nostro paese, in cui quelle arti dette murali erano apparse ed erano state immediatamente massacrate da autori collusi con il più spietato potere di regime, artisti che hanno stretto le mani agli assassini, prima di sciogliere i colori nelle ciotole. Quale valore dare a tutto ciò.
È bastato il grido di Anna Magnani, in Roma città aperta di Roberto Rossellini (che ce ne facciamo più del grido di Munch), dietro a un carro di deportati: un drammatico grido di separazione finale si trasforma alle mie orecchie in un boato d’avvenire. Una scena di memoria dove Marcello Mastroianni si sofferma su un quadro di Ottone Rosai, il soggetto del dipinto diventa realtà nel film Cronaca familiare di Valerio Zurlini, tratto dal romanzo di Vasco Pratolini. Vincitore nel 1962 del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia, ex æquo col film di Andrej Tarkovskij, L’infanzia di Ivan. Entrambi i registi, per un caso della vita, si troveranno in seguito a filmare la Madonna del parto di Piero della Francesca. Un’accelerazione mentale, lontano da tutto, mi ha fatto capire che Rossellini era il nuovo Cimabue e Zurlini il nuovo Piero della Francesca. Si capisce che qui non si descrive la pittura sui muri, bensì il respiro dello spazio.
Vivere in paesi dove non si parla la nostra lingua, e dove noi parliamo per vivere la lingua dell’altro, rende audaci attraverso la lucidità; si è alla ricerca della parola giusta nell’altra lingua, ci si tiene fermi ai corrimani delle salite. E certe cose perdono di valore rispetto ad altre. Se la maggior parte delle persone non hanno l’occasione di vedere subito quello che facciamo non è tanto grave, anzi fa crescere le cose da sole nel tempo, si decantano lontano dal rumore immediato degli applausi. Le nostre cose vengono innaffiate dal silenzio.
Una delle proprietà fondamentali delle Arti Murali, la loro particolarità intrinseca, è il fatto che non si spostano. Una costruzione fatta di mattoni, pietre e intonaci non va in giro per il mondo. Le si va incontro, si fanno migliaia di chilometri per ammirare luoghi dove gli intonaci dei muri sono tessuti a pigmenti. Il loro spostamento ha qualcosa di impossibile, il nostro fare con lucida perizia nasce da una benvenuta impossibilità, ed è consigliabile far circolare le fotografie dei cantieri conclusi con estrema parsimonia. Questo lo stato fisico che impongono le Arti Murali, andarle a vedere nel loro luogo di nascita.
L’altro aspetto complesso è la loro geologia: amano gli elementi naturali esistenti nel luogo della loro nascita. Sorgono, hanno forza sorgiva, organicamente costruite con il “vero” della natura; nessuna magia, pasticcio, formula chimica o improvvisazione materica: la loro costituzione procede come un evento naturale, l’accorto dialogo tra uomo e natura. Mettendomi al servizio di queste discipline mi sono visto prendere le distanze da tutte le attività espressive produttrici di consumo visivo, e loro stesse consumo. Lì, nei cantieri delle Arti Murali, c’è odore del quanto basta, alzarsi da tavola a mezza pancia, con una naturale fatica fisica termina la grande abbuffata del visivo. L’immagine, e più precisamente la figura, conquista il proprio respiro, si svela alla vista daccapo, senza orpelli di un passato ottuso. L’offerta della fame di grafite lasciata sul foglio di carta che, soffiata da quella superfice e volata via nello spazio, subisce il processo di solidificazione trasformandosi in architettura colorata. Ho conosciuto la sabbia del fiume Gartempe, dell’Adda, del Tevere, del Calore; ad Atene ho impastato sabbia greca. Ogni muro un profumo differente, le mani passeggiano nella geografia. Un modo altrettanto veristico di dipingere un paesaggio con i suoi stessi elementi geologici.
Amo nel contemporaneo artisti che hanno messo scarponi ai piedi per offrirci altri paesaggi. Apprezzando il loro gesto, ho messo guanti alle mie mani. Ho inguantato le mani per far sì che dopo di loro altri paesaggi si rendessero possibili. Si cambiano gli stracci addosso. Questa volta per unire nel vero, dove sabbia è sabbia e acqua è acqua, il dialogo geologico del paesaggio; estirpando dal suo sottoterra la sua motta buia, unendola ai gesti del nostro fare, diventando scolari di un altro fare insieme alla natura.
Un’altra intrinseca sfumatura di queste discipline, un’altra impossibilità è quella della loro riproducibilità. Non si può andare per il mondo riproducendo lo stesso modus operandi, con loro queste modalità di comportamento scadono, la ripetizione non è efficace. Gli elementi naturali che si impiegano per la loro costruzione impongono sempre altre coordinate, sempre cure differenti. Questa impossibilità è il tribunale degli occhi. Lo sguardo dell’altro offre al nostro lavoro la luce dei suoi occhi. Immediatamente le Arti Murali parlano la lingua dell’altro che guarda, questo dialogo si mescola con la stessa acqua che beve chi guarda. Noi non lo portiamo lontano di casa, rendiamo fresca ai suoi occhi l’acqua che beve ogni giorno. Ed è in quel preciso momento in cui il suo sguardo abita, incontrando un cantiere visivo, che riconosce sé stesso e le cose, la vita dello stesso paesaggio. Chi pratica le Arti Murali appartiene ai luoghi, appartiene a chi guarda, è sotto lo sguardo di chi guarda. Si fa esente da riproducibilità tecniche, è il graffio naturale dell’accadere.
Queste benvenute impossibilità sono molto vicine alla fatica del vivere, forgiano le sensibilità di chi ha difficoltà nello stesso vivere e non si sente lontano dall’affrontare cose impossibili… Le Arti Murali non sono lezioni, sono l’incontro con l’altro. Esuli delle e nelle impossibilità: così si cerca di crescere insieme, farsi compagnia insieme. E, come la poesia è la biografia di tutti, nella polvere delle Arti Murali si può leggere la biografia di tutti.
Prendo la licenza di dire che è possibile crescere allontanandosi dal consumo e dalla riproducibilità acefala delle cose, se questo ci sarà ancora possibile. Se penso ora alle Arti Murali, penso alla Biblioteca di Sainte Geneviève a Parigi progettata dall’architetto Henri Labrouste, un concetto architettonico dove la stratificazione sapiente del costruire accoglie l’umano e non la sua caricatura, un libro austero scritto nello spazio.
I muratori mi hanno ammaestrato.
Una nota
La ragione dei documenti fotografici dei cantieri incastonati nello scritto appartengono alla sfera della memoria. Ho la strana sensazione di vivere in un pogrom semantico e visivo, quindi la parte pedagogica esistente naturalmente nell’organicità costituente di un lavoro è portata alla luce come un “devoir de mémoire”.
I cantieri ne sono tre: il primo, La sagacia nell’attesa rende una bella memoria, Archivi della Citta di Marsiglia, pittura a buon fresco, 550cm x 450cm – 1998 / 2000.
Il secondo: Tavolo da disegno, Museo MAXXI Roma, pittura a buon fresco, 400cm x 300cm – 2002, collezione MAXXI. Ringrazio Paolo Colombo, primo direttore del MAXXI, per aver permesso all’arte di farsi laboratorio di ricerche nell’inconsueto.
Il terzo: Pozzo in via delle pietre, Museo di Castelvecchio Verona, graffito volumetrico – distrutto, 2003, a cura di Chiara Bertola. Un lavoro che si nascondeva allo sguardo portando alla luce l’esistente. Dialogo d’ombra con l’architettura di Carlo Scarpa.
Presento queste immagini di lavoro perché hanno avuto la forza di cancellarmi, sono solo gesti.
novembre-dicembre 2020
In copertina: Stefano Maderno, Il martirio di Santa Cecilia, Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma