Non è certo facile scrivere qualcosa sul libro La contrada natale dei sogni, antologia di versi del poeta cinese del XII secolo Yang Wanli (Quodlibet 2020, 265 pagine, 18 euro). E questo principalmente per due motivi. Il primo è di carattere culturale, e riguarda la lontananza della sua poesia dai nostri tipici canoni culturali, al punto da trasformare ogni raffronto in un azzardo ingiustificato. Certo, sentiamo quotidianamente parlare di Cina. I rapporti economici e le questioni geopolitiche hanno spostato gli equilibri verso l’Estremo Oriente, e siamo spesso indotti a osservare il paradosso del “capitalismo di Stato” o a interrogarci sui modelli politici del regime cinese. Ma spesso, quasi sempre, avvertiamo l’inadeguatezza degli strumenti che utilizziamo, buoni forse a scalfire la superficie della realtà sociale, politica ed economica, ma insufficienti per raggiungere davvero il cuore antropologico di una cultura così ricca e antica.
Questo – a meno di non essere sinologi – abbandona il lettore di Yang Wanli a un corpo a corpo a mani nude con il testo, senza altri appigli che non siano la sua personale sensibilità e le sue intime esperienze. Una difficoltà che si trasforma subito in occasione, per la quantità di sensazioni che, appena mediate dal punto di vista cognitivo e razionale, si risvegliano. Un’occasione che torna a farsi difficoltà per il commentatore che ambisca a trasmettere davvero la propria esperienza di lettura, la quale, in consonanza con lo spirito sincretico di confucianesimo, taoismo e buddismo, è in primo luogo pratica, materiale.
Si ha come l’impressione di trovarsi in una ricchissima galleria di immagini, tutte così intime e così immediate da comunicare, com’è proprio della poesia, il personale nell’universale e, di nuovo, l’universale nel personale, superando allora i differenti orizzonti simbolici. A chi voglia slanciarsi in un commento letterario, risulterebbe stupefacente la pressocché totale assenza di metafore, simboli, allegorie, così numerose nella poesia per come la conosce un europeo o un occidentale. A chi, invece, avesse il coraggio di abbandonarsi alla pura esperienza della lettura, risulterebbe perfettamente evidente la potenza unificante del rapporto con la natura che il poeta ritrae, quasi che non servissero simboli per unire immagini già di per sé intimamente legate fra loro.

La poesia di Yang Wanli è una teoria di segnature, si potrebbe osar dire. Con poche placide pennellate, il più delle volte accompagnate da una didascalia che funga da vera e propria cornice, il poeta offre uno scorcio su un paesaggio, su un evento atmosferico e sui suoni che esso genera, sull’ebbrezza per aver esagerato con il vino. Ogni elemento naturale ha una forma geometrica che è sua e contemporaneamente lo lega, come per un’eco senza tempo già inscritta in ogni cosa, ad altri elementi della natura; fra essi, si riscopre l’uomo, liberato dalla foga della prestazione, nella sua pura e nuda esistenza.
Nello spazio bianco fra un verso e l’altro c’è tutto il tempo per galleggiare nel non dover far altro che stare nel momento, nella sua impermanenza, senza infingimenti. L’esperienza immaginifica delle parole e del ritmarsi dei versi è ancor meglio restituita dal testo cinese a fronte in questa edizione Quodlibet, e dalla consapevolezza che ognuno di quei caratteri racchiude una densità di immagini paragonabile solo al colpo d’occhio gettato su un dipinto impressionista.

Forse l’immagine più familiare per invitare alla lettura di questo libro sono proprio le ninfee di Monet. La passione per il giardinaggio può condurre alla pretesa di piegare la natura secondo la propria volontà, inducendo rami e foglie a parlare una lingua non loro; e, però, anche scoprendo inevitabilmente una loro intima irriducibilità. All’artificio, imposto alla natura o alle nostre stesse vite, si sostituisce allora la ferma gentilezza: lasciar essere ciò che è, rompere la catena dei mezzi e dei fini per, semplicemente, non fare, tendere al non tendere, rimanere sospesi fra possibilità ancora inespresse. Si comprende allora cosa di universale ci racconti Yang Wanli e, parecchi secoli dopo, cosa avrebbe scoperto Marcel Proust passeggiando vicino al laghetto di Monet, e scrivendo di un «accordo con ciò che c’è di più profondo, fuggevole e misterioso». Una sorta di ordine inscritto nelle cose, una saggezza originaria che rimane sepolta sotto la pretesa di farsi misura del mondo, e che rimane irriconoscibile finché non la si lascia emergere spontaneamente, nel silenzio della mente.
Ciò cui Yang Wanli ci invita è non opporci e farci placidi collaboratori della creazione.
Al fondo di un sentierino in parte costeggiato da una siepe
dove le foglie nuove non ce la fanno ancora a far ombra,
ecco parte un bimbo dietro a una farfalla gialla
vola in mezzo ai cavolfiori e non si trova più.

Yang Wanli
La contrada natale dei sogni
A cura di Paolo Morelli
Testo cinese a fronte
Quodlibet 2020, pp. 256
€ 18
In copertina: Shen Zhou (1427–1509), Fiore di celosia