Isola di vetro
Terra e acqua: di questo diceva di occuparsi Smithson alla fine degli anni sessanta. Inevitabile che al centro della sua ricerca e delle sue ossessioni ci fossero le isole e i continenti. A seconda dei casi realizzati, disegnati, ipotetici o immaginari. Orientarsi in questo arcipelago non è semplice anche per chi naviga nell’opera smithsoniana mantenendo ferma la rotta. Ci sono i continenti ipotetici realizzati nel 1969 a Alfred, New Jersey (The Hypothetical Continent in Stone, Cathaysia) o a Sanibel Island in Florida (Mirror and Crushed Shells e The Hypothetical Continent in Shell: Lemuria).
Ci sono le Earth map, cioè “mappe materiali, mappe fatte non di carta ma di materiali”[1]. Immagini meno cartografiche che, alla lettera, geo-grafiche, che la terra la scrivono, la incidono, che trasgrediscono il salto dal piano della realtà fisica a quello della rappresentazione. Materializzazioni di un luogo preistorico, mitico, ipotetico, inesistente, che mostrano quella crisi della ragione cartografica per dirla con Franco Farinelli. C’è Earth Map (white limestone) of The Hypothetical Ice Cap of Gondwanaland nello Yucatan (aprile 1969), che ricostruisce il continente Gondwana – una sorta di Pangea – in pietra calcarea: “You cannot visit Gondwanaland but you can visit a ‘map’ of it” (Incident of Mirror Travel in the Yucatan, 1969)[2].

Ci sono disegni di isole con scale a chiocciola, guglie, passerelle, spirali, bracieri accesi, torri, sistemi idraulici di scarico. Costruzioni post-industriali, para-militari o pseudo-escheriane che ne fanno vere e proprie fatamorgana. Ci sono isole che si biforcano e disegnano sul pelo dell’acqua un reticolo simile al sistema nervoso; isole sinuose che si snodano con una forma serpentina che Smithson risolverà presto nella spirale; isole sul mar Rosso su cui è atterrato un enorme cubo minimalista; isole di conchiglie, di ardesia, di oolite, di calcare, di cemento, di edifici sotterrati. Fino a Floating Island (di cui abbiamo già parlato) e a tante altre ora in mostra alla galleria Marian Goodman a Londra (Hypothetical Islands, fino a gennaio 2021, con visita virtuale).
Ora, in questa estetica insulare, Smithson teneva in modo particolare a Island of Broken Glass, ideata a fine 1969 sullo stretto di Stuart, a sud di Nanaimo sull’isola di Vancouver che si affaccia sull’Oceano Pacifico, nella zona più temperata e umida del Canada, per la precisione all’altezza della cittadina di Ladysmith.
In una foto in bianco e nero vediamo uno Smithson intirizzito fare un sopralluogo su un isolotto inospitale chiamato nientemeno che Miami. Un appezzamento di pietra pomice lungo circa 45 metri, poco più che uno spuntone roccioso senza l’ombra di un albero, disertato dall’umano e da altre forme di vita animale e vegetale. Scelto tra una rosa di sette isolotti, si tratta di “the ugliest island for miles around” secondo Douglas Christmas[3], direttore della Ace Gallery a Vancouver – con cui collaborano artisti quali Carl Andre, Donald Judd e Sol LeWitt – e a Venice (California), nonché promotore del progetto di Smithson e finanziatore del documentario su Spiral Jetty, completata pochi mesi dopo. Christmas e Smithson s’incontrano nell’estate 1969 in Europa, all’epoca della mostra Live in Your Head: When Attitudes Become Form (Berna, Krefeld, Londra) e del secondo soggiorno romano dell’artista dove realizza Asphalt Rundown, primo dei cosiddetti pourings o flow pieces.

Sull’isolotto Miami Smithson intende versare un centinaio di tonnellate di vetro industriale colorato proveniente dalla California. L’idea di trasportare materiale da un luogo a un altro, da uno Stato all’altro non è nuova, se pensiamo a Spiral Jetty e ai massi rocciosi del Great Salt Lake in Utah, o alla stessa Floating Island.
L’isolotto deserto ricoperto di vetro, visto dall’alto o da un’imbarcazione, avrebbe luccicato sulla distesa liquida come un cristallo, un faro caleidoscopico, un miraggio nelle notti senza luna. Per quanto tempo? Per un tempo indeterminato, perché Island of Broken Glass è un’opera permanente, la cui durata sfugge al controllo umano e resterà in situ finché il vetro ridiventerà sabbia silicea (sua materia prima). Smithson affida così il suo intervento all’azione degli elementi e del tempo; stima che siano sufficienti pochi mesi prima che l’erosione smussi gli angoli taglienti dei vetri e pochi secoli prima che tornino sabbia.
Dal vetro alla sabbia: un percorso che torna al naturale passando per l’artificiale. Come se Smithson – in linea con Frederick Law Olmsted, architetto di Central Park assurto a earthwork artist e a fautore del “paesaggio dialettico” – creasse il naturale attraverso l’artificiale. Entropia resa visibile, per dirlo col titolo della sua ultima intervista con Alison Sky del 1973 pubblicata postuma, dove il tempo geologico – e ai suoi occhi entropico – è agli antipodi della linearità modernista volta al progresso. Island of Broken Glass è una messinscena dei processi geologici – “se consideriamo la Terra in termini di tempo geologico ci ritroviamo con quella che chiamiamo entropia fluviale” (Entropy made visible)[4].
Se tale processo di sedimentazione ed erosione gli permette di scavalcare la forma chiusa dell’opera e della galleria, la sua apertura a una temporalità geologica, slegata da quella dell’arte contemporanea, manda in frantumi non solo i vetri riversati sull’isolotto ma l’impianto modernista. Island of Broken Glass è così un dispositivo geologico che mima il processo di funzionamento della Terra. Perché il tempo di degrado del vetro non è un elemento contingente, una proprietà come tante pari alla deperibilità di qualsiasi artefatto umano, ma la sua stessa natura. Island of Broken Glass organizza la scena del degrado, si fa degrado organizzato o biografia di un materiale che, come un prodotto scaduto, va a male. Un doppio sguardo – artistico e geologico – che si sovrappone come due immagini stereoscopiche.
Non siamo lontani da Partially Buried Woodshed realizzato alla Kent State University in Ohio nel 1970, dove un carico di venti camion pieni di terra viene riversato sulla sommità di una vecchia capanna finché l’asse centrale implode e affonda sotto il suo peso. Un intervento all’epoca salutato dalla stampa con un sarcastico “It’s a Mud Mud Mud World”[5]. Oggi non resta altro che un cumulo di terra.
Isola dell’erosione
A volte immagino di sfogliare un atlante smithsoniano che visualizza la sua produzione seguendo una logica cartografica anziché cronologica. C’è il nativo New Jersey delle rovine all’inverso, lo Yucatan messicano delle rovine Maya e dell’hotel Palenque, la Roma della tradizione cristiana e, pochi anni dopo, delle sostanze bituminose, l’Inghilterra dei siti preistorici e geologici, lo Utah delle miniere a cielo aperto, la New York di Central Park e del paesaggio dialettico, l’Olanda della cava di sabbia a Emmen, la Vancouver dei progetti all’aperto e così via.
Come se la sua opera somigliasse a una sfera infinita il cui centro sta dappertutto e la circonferenza in nessun luogo. Mi riferisco a Pascal che così definiva la natura e che Smithson riprendeva da due racconti di Borges inclusi in Altre inquisizioni: “è significativo che la metafora che usa Pascal per definire lo spazio sia usata da coloro che lo precedettero […] per definire la divinità. Non la grandezza del Creatore ma la grandezza della Creazione commuove Pascal”[6]. “Una sfera spaventosa”, come Pascal appunta in un primo tempo, ricorda Borges. Che Smithson citi anche un saggio di critica letteraria sulla questione (La metamorfosi del cerchio di Georges Poulet) dimostra quanto tenesse alla permutazione del centro e dei margini.
In questo atlante immaginario la Columbia Britannica ricopre una posizione privilegiata, nonostante Vancouver fosse allora una città ai margini del sistema artistico gravitante attorno a New York. “Vancouver non emerge come un esotico ‘altro’ rispetto a New York, ma come qualcosa di più vicino a una casa inaspettata lontano da casa – il suo riflesso speculare quanto il suo detour panoramico”[7]. Smithson ha una passione per il nord-ovest canadese, che visita quattro volte tra novembre 1969 e marzo 1970, come documentato in Robert Smithson in Vancouver. A Fragment of a Greater Fragmentation curata da Grant Arnold alla Vancouver Art Gallery nel 2003, completa della rassegna stampa, dei resoconti ornitologici sull’isolotto Miami e dell’eredità di Smithson, da N.E. Thing Co. a Ian Wallace.
A Vancouver Smithson frequenta Lucy Lippard, Michael Snow, David Rimmer e soprattutto Dennis Wheeler (1948-1977), filmmaker, scrittore, allievo di Iain Baxter& e curatore. Nelle loro conversazioni notturne a casa di Wheeler o in un bar vicino alla galleria di Douglas Christmas, di cui quattro trascritte ed editate, spaziano dall’arte alla letteratura alla geologia, rivenendo incessantemente sulle isole. Scomparso a meno di trent’anni a seguito di una leucemia, Nancy Holt realizzerà un film in cui Wheeler racconta la sua lunga ospedalizzazione e malattia (Revolve, 1977).
Wheeler introduce inoltre la nozione di “defeatured landscape”[8] o paesaggio de-caratterizzato, recensendo Four Artists, con Tom Burrows, Duane Lunden, Jeff Wall e Ian Wallace, e curata da Christos Dikeakos alla Fine Arts Gallery della University of British Columbia nel febbraio 1970.
A Vancouver Smithson propone, oltre all’isola dei vetri infranti, tre progetti. Il primo è un intervento di roccia, fango e pittura in una miniera di rame quasi abbandonata a nord della città. Il secondo è Glass Strata with Mulch and Soil per l’architetto e collezionista Ian Davidson che viveva a West Vancouver (smontato nel 1978 e poi entrato nella collezione dell’Art Institute of Chicago), dove inseriva 32 lastre di vetro in posizione verticale nella terra e nel pacciame a intervalli di cinque centimetri. È Davidson a consigliare a Smithson di leggere Under the Volcano (1947, Sotto il vulcano) di Malcolm Lowry, resoconto di un viaggio in Mesoamerica che entra in risonanza con le riflessioni di Smithson sullo Yucatan.
Il terzo progetto è Glue Pour (8 gennaio 1970), realizzato nei pressi del campus della University of British Columbia, una location suggeritagli da Dikeakos, dopo aver scartato una vista scenografica sull’oceano Pacifico e le montagne sullo sfondo, troppo sublime romantico per l’anima di Smithson. Una scarpata bastava. L’occasione è data da 955.000 (numero della popolazione di Vancouver all’epoca), la mostra di arte concettuale curata da Lucy Lippard alla Vancouver Art Gallery (14 gennaio-8 febbraio 1970). Se Smithson e Lippard all’epoca non mancavano di discutere animatamente, la critica e attivista americana coglie il potenziale ecologico degli earthworks di Smithson in terre segnate dalla mano dell’uomo, sfruttate industrialmente e poi abbandonate, come le miniere e le cave. Con la Land reclamation – uno degli aspetti più politici e proficui della Land art – gli scarti industriali vengono riciclati per fini artistici con interventi in situ.

Forse per questo Smithson preferiva earthwork a land art, per un maggior radicamento alla terra, al sostrato materiale, per allontanare il più possibile lo spettro del land-scape, della pittura di paesaggio, dell’ideale pastorale della natura.
All’inizio Smithson propone di scaricare su un terreno inclinato dieci autocarri di cemento o asfalto (come aveva fatto a Roma con Asphalt Rundown) oppure cinquanta di fango. Nella versione finale, da un barile posto sulla cima della scarpata vengono fatti colare 226 kg di materiale industriale, solubile in acqua, e non la colla color perlacea cui pensava Smithson. Il liquido si spande lentamente, vista la sua viscosità e le basse temperature dell’inverno canadese. Un blob senza forma che prende vita, un informe che si anima grazie agli agenti atmosferici, riassorbito dalla terra già il giorno dopo.
Smithson ha la capacità, unica tra gli artisti della sua generazione, di tenere insieme due piani: quello della science fiction e quello della geologia. Christos Dikeakos, che di Glue Pour ha fornito la lettura più penetrante, sostiene che Smithson riduce la scultura alla viscosità, “come una sostanza plastica versata con una qualità protoplasmatica da fantascienza”. “Inattesa nei disegni preparatori di Smithson è la qualità fantascientifica dell’evento; la massa colorata, lenta e melmosa produceva una copertura informe di scivolamento materiale”[9].
Ma Glue Pour è anche, sempre secondo Dikeakos, “a study in erosional aesthetics”[10]. Con i flow pieces o pourings Smithson affronta la fluidità, quella dei materiali, della scultura, della forma e del corpo umano. Il primo lo aveva realizzato poco prima a Roma (ottobre 1969) con l’asfalto, il secondo a Chicago (novembre 1969) col calcestruzzo. In tutti i casi, l’opera è soggetta all’azione degli elementi, anzi gli elementi ne diventano il soggetto. Smithson appare come un geologo appassionato di SF o uno scrittore SF ossessionato dalla geologia che non resistono a sconfinare nell’altro campo.
Isola della discordia
Jewel-like Creation of Top Artist titola a proposito di Island of Broken Glass “The Vancouver Sun” del 23 gennaio 1970; “Un’isola di vetro spunterà fuori dalle acque dello Stretto di Georgia il mese prossimo”. E si leggono le parole di Christmas: “Da quando studiava la geografia da bambino, [Smithson] si è interessato agli strati della Terra e alla connessione tra gli strati e la superficie che riflette la luce”[11].
I preparativi procedono e dalla California partono due vagoni pieni di vetro diretti a Vancouver. Da Stockton (Ca.) devono essere spediti in treno, messi su un camion, caricati su una chiatta, scaricati con una gru dove Smithson potrà disporli, forse in modo disordinato o stratificato come nella sua scultura Glass Strata (1966).
Ma il carico vetroso non giungerà mai a destinazione, bloccato alla frontiera canadese prima del 2 febbraio, quando è prevista l’installazione-discarica. Qualche giorno prima uno Smithson sconcertato riceve un telegramma dalla Provincia che rigetta ex abrupto il progetto. Manca l’accordo sull’impatto ambientale del suo intervento, soprattutto sull’avifauna, sebbene Smithson e Christmas abbiano verificato l’assenza di qualsiasi tipo di wildlife sull’isolotto. Qualcuno pensa che, sotto le mentite spoglie dell’intervento artistico, si covi l’ennesimo atto d’imperialismo americano. Una vignetta apparsa sul “Vancouver Sun” mostra un uomo arruffato che esce da un negozio di bevande alcoliche con un sacco pieno di bottiglie, fissato da due signore attempate e dai gabbiani: “Comunque sono un artista… conoscete per caso un’isola pronta a essere ricoperta di vetri rotti?”[12].
Il “Vancouver Sun” pubblica anche il telegramma che Ray Williston, ministro dell’ambiente (Minister of Lands and Forests nella dicitura originale), spedisce a Smithson:
Oggetto: Progetto di scultura in vetro, Miami Islet:
Gruppi di salvaguardia fortemente contrari. La sua richiesta di autorizzazione a procedere mi assicurava che il progetto era a beneficio del pubblico. Dal momento che questo è ora chiaramente discutibile, le richiedo di tenere la questione in sospeso fino a quando non potrà sottopormi prove ulteriori che l’habitat naturale non verrà eliminato. Nessun vetro sarà gettato sull’isolotto Miami.
A mobilizzarsi sono gruppi ecologici poco conosciuti ma che l’anno successivo si costituiranno in Greenpeace – e che Smithson ebbe a che fare con Greenpeace è poco noto.
Quando scoppia il caso, il “Vancouver Sun” spedisce la reporter Moira Farrow e il fotografo Deni Eagland a Miami Islet per documentare un luogo di cui nessuno aveva mai sentito parlare prima. Il pilota dell’aereo, con tanto di mappa, fatica a localizzarla. Quello che trovano non è una riserva naturale ma un paesaggio di desolazione: “Una cosa sull’isolotto Miami: solo un uccello potrebbe amarla. Non c’è nemmeno un filo d’erba sul pezzo di roccia e puzza come un mercato del pesce”; “se l’isolotto Miami è un santuario di uccelli, mercoledì erano fuori città. Giusto qualche gabbiano e un cormorano hanno spiccato il volo a sorpresa mentre evolvevamo sulla roccia”. Resta poco più di “un mucchio di roccia di cirripedi, qualche alga, qualche tronco di legno alla deriva e lo scheletro di un uccello. Insomma, per dirla altrimenti, l’unico uccello vivo sull’isola mercoledì ero io. Chiunque abbia chiamato l’isolotto Miami aveva uno strano senso dell’umorismo”. Conclusione: “la scultura di vetro avrebbe fatto un favore a Miami” (29 gennaio 1970)[13].
Smithson è furioso contro quello che considera un atto di censura. A Douglas Wheeler ribadisce l’ambiguità e la duplicità degli elementi: “Beh, in natura puoi cadere dalle scogliere e puoi annegare in acqua e puoi cadere in un vulcano… Voglio dire, se qualcuno nuoterà da quelle parti e s’incornerà su quei vetri non è colpa mia. [….] Secondo me tutta l’arte è mentalmente e fisicamente pericolosa”[14]. Ne parlerà negli stessi termini a Philip Leider sulla strada per Spiral Jetty nell’estate 1970 (How I Spent My Summer Vacation, in “Artforum”, settembre 1970). E ne parlerà in termini caustici in due testi rimasti inediti e la cui analisi dobbiamo rimandare a un’altra occasione.
È stato osservato che anche Glue Pour, con la fuoriuscita del suo liquido melmoso, troverebbe oggi difficoltà a essere autorizzato. Sarebbe necessario passare per una lunga trafila burocratica di consultazioni, permessi, analisi chimiche e test del materiale versato, interventi di autorità governative e non legate alla difesa del territorio, rimozione del materiale dal suolo per lasciarlo così come era. Insomma, “le scartoffie di questo processo approfondito coprirebbero un’area di gran lunga superiore dei 170 litri di colla versati da Smithson quel giorno del gennaio 1970”[15].
Isola di ogni possibile
Senza perdersi d’animo, Smithson tenta un’ultima mossa, l’ennesima isola, l’ultima della nostra scorribanda insulare: Island of the Dismantled Building (concrete), una struttura urbana in cemento armato fatta a pezzi e trasportata sull’isola remota in quanto habitat per animali e uccelli. È chiaro che l’isola dell’edificio demolito non ha più chance di passare rispetto all’isola dei vetri infranti e infatti la proposta resta lettera morta.

Island of Broken Glass non conoscerà lo stesso destino di Floating Island, ideata nel 1970 e realizzata nel 2005. Viene ripresa in Songs for Glass Island, un’opera sonora di Camille Norment e della Experimental Music Unit performata alla Art Gallery of Greater Victoria e alla Contemporary Art Gallery di Vancouver nel 2016. Norment suona un’armonica di vetro del XVIII secolo e altri strumenti di vetro, esplorando le proprietà di questo materiale come la trasparenza e l’opacità, così come il suo ruolo nel campo dell’acustica e dell’ecologia marina.
Cosa resta di Island of Broken Glass? Un miraggio luminescente che anima e trasfigura la materia, secondo il linguaggio tradizionale della scultura? Un’isola vista dai due lati di un telescopio, come suggerisce a Wheeler[16], difficile da misurare, da localizzare, da mappare, in quel 1969 in cui circolano le prime immagini della Terra vista dalla luna? Un’immagine di Atlantide? Al continente scomparso Smithson dedica Map of Broken Glass (Atlantis) per una mostra a Loveladies (Long Beach Island, New Jersey) nell’estate 1969, citando il Timeo di Platone e il Codex Vaticanus A (Incidents of mirror-travel in the Yucatan, 1969).

Forse resta la costruzione di un angolo d’inferno, secondo le parole dell’amico e artista Carl Andre a proposito di questo lavoro, di Asphalt Rundown e di Partially Buried Woodshed, facendo di Smithson un erede di Faust?[17] Il setting di un romanzo di fantascienza come The Crystal World (1966) di James Ballard, il cui titolo Smithson riprende tra l’altro per descrivere le sculture minimaliste di Donald Judd (The Crystal Land)? Un mondo precedente la comparsa dell’uomo e della vita, o antidiluviano, o post-apocalittico che segue alla sesta estinzione, quella dell’uomo?
Immagine dell’entropia fluviale, sfera spaventosa in cui centro e circonferenza si perdono a spirale: ogni viaggiatore coglierà, dell’isola dei cristalli infranti, una diversa screziatura.
[1] Four Conversations between Dennis Wheeler and Robert Smithson, in Jack Flam (a cura di), Robert Smithson. The Collected Writings, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1996, pp. 196-233, cit. p. 200.
[2] Incident of Mirror Travel in the Yucatan, in J. Flam, Robert Smithson, cit., p. 122.
[3] Kevin Griffin, Robert Smithson proposed Glass Island by Nanaimo, in “Vancouver Sun”, 5 April 2016.
[4] Entropy made visible, in J. Flam, Robert Smithson, cit., p. 303.
[5] In Entropy made visible, in J. Flam, Robert Smithson, cit., p. 307.
[6] Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli 1963,1997, p. 100.
[7] Adam Lauder, Robert Smithson’s Vancouver Sojourn: Glue Pour, 1970, in “Canadian Art”, Summer 2015.
[8] Dennis Wheeler, The Limits of the Defeated Landscape: A Review of Four Artists, in artscanada, 27, 3, June 1970, pp. 51–2, cit. in Leah Modigliani, Engendering an avant-garde. The unsettled landscapes of Vancouver photo-conceptualism, Manchester University Press 2018, in part. cap. 4, “Establishing the theory and practice of a defeatured landscape”. La rivista “artscanada”, si legge in Modigliani, confonde e corregge “defeatured” in “defeated”.
[9] Christos Dikeakos, Glue Pour and the Viscosity of Fluvial Flows as Evidenced in Bottle-Gum Glue Pour Jan. 8 70 9:30 to 11:30, in Robert Smithson in Vancouver. A Fragment of a Greater Fragmentation, a cura di Grant Arnold, Vancouver Art Gallery, 2003, pp. 39-47, cit. p. 47 e p. 41.
[10] Cit. in A. Lauder, Robert Smithson’s Vancouver Sojourn: Glue Pour, 1970, cit.
[11] K. Griffin, Robert Smithson proposed Glass Island by Nanaimo, cit.
[12] Cfr. Ann Reynolds, Robert Smithson. Learning from New Jersey and Elsewhere, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2003, p. 217.
[13] K. Griffin, Robert Smithson proposed Glass Island by Nanaimo, cit.
[14] Four Conversations between Dennis Wheeler and Robert Smithson, cit., p. 216.
[15] C. Dikeakos, Glue Pour and the Viscosity of Fluvial Flows as Evidenced in Bottle-Gum Glue Pour Jan. 8 70 9:30 to 11:30, cit., p. 44.
[16] Four Conversations between Dennis Wheeler and Robert Smithson, cit., p. 203.
[17] Carl Andre, “Robert Smithson: He Always Reminded Us of the Questions We Ought to Have Asked Ourselves” (1975-78), in Cuts. Texts 1959-2004, a cura di James Meyer, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 2005, pp. 249-252, cit. p. 250.
In copertina: Robert Smithson, Miami Islet, dicembre 1969