“Ogni volta che c’è un ricordo e un oggetto che lo innesca,
i critici amano chiamare in causa la madeleine di Proust.
La mia madeleine è un biglietto del cinema.”
Orhan Pamuk
Nel Museo dell’innocenza (2008), Pamuk narra la storia di Kemal Basmaci e del suo amore per la bella lontana cugina Füsun, non solo in forma di romanzo ma anche, simultaneamente, in quella di museo, fino a costituire una straordinaria macchina retorica che comprende anche il catalogo, L’innocenza degli oggetti. L’esistenza ‘fisica’ del museo si innerva nella storia narrata, perché corrisponde al progetto del protagonista del romanzo di creare una sorta di “mausoleo” della persona amata. La figura stessa di Pamuk nella veste (quindi reale) di scrittore appare già in uno dei primi capitoli del libro, alla festa di fidanzamento di Kemal con Sibel, per poi tornare verso la fine, quando lo stesso Pamuk è chiamato da Kemal che gli affida il compito di raccontare in forma letteraria la sua sfortunata vicenda amorosa e il progetto del suo museo.

Ci troviamo dunque di fronte a un gioco strettissimo tra realtà e finzione, dove il museo è il dispositivo essenziale per dischiudere una serie di significati molto ampi, e dove si intrecciano, sullo sfondo, la storia della nazione turca per oltre tre decenni, tra colpi di stato e mutamenti sociali. Una riflessione fondata sulla conoscenza sia della storia del collezionismo wunderkammer, sia delle pratiche d’arte contemporanea, nelle quali molti artisti (da Joseph Cornell a Ilya Kabakov) si esprimono attraverso installazioni che sono esse stesse raccolte di oggetti, facendo dunque della collezione una forma d’arte. I tre componenti dell’operazione pamukiana (romanzo, museo, catalogo) si tengono insieme in maniera performativa, dove il rapporto tra parola e immagine, immagine e rappresentazione, si cala nella consapevolezza della predominanza del visuale in tutti gli ambiti del sapere, ora sintetizzato dal termine ‘iconosfera’.

La complessa opera di Pamuk è, pur nella sua staticità, molto debitrice al cinema, quel medium cui Walter Benjamin riconosceva il grande merito di aver «fatto saltare il mondo (borghese) simile a un carcere», invitando l’uomo a intraprendere «avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine», perché la funzione esplosiva del cinema consente di smontare il mondo esistente per ricomporlo secondo logiche nuove. L’amore per il cinema non si esprime solo nei ripetuti omaggi a Hitchcock che si intrecciano profondamente alla struttura stessa della vicenda – come indicato più avanti – ma anche nei riferimenti al cinema in quanto proiezione, spettacolo condiviso. In particolare, ai capitoli 52-53, che corrispondono numericamente alle teche del museo, Pamuk descrive l’estate trascorsa da Kemal, frequentando dei cinema all’aperto in compagnia dell’amata Füsun e del marito di lei, Feridun. È l’inizio di uno stillicidio di sette lunghi anni cui si sottoporrà il giovane, colpevole di aver ferito i sentimenti della ragazza, con la quale ha avuto un’appassionata storia, narrata in apertura del romanzo; infatti, dopo aver lasciato la promossa sposa Sibel, e aver ritrovato Füsun, dileguatasi per anni, Kemal può godere della sua presenza solo al cospetto dei genitori o del marito, aspirante regista in cerca di un produttore di un film in cui la moglie, aspirante attrice, potrebbe recitare.

Mostrando vivo interesse per i loro progetti, e promettendo sostegno grazie alle sue conoscenze nell’alta società istanbuliota, Kemal ristabilisce un legame seppur doloroso con l’amata. Ed è così che, verso la fine degli anni Settanta, i tre si recano in molte sale cinematografiche. Soffrendo per l’amore perduto, egli si identifica con la «segreta malinconia di quei luoghi affollati, circondati da muri imbiancati a calce, officine, vecchie case di legno semidistrutte», destinati a scomparire perché già molte aree della città sono occupate da cantieri di palazzi moderni. Ciò che più colpisce Kemal è l’atmosfera «di folle eterogenee (madri con il velo, padri che fumavano una sigaretta dopo l’altra, bambini che bevevano gassosa coppiette che amoreggiavano) raccolte a mangiare semi di zucca e a rattristarsi tutti insieme, tutte contemporaneamente per il film che stavano guardando». E nota: «la loro realtà, la loro vita, si mescolava dentro di me alle vicende raccontate nei film, fino a confondersi». Spettacolo nello spettacolo dunque, la sala e il suo pubblico creano un tutt’uno con il film. Kemal coglie il silenzio che regna tra gli spettatori nei momenti più drammatici del film – come quello in cui è toccato il tema della perduta verginità nel quale lui stesso si sente coinvolto e colpevole -, i movimenti dei bambini che si addormentano in braccio alle madri, i ragazzini che nelle prime file parlano dei protagonisti, lo sgranocchiare dei semi (dapprima scambiato per quello dei macchinari di una fabbrica nelle vicinanze). Il processo di identificazione con le avventure del personaggio dei film si interrompe solo quando Kemal si concentra sul ritmo del respiro di Füsun, a lui fisicamente così vicina ma anche così lontana, e sul sentimento di identificazione che la donna tanto desiderata può provare a sua volta in quel momento.

Le prime misure anti Covid nel lockdown autunnale sono state applicate ai cinema, luoghi decretati pericolosi per la diffusione della pandemia. A poco sono servite le proteste di chi ha addotto numeri davvero bassi e inesistenti di contagio: in una trasmissione con Emma Dante, Walter Ricciardi ha risposto che tali statistiche non erano valide perché non vi era stato alcun tracciamento dei contagi nelle sale. Una replica curiosa, che portava ancor più a interrogarsi sulle ragioni della tempestiva chiusura, cui sarebbe seguita quella dei musei. Di fatto, che i cinema abbiano chiuso presto i battenti forse in Italia non interessa poi a molti. Le sale erano spesso già semideserte, scomparse ormai quelle d’essai e sempre più diffuse le catene multisala. Al di fuori delle metropoli, il pubblico ha da tempo rinunciato alla visione del cinema in sala, preferendo quella casalinga, magari su grande e tecnologico schermo, oppure su computer, tablet o smartphone. Ormai tutto si trova in rete, al punto che perfino molti intellettuali han finito per capitolare a questo tipo di visione. Nel frattempo, il grande pianeta delle serie, prima solo telenovele di basso profilo, si è popolato di produzioni sempre più raffinate, filosofiche, coinvolgenti, sulla via fiutata con straordinario anticipo da David Lynch con Twin Peaks (1990). Puntate che durano 40-50 minuti, del tutto consone alla fruizione più segmentata della nostra attenzione. E se ‘consumiamo’ sullo schermo domestico film più lunghi, cioè quelli nati per una visione in sala, possiamo però, grazie ai nostri dispositivi, tornare indietro, o scorrere avanti, rileggere i titoli di testa, rivedere una scena. Non importa se si perde la concentrazione, l’unità di luogo, tempo, azione che solo la visione in sala consente, perché siamo ormai viziati da una forma che crea uno stato ipnotico, una condizione «estatica», per dirla con Baudrillard (L’autre par lui-même, 1987), com’è quella televisiva, che mette in moto una sorta di raddoppiamento virtuale dell’esperienza reale di vita dei singoli telespettatori. In televisione tutte la narrazioni proposte (dal telegiornale al talk show alla serie) in qualche modo si amalgamano al vissuto dello spettatore e, come ricorda Simonetta Fadda, possiamo «vivere un’altra vita sullo schermo contemporaneamente alla nostra, diversamente dalla sala di cinema dove finiamo per annullare la nostra vita e condividere quella degli attori» (Media e arte, 2020, p. 116), compiendo così processi di identificazione simili a quelli evocati da Woody Allen quando, in Provaci ancora Sam (film di Herbert Ross, 1972, tratto da un’opera teatrale dello stesso Allen), Woody/Sam dialoga col suo alter ego Humphrey Bogart in Casablanca.
Al cinema può compiersi infatti una mimesi psico-fisiologica che porta lo spettatore a intravedere quel che Miriam Bratu Hansen definisce «la possibilità – minacciosa e insieme liberatoria – di dissolvere le rigide strutture dell’identità sociale, critico-intellettuale e di genere», ma è necessario che sia dispiegata allora tutta la forza del dispositivo del cinema, «ovvero la sala cinematografica al buio, la condivisione dell’esperienza con altre persone, tutte ugualmente assorbite da ciò che le immagini mostrano e tutte ugualmente isolate » (Cinema & Experience. Le teorie di Kracauer, Benjamin, Adorno, 2013, p. 48): proprio quell’oblio che invece la televisione o altri media dissolvono, consentendoci di svolgere, nel frattempo, altre attività. L’hic et nunc di una sala cinematografica non è certo quello del teatro o di qualsiasi altro evento performativo, irripetibile nella sua stessa forma e che rende ogni replica diversa dalla precedente. Tuttavia, andare al cinema è un’azione che deve avere i suoi riti, fino a quello estremo di Woody Allen in Annie Hall (1977) che si rifiuta di entrare a vedere un film, peraltro a lui già ben noto, perché è già iniziata la proiezione dei titoli di testa, sottolineando così l’esigenza di una totalità che non può esser spezzata neppure dalla perdita di una parte apparentemente irrilevante ai fini della storia. «La proiezione vissuta di un film nella sala cinematografica al buio, per il tempo prescritto di una visione più o meno collettiva – osserva Raymond Bellour ne La querelle des dispositifs del 2012 – è diventata e resta tuttora la condizione di un’esperienza unica di percezione e di memoria: una condizione che definisce il proprio spettatore e che ogni altra situazione di visione non fa che alterare in misura diversa. Solo questa condizione merita di essere chiamata ‘cinema’ (quale che sia il senso che questo termine può assumere in altri contesti)».

Gli artisti hanno da oltre mezzo secolo ragionato sul tipo di percezione che le immagini in movimento producono. Douglas Gordon in 24hours Psycho del 1995 ha manipolato il noto film di Alfred Hitchcock del 1960, trasformandolo in una video proiezione di ventiquattr’ore senza sonoro. Il suo lavoro ha poi dato spunto a Don De Lillo per aprire e chiudere – ma anche dare un senso all’intera storia narrata – il romanzo Point Omega (2010), seguendo le visite che un uomo compie al MoMA di New York, dove nel 2006 il lavoro di Gordon è esposto. Mentre il film scorre sullo schermo, lo spettatore ragiona sul rapporto tra finzione e realtà e nella sala avverte il passaggio di altre persone e dei custodi, entra in fugace relazione con personaggi che incontreremo nel libro. L’anonimo fruitore è colpito dal potenziale altissimo delle immagini di Gordon, tanto che continua a recarsi al museo: «Anthony Perkins che gira la testa. Erano come numeri interi […] erano come i mattoni di un muro […] La natura del film permetteva una concentrazione totale e su quella faceva affidamento […] Nel tempo in cui Anthony Perkins impegnava a girare la testa ci fu come uno sciamare di idee riguardanti la scienza e la filosofia e una serie di cose imprecisate, o forse lui ci vedeva troppo dietro tutto questo. Ma vedere troppo era impossibile. Meno c’era da vedere più lui guardava intensamente e più vedeva». L’uomo si rende conto di trovarsi di fronte al «tempo allo stato puro» e osserva: «L’orrore presente di quel vecchio film dalle atmosfere gotiche era incorporato nel tempo […] Stava immaginando di guardare con gli occhi dell’attore? O aveva l’impressione che gli occhi dell’attore lo stessero scrutando?». Gordon riflette dunque anche sulla «interpellazione» dello spettatore cinematografico, innescata dallo sguardo in macchina dell’attore, processo che Woody Allen ne La rosa purpurea del Cairo del 1985 porta alle estreme conseguenze con la fuoriuscita del personaggio dallo schermo, rendendo omaggio a registi quali Edwin S. Porter in Uncle Josh at the Moving Picture Show (1902) o Buster Keaton in Sherlock jr (1924). Ma può esservi anche l’ingresso dello spettatore nello spazio fisico, come quello del pittore che scompare inoltrandosi nel paesaggio da lui stesso dipinto sulla parete del palazzo dell’imperatore Xuan Zong, nella leggenda riportata da Walter Benjamin (racconto analizzato da Andrea Pinotti nel 2014 e ancora in Pinotti-Somaini, Cultura visuale, 2016): una condizione praticata nei due sensi, dallo schermo allo spettatore e viceversa, in Videodrome di David Cronenberg del 1983.
Tornando a De Lillo, il visitatore di Point Omega è stupito di come il pubblico intorno a sé, nel museo, non si concentri quanto lui sulle immagini: un pubblico che non sa vedere insomma, per dirlo con W.J.T. Mitchell, «what do pictures want?», cosa esse ci comunicano al di là della storia narrata e rappresentata. Eppure, per lui quanto avviene in quella sala è molto chiaro: «Quel film e la pellicola avevano la stessa relazione che c’era tra la pellicola originale e l’esperienza vissuta realmente. Quello era lo scostamento dallo scostamento. Il film originale era finzione, quello era vero». Le scene di Psycho sono contemplate come una successione di «momenti astratti, tutti di forma e gradazione, il disegno del tappeto, le venature delle assi del pavimento, lo costringevano a essere del tutto vigile, occhio e mente». Assorbito totalmente nel «ritmo quasi statico dell’immagine», l’anonimo visitatore di Point Omega desidera perfino che il film proceda ancor più lentamente, che comporti «un impegno ancora più profondo dell’occhio e della mente: sempre lo stesso, la cosa che vede che gli penetra nel sangue, in una densa sensazione, condividendo la sua coscienza». Corpo e mente si muovono dunque di concerto, in una simbiosi che supera la condizione indicata da De Kerckhove, secondo cui il corpo avrebbe, in risposta a quanto avviene sullo schermo, precedenza rispetto alla mente. De Lilllo coglie come, tolto l’audio e rallentata in modo esasperato la successione delle scene fino a spezzare un continuum narrativo, il found foutage di Gordon ci permetta di vedere la sostanza del cinema quale essa è. Come sottolineato da Federico Ferrari in un saggio del 2006 «Lo specchio in frantumi» (recentemente proposto anche in questo blog), il cinema è il montaggio di un’infinità di frammenti del mondo, nel quale ogni frammento è in sé un nuovo specchio dell’eterno. Il gioco di Gordon si fa tuttavia più ambiguo quando egli esprime, in modo provocatorio, una tutt’altra interpretazione possibile per il suo lavoro, che anzi contrasta con quanto evidenziato dall’analisi di De Lillo. Invitando lo spettatore all’ impresa titanica, snervante, non praticabile, di vedere tutto il film da lui manipolato, Gordon ci fa fruire della pellicola come di un oggetto di consumo qualsiasi, tanto che in quel tempo lunghissimo possiamo alzarci, uscire, rientrare, mangiare un gelato, secondo quanto egli stesso ha dichiarato in un’intervista, riportandoci alla questione della visione circoscritta allo spazio della sala, per un tempo e una durata predefiniti, o fruita invece in altri luoghi e modi.
La concezione del cinema come successione di frammenti che consentono una comprensione della realtà, interrompendone il fluire con la produzione di immagini eterne – scoperta illuminante per Alberto Giacometti (ricordata da Ferrari) – può ricondurci a Pamuk e a Hitchcock insieme. Come già indicato in apertura, Pamuk dichiara il suo debito al regista inglese in diversi modi. Lo fa raccontando di Kemal, che va a vedere, da solo, Finestra sul cortile (1954) pensando ai baci di Füsun e disertando il pranzo con gli impiegati della Satsat, e poi si ritrova a rivedere con lei lo stesso film, questa volta davanti a un televisore, nel salotto dei genitori di lei, che, calato nel buio, si trasforma in una sorta di cineclub, nel quale le pellicole sono presentate, su una nuova rete culturale, da un loro amico, critico cinematografico, Ekrem. Kemal giunge anzi a ritrovare in Füsun l’eleganza e la sobrietà di Grace, e finisce per vedere il presente che sta vivendo «come la scena di un teatro di cui ero lo spettatore mentre il mio corpo e quello di Fusun erano gli attori». Füsun stessa si identifica con Grace, al punto da ricordare a Kemal che anche la principessa andava male in matematica, ma dichiara di invidiarla perché «sapeva guidare» e ciò la rendeva «forte e libera»: da quel giorno, infatti, egli tenterà di farle prendere la patente. Presentando Caccia al ladro (1955), il critico cinematografico aveva raccontato che la principessa era morta sullo stesso tratto di strada dove era stato girato il film. Al centro della bacheca del museo corrispondente a questo capitolo (il settantaduesimo, “Anche la vita è come l’amore…”), Pamuk inserisce infatti il video di quella scena. E nel catalogo del museo, annota: «Proprio prima dell’incidente Füsun sporgeva il gomito fuori dal finestrino imitando Grace Kelly in Caccia al ladro. Un dettaglio da tenere in mente quando ci si interroga se la sua morte sia stata un incidente o un suicidio». È quanto avviene, pochi capitoli e teche dopo, con Füsun al volante: un evento tragico che rompe quel circolo diventato perverso nel quale la coppia si trovava ormai calata. Nella stessa teca 72, infatti, a sfondo del video di Grace, sono pagine di giornaletti con enigmi e giochi di illusione ottica verso i quali, fin da bambino, Kemal provava disagio, inquietudine.

La sequenza filmata di Caccia al ladro è uno dei rari inserti di immagini in movimento nel museo (altre sono le navi sul Bosforo o le mani di Füsun che spengono sigarette) ma la presenza di Hitchcock va ben al di là delle citazioni finora elencate e si esprime soprattutto nella scelta di narrare un’intera vicenda attraverso degli oggetti, cogliendo quanto indica magistralmente Jean-Luc Godard nelle sue Histoires du cinéma (opera costituita, essa stessa per frammenti): dei film di Hitchcock possiamo forse dimenticare il motivo per cui qualcosa avvenga, ma ricordiamo benissimo gli oggetti (un paio di occhiali, un reggiseno, delle forbici) che permettono al regista di riuscire « là dove fallirono / Alessandro, Giulio Cesare, / Napoleone / avere il controllo dell’universo», perché «forse / diecimila persone / non hanno dimenticato / la mela di Cézanne / ma sono un miliardo / gli spettatori / che si ricorderanno / l’accendino / di Delitto per un delitto» (Godard 1998, IV, pp. 78-92).». Pamuk – già sensibilizzato dai romanzieri francesi (Flaubert in particolare) a cogliere la capacità degli oggetti di condensare in sé gli stati d’animo dei personaggi e il quid delle scene narrate – aggiunge più volte, nelle teche del museo, il bicchiere di raki, la bevanda più bevuta in Turchia, che scandisce momenti di incontro tra i personaggi. Quel bicchiere è preso direttamente in prestito dal bicchiere di latte che, nel film Il sospetto (1941), Cary Grant porta a Joan Fontaine, salendo le scale in una memorabile scena. Nel film la nostra attenzione si fissa sul latte, forse avvelenato, perché questo è illuminato dall’interno, secondo un escamotage tecnico di grande efficacia, che Hitchcock spiega a François Truffaut in una delle celebri interviste, e che sarà adottato da Pamuk stesso.

Sfidando così le categorie che separano la scrittura dalla rappresentazione visiva, e non contentandosi di scrivere un romanzo, ma creando una messa in scena atta a calare il visitatore-lettore nella vertigine della finzione, Pamuk ha scelto la forma del museo, ma lo ha fatto con un taglio da regista, cogliendo proprio, del cinema, la capacità di far emergere immagini, frammenti che contengono il tutto, secondo quanto sembra farci notare anche De Lillo nel 24hours Psycho. Entriamo nel museo di Istanbul come in una sala cinematografica in cui le teche da wunderkammer corrispondono alle scene del film e gli oggetti si imprimono alla nostra attenzione come le immagini di una pellicola, isolandosi dalla narrazione. E possiamo guardare un bicchiere, una scarpa, un orologio, una grattugia, in modo analogo a quello del visitatore nel romanzo di Don De Lillo, che fissa morbosamente gli anelli della tenda della doccia, cui Janet Leigh si aggrappa prima di cadere pugnalata: egli «voleva contare gli anelli della tenda, quattro, forse, o cinque o di più o di meno». Ricordando quindi nuovamente quanto osservato da Bellour sul cinema in sala come «esperienza unica di percezione e memoria», annotiamo l’invito di Pamuk a guardare ai suoi oggetti non «come a qualcosa di realmente esistente» (p. 457), ma come «ricordi», perché «vivere un momento come un ricordo, considerarlo come una traccia della memoria, conduce a un’inevitabile illusione temporale e spaziale». Il cinema, insomma.
Alcuni passi di questo scritto fanno riferimento a: L. Lombardi, Orhan Pamuk, Flaubert e gli oggetti estensione dello stato d’animo, in Un sogno fatto a Milano. Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo, a cura di L. Lombardi e M. Rossi, Johan&Levi, Monza 2018, pp. 125-136. Dallo stesso volume – che riunisce gli atti di un convegno all’Accademia di Brera del 2017 dedicato a Pamuk e in presenza dell’autore- è tratta anche la citazione di Pamuk in apertura (O.P., Collezionismo e pratiche radicali tra letteratura e materialità, pp. 163-182: p. 172). Vedi inoltre: L. Lombardi, Il Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, tra parola e immagine, finzione letteraria e museo reale, in Rappresentare scrittura e musica, a cura di Micaela Guarino, Istituto per i Beni Artistici e Culturali della Emilia-Romagna, Icom, 2020, pp. 24-30 e la mostra «Amore, musei ispirazione. Il Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk» al Museo Bagatti Valsecchi di Milano, a cura di L. Lombardi e L. Pini, con O.Pamuk stesso, dove le teche erano calate maggiormente nel buio rispetto al museo istanbuliota. Il museo dell’innocenza e L’innocenza degli oggetti sono stati editi da Einaudi, rispettivamente nel 2009 e nel 2012.