Che Tommaso Pincio abbia raccolto in volume i suoi scritti sull’arte, condividendo pubblicamente un periodo della sua vita artistica rimosso per lungo tempo, e che il risultato sia infine qualcosa di godibilissimo da leggere e non solo da ascoltare nella forma di un ricordo estemporaneo o di un aneddoto, è un merito da ascriversi alla tenacia di Andrea Cortellessa, che è riuscito a far capitolare chi esprimeva resistenze e tergiversava. Scrissi d’arte è, a tutti gli effetti, un libro cancellato, a cancellare una vita che fu, e in parte c’è ancora, e ci sarà sempre, per il solo dato biografico. Mai come in questo caso quest’opera di cancellatura lo rende prima di tutto un libro scritto. Al netto di tutte le questioni, questa raccolta di scritti d’arte, centrali nella vita del Pincio pittore, quindi prolungamento fisiologico di quella da gallerista (a partire da quella di Gian Enzo Sperone, gallerista di fama internazionale che lanciò in Italia l’Arte Povera e esportò negli Stati Uniti d’America la Transavanguardia) approda nel segno e nel nome di un enigma nel Pincio divenuto scrittore.
Capitolare, dato biografico. Chi scrive non nega di fronte a queste ultime parole un certo imbarazzo, una sospensione nel proseguire nel ragionamento, un rallentamento di cui si darà conto più avanti. Leggendo degli incontri con numerosissimi artisti, fra città come Roma e New York, restituendo sulla pagina un clima e un’atmosfera culturale irripetibili in cui Schifano prosegue la sua esistenza anche nella voce di Alighiero Boetti, in cui Duchamp e Pynchon quasi dialogano a distanza, mentre l’“artbiz” di Warhol diventa un modo di operare che segna una specifica età della storia dell’arte, si viene a conoscenza di un ricco repertorio di informazioni sull’arte e i suoi protagonisti.

Ma ovviamente il nucleo incandescente non risiede nella ricostruzione di un’epoca. Pincio infatti ritratta (ne è un caso esemplare il poi rinnegato Codice 61-65): a ben guardare la ritrattazione è fra i primi patti stabiliti con il lettore. È lui stesso a spiegarlo, che questi Scrissi d’arte non potevano essere semplici scritti: «scrissi» è un «modo per enfatizzare la lontananza di quei testi, la loro appartenenza a un tempo estraneo all’io di adesso». E l’enigma di cui scrivevo poco sopra non si staglia sullo sfondo di un lavoro che nella maggior parte dei casi appare privo in partenza di qualcosa, quindi ricchissimo di un quid che per essere intravisto necessita di più letture: la versione dei saggi che propone è tagliata, dato che il suo autore ha «scelto per stella polare l’idea che cancellare è un po’ scrivere».
Poche righe sopra, chi scrive era ricorsa a parole quali «capitolare», «dato biografico». Ha dunque «capitolato», Pincio: ma a cosa o, per meglio dire, a chi? Contemporaneamente si scriveva di un dato biografico incontrovertibile, quello della vita da pittore. Hanno senso queste affermazioni per chi si è consacrato alla letteratura nel segno di un falso nome? Nei confronti di cosa o di chi stava cedendo Pincio nel momento in cui accettava di mettere su carta la vita precedente quella da scrittore? E, cosa non secondaria, che valore hanno la cancellatura e la rivelazione di un’identità, di una vita altra, da parte di chi in partenza ci pone davanti una contraffazione? Per chi non lo sapesse, la vita di Marco Colapietro (identità anagrafica del pittore-scrittore) ha cessato di esistere per lasciare spazio alla vita – letteraria – di Tommaso Pincio.

La voce del Pincio che rinnega sé stessa è credibile? Rileggiamo, in Scrissi d’arte, un brano a commento del Cimento della E, dedicato a colui che lo ha influenzato più di tanti altri scrittori: «Nello scrittore che sono diventato c’è molto più di Alighiero [Boetti] che di tanti scrittori che ho letto e amato. In un angolo della mia mente riposa da tempo l’idea di scrivere un libro su di lui, sulla voce, la voce che aveva rubato a Mario Schifano, la voce che a sua volta altri rubavano a lui, non rendendosi conto che stavano imitando un’imitazione».
Avventurarsi nelle opere di Pincio diventa allora un modo per affrontare, fino al parossismo, al limite tollerabile dell’idiosincrasia, il tema del doppio. Del resto, fin dalla tesi di laurea su Sandro Chia, questo era un tema verbalizzato e esplicitato (compare anche nello scritto a lui dedicato), anche se ancora, sicuramente, in una forma accademica, addomesticata, poco pericolosa e decisiva per il suo destino di uomo e di artista. La stessa vocazione al fallimento, se così può essere chiamato, è poi tratteggiata in Pulp Roma. Del romanzo “romano”, che Pincio tentò di scrivere, si legge: «Tentai invece sin da subito e fallii, rimuovendone poi la memoria».

Delle diverse sezioni di Pulp Roma, intitolate Passato remoto, Presente e Futuro anteriore, si dichiara che la seconda muove da una nostalgia ben precisa, quella appunto per il mondo dell’arte; l’ultima parte fa riferimento invece a una nuova condizione nella quale è riemersa la voglia di dipingere. Assume un ruolo a questo punto forse non casuale, per chi scrive, che l’ultimo scritto del libro, datato 2012, si intitoli Ritrai, ti prego, la mia storia. Vi si legge che «lo sguardo del pittore mancato è rimasto dentro di me alla maniera in cui gli estinti seguitano ad abitare una casa, la maniera dei fantasmi come». Qui, esattamente a questo livello,convergono le multiformi esistenze, le amnesie procurate e indotte, i nascondimenti e le peregrinazioni fra le diverse identità. A questo punto si salda la realtà con la finzione, e il Pincio che racconta Pincio, lo disconosce e disereda, lo sfratta, ha quasi il sapore di un bildungsroman. Stante così la questione, più che badare all’ordine cronologico, alle fonti per così dire storiche, predominano la forza e la potenza della visione, delle immagini che si creano nella mente dell’artista. Tutto quello che vede, anche a vent’anni, passa già attraverso un filtro potente, certamente da raffinare e far maturare; un filtro che però già aveva il potere di fargli capire tutto quello che «cozzava con le abitudini dei miei occhi».
È curioso del resto che in Pulp Roma, l’affaccio dalla suite dell’Hotel Excelsior in Via Veneto, in cui Kurt Cobain tentò il suicidio (a Cobain Pincio aveva dedicato, nel 2002, la fantasmagoria biografica in forma di romanzo Un amore dell’altro mondo) doni allo scrittore la visione della sua Roma (come più avanti scriverà che Blade Runner è stato la sua «Dolce vita»), che si manifesta nella forma di una «strada fantasma». Non si può tacere a questo punto che la riemersa volontà di dipingere si è esplicitata anche nei celebri ritratti di scrittori. Ancora in Ritrai, ti prego, la mia storia si legge un passo illuminante: «In ogni ritratto c’è un fantasma e siccome non si dà un fantasma senza il racconto di una storia, il ritratto è il genere pittorico più prossimo alla scrittura».
È difficile non assecondare i cortocircuiti che sorgono spontanei, e che fanno riferimento all’individuo che in Un amore dell’altro mondo èconvinto di non essere una persona reale; oppure alle forme di mascheramento e travestimento espresse, finanche a livello grafico, in Acque chete; o, ancora, al “falso specchio” dell’autore nel libro dedicato a Caravaggio, Il dono di saper vivere. Resta poi essenziale almeno citare l’attività di scrittura dedicata ad altre immagini: sia sul sito dell’artista, tommasopincio.net, che in alcune sedi in formato cartaceo e online, sono sempre più numerosi i contributi sul cinema che l’artista scrive e decide di condividere. Basterebbe solo leggere anche solo quello dal titolo Vedi ‘Eraserhead’ e poi muori uscito su «Antinomie», per comprendere la complessità della visione pinciana, capace di saldare competenze cinematografiche raffinate anche in merito alla composizione vera e propria delle immagini, all’uso che ne viene fatto, assieme a un’approfondita conoscenza della storia del cinema e dei suoi codici.

Rendendo disponibile e pubblica la sua vita precedente, rinnegandola, recuperandola per cancellarla nuovamente, reinventando il presente e inevitabilmente il passato, Pincio ha compiuto un doppio passo. Non solo, infatti, più il tentativo di cancellazione procede, più ciò che si intende nascondere è destinato fisiologicamente a espandersi, anche solo come contenuto psichico (e i tentacoli di questo prolungamento arrivano fino ai ritratti più recenti di scrittori); quando l’opera di cancellazione diventa esibita, e promuove un atto di ricerca e scavo, il giro di vite attorno a due identità distinte diventa il prisma di un profilo impossibile da cristallizzare. Questo tentativo di cancellare il passato, insomma, è il modo migliore per affermarlo, dargli credito, fiducia. E quest’operazione di riemersione alla coscienza, di cui le opere letterarie costituiscono testimonianza in atto, è stata garantita e possibile grazie all’intervento di chi, critico letterario e studioso, deve aver intuito che il libro di narrativa più necessario per Pincio fosse proprio questo Scrissi d’arte,un’opera-attraversamento a convergenza di tutte le altre, che ne hanno patito l’assenza, poi sofferto la presenza, infine mutato il segno anche nel nome di un gioco infinito a soccorrere una verità inafferrabile.
L’operazione editoriale di Scrissi d’arte, nel senso più puro del termine, è consistita in ricerche di archivio, recupero e selezione di materiali, infingimenti e nascondimenti, nella messa in gioco di un ripensamento, nell’esplicitare le regole di un gioco falsandone in qualche modo gli assunti di partenza e di arrivo. E ha restituito Tommaso Pincio a Tommaso Pincio. L’enigma principale, quel disarmo esistenziale di partenza e insieme, poi, quasi metodo di lavoro, si è sciolto e risolto nell’aver restituito qualcuno a qualcuno, in un procedere misterioso e scoperto, in un’operazione dichiarata e rinnegata, malcelata, esibita. E queste alterità null’altro sono che non dicotomie da preservare e di cui tener conto, bensì semplici, meravigliose «coincidenze felici». Qualcuno potrebbe obiettare che la frase corretta dovrebbe infine affermare di restituire «Marco Colapietro a Tommaso Pincio»; oppure viceversa. Ma è veramente importante?
Sono citati i seguenti libri di Tommaso Pincio: Un amore dell’altro mondo, Einaudi Stile Libero, 2002; Pulp Roma, il Saggiatore, 2012; «Mario Esquilino», Acque chete. Sillabario delle basilari possibilità di esistere, nell’interpretazione di Tommaso Pincio ed Eugenio Tibaldi, «Mirror», 2014; Scrissi d’arte, «fuoriformato» L’Orma, 2015; Il dono di saper vivere, Einaudi Stile Libero, 2018.
In copertina: Tommaso Pincio, Sfere celesti