Io, sì. Io, cioè, sostengo senza dubbio che Fabrizio, Sara, Filippo, Elisa, Riccardo e parecchi altri loro colleghi siano realmente dei deficienti – o quantomeno dei soggetti sgradevoli, se non proprio pericolosi. Ditemi voi cos’altro si potrebbe pensare di gente che si imbambola ad ascoltare il rumore dell’evidenziatore mentre lo trascina sciattamente sui libri che dovrebbe studiare (ed è il caso migliore, dato che per lo meno non infastidisce gli altri); o di una che mentre facciamo colazione schiaccia la sua merendina ficcandoci oscenamente i polpastrelli dentro; o di un tizio che si mette ad ascoltare la moka mentre bolle, non per vedere se il caffè sale, ma solo perché gli piace “sentirne il rumore”; o di una – che vi siete presi, sciagurati, per compagna – che la sera si mangia la crema dei biscotti farciti e vi restituisce le due cialde da lei personalmente leccate; o di un bambino (chiaramente affetto da qualche severa sindrome psicologica) che divide il suo plumcake con la sorellina solo per stare ad osservarla malignamente mentre quella, poveretta, se lo mangia…
Sto parlando della nuova serie di spot per Mulino Bianco Barilla, andata in onda in questa stagione in modo assai massiccio su tutti i canali generalisti, che ha appunto per protagonisti questi para-personaggi, tutti rigorosamente appellati con i loro nomi di battesimo, “Filippo”, “Alberto”, “Sofia”, e via dicendo, e tutti intenti in “piccole gioie quotidiane” (Battiato) quali quelle descritte.

Sarebbe improvvido lanciarsi in una descrizione del modo con cui è stato pubblicizzato un prodotto che vanta oltre quarant’anni di storia – però se ne può tracciare qui una veloce ricapitolazione icono-genalogica. Contrariamente a quanto si possa pensare, visto che lo associamo regolarmente all’epoca d’oro della pubblicità, gli anni 80, il marchio Mulino Bianco è nato prima, nel 1975 – spinto da un nostalgico ritorno alle radici contadine che evidentemente si stavano già smarrendo: anticipa, e non segue, dunque, uno dei primi film dichiaratamente elegiaci di quel genere che è L’albero degli zoccoli di Olmi (1978) (anche se un precedente notevole è costituito dal Pinocchio televisivo di Comencini del 1972). La storia comunicativa di questo marchio parte dunque da un modello che potremmo definire “passatismo immaginario”, in quanto, invece di scavare nelle origini reali della condizione pre-industriale, le idealizza, trasformandole in segno di riconoscimento, in logo. E’ del tutto istruttivo però quel che accade dopo: il disegno del Mulino di Giò Rossi non era ispirato a nessun manufatto reale, ed è solo nel 1989 che Armando Testa, girovagando per l’Italia con lo scenografo premio Oscar Gianni Quaranta, trova a Chiusdino, in Toscana, un antico mulino che, un po’ ritoccato, finisce col somigliare al suo antenato-mai-nato. Dal passato virtuale si transita verso un “retrofuturo” che diventa “fisico”, si installa nel mondo e viene “abitato” dalla prima famiglia televisiva lì trasferita.
Molti critici della società mediale (incluso il sottoscritto) si sono fatto beffe delle ingenue famigliole e coppiette in luna di miele, che si recavano al Mulino di Chiusdino nella prima metà degli anni 90 per farsi fotografare accanto alla celebre icona pubblicitaria, e che inopinatamente scoprivano trattarsi di un set cinematografico, ristrutturato solo dal lato destinato alle riprese. Ma, forse, abbiamo riso troppo presto: nel tempo la ristrutturazione è stata completata e ora è effettivamente possibile trascorrere il week-end dentro quella che era un’immagine pubblicitaria, e oggi è un resort con tanto di piscina. Tant’è che il messaggio pubblicitario si è a sua volta adeguato a questa ristrutturazione “mondana” dell’immaginario, e dalla “retrofuturazione” tipicamente fin de siècle si è passati alla “compenetrazione nostalgica”, sostenuta prima da star come Antonio Banderas che, in veste di chef contadino, parla con le galline e sforna biscotti, fino alla coppia (di origini evidentemente urbane e alto-borghesi) che, dopo essersi trasferita al Mulino, impianta un Dipartimento Ricerca & Sviluppo di successo, dove vengono testati nuovi prodotti (biologici, integrali e – soprattutto – senza il micidiale “olio di palma”).
Se esistesse un Warburg della pubblicità avrebbe qui materia per un Atlas Mnemosyne di tutto rispetto – ma il problema è piuttosto quello di come “andare oltre” a queste, pur straordinarie, conquiste iconologiche. Mettiamoci nei panni del giovane pubblicitario che si vede recapitare da Barilla non solo il fatidico biscotto da reclamizzare, ma, insieme, un paio di tomi di storia dell’azienda e in particolare della comunicazione del marchio Mulino Bianco: c’è di che far impallidire il più impavido degli Ogilvy del pianeta. Dev’essere per disperazione – e sia detto senz’ombra di ironia – che alla Publicis Italy (che dallo scorso maggio cura la comunicazione del brand Barilla) hanno pensato di chiedere aiuto a Gabriele Mainetti (il regista di Lo chiamavano Jeeg Robot e del più recente Freaks Out) e a una giovane copywriter e poetessa, Giuseppina Iaccarino, già autrice di indimenticabili versi come “Ti aspetto/ e mentre attendo te/ vedo l’aurora arrivare” (da Remember Me, 2012).
Il risultato è – che dire – enigmatico. Visivamente, colpisce il fatto che gli spot siano ambientati in cucine “vissute”, in cui spicca il dettaglio dei post-it appiccicati alla madia casalinga. Ora, in epoca di smartphone e di WhatsApp, è arcinoto che nessuna massaia usa più il post-it come promemoria almeno dal lontano 2010 (anno dello sbarco di WhatsApp in Italia) – quindi, questo è il classico dettaglio che funziona come la celebre “goccia di sudore” nel primo Mission Impossible, cioè quell’elemento “in eccesso” la cui presenza, che dovrebbe servire rinforzare il senso di una domesticità “autentica”, squalifica tutto l’insieme rendendolo apertamente falso. Si peccherebbe però di ingenuità, credendo di aver colto in fallo degli autori preparati (e con un ragguardevole budget alle spalle) – perciò la sola ipotesi che resta è che si tratti di una criptocitazione dell’altrettanto celebre episodio di The Matrix noto come L’Oracolo – in cui il Prescelto Neo si reca da un Oracolo per sapere se è effettivamente lui l’Eroe predestinato a combattere Matrix. La forza della scena consiste nel fatto che, invece di trovarsi al cospetto di un qualche sacerdote avvolto da palandrane dorate, Neo si trova nella normalissima cucina di una casalinga nera (sovranamente interpretata da una matura Gloria Foster), resa ancor più domestica dal tocco scenografico di qualche appunto scarabocchiato a mano su un vecchio calendario. Nell’economia visiva iper-tecnologica di Matrix, la sequenza della cucina spicca per opposizione, e tutto, dagli occhiali da sole desueti al tostapane rétro, fanno capire che si tratta appunto di una messa in scena estremamente dettagliata costruita solo per lui, l’Eletto. La scena potrebbe anche essere messa in relazione col viaggio compiuto da Alessandro Magno nel 331 a.C. nel deserto egiziano per raggiungere l’oracolo di Ammone ad Al-Salam (oggi Siwa) e ottenere la consacrazione a figlio di Amon (dio Sole), necessaria per definirsi appunto l’Eletto (quindi legittimo dominatore dell’Egitto). Ciò che accomuna entrambi i casi è che si tratta di self-fulfilling prophecies, dato che Neo, come il re macedone, “riceve indietro” dall’oracolo esattamente ciò che si aspettava che quello profetizzasse.
Alla fine, le sagome di (pseudo) quotidianità incarnate nei vari Filippo, Elisa, Alberto e simili, non andrebbero confuse con le controfigure della meschina routine a cui ci siamo ridotti nell’epoca pandemica – ma intese piuttosto come oracoli che, con i loro gesti minimi, ci “fanno segno”. Forse, questi personaggi sono sacerdoti di una mantica altamente elaborata, il cui significato palese ci sfugge? Forse anche questa pubblicità è una profezia che attende di auto-avverarsi? Forse i loro atti in apparenza insignificanti ci vogliono dire che proprio noi, i protagonisti di quest’epoca incerta e paradossale, siamo gli Eletti della Storia?
In copertina: la scena dell’Oracolo in The Matrix Revolutions (2003)