Un minuto e il possibile. Franco Vimercati e il tempo fotografico

10/12/2020

Sabato 12 dicembre 2020, alle ore 18.00, si terrà la presentazione del volume Franco Vimercati. Un minuto di fotografia, edito da Quodlibet e curato da Marco Scotini, con interventi di Paolo Fossati, Luigi Ghirri, Elio Grazioli, Javier Hontoria, Angela Madesani, Simone Menegoi.

Marco Scotini sarà in sarà in conversazione con Elio Grazioli e Angela Madesani. L’evento avverrà in diretta streaming sulla piattaforma Zoom. Per seguire la presentazione è necessario iscriversi cliccando su questo link .

Il volume viene presentato in occasione della mostra personale che la Galleria Raffaella Cortese di Milano dedica al fotografo Franco Vimercati. La mostra Franco Vimercati. Un minuto, a cura di Marco Scotini, è aperta fino al 23 gennaio ed è visitabile su appuntamento presso la galleria, oppure anche anche online.

Qui di seguito un’anticipazione del testo di Marco Scotini.

La dinamica dell’inanimato

La Jetée, Il gusto del saké, L’anno scorso a Marienbad, Trop tôt, trop tard, Lo specchio.

I film che mi hanno riguardato sono stati quelli che più hanno abbandonato l’idea di movimento, che più hanno cercato di sottrarsi alla successione del corso (empirico) del tempo. Film, cioè, che hanno opposto una tenace riluttanza a quel vincolo causale che prolunga sempre un piano in uno successivo, registrando uno spostamento di elementi da un punto ad un altro sulla stessa linea e secondo la stessa direzione. Rovesciare la subordinazione del cinema all’idea di azione e movimento ha significato liberare il tempo da quella limitazione cronologica che lega necessariamente un prima a un dopo – per cui il presente succede, senza eccezione, a un passato implicito e anticipa un futuro che lo attende.

Carattere comune a tutti questi film è quello di aver rallentato o fissato il passaggio del tempo, di essersi attardati sul fotogramma, lasciando emergere le stratigrafie temporali, le sue genesi sensibili, le sue aperture possibili. In sostanza, un cinema che si è ostinato a sostituire il tempo come tale (la sua immagine diretta – direbbe Deleuze[1]) al movimento, che ha ridefinito se stesso a partire dalla fotografia, avvicinandosi dunque alla natura di quest’ultima: al suo modo di essere statico, temporalmente discontinuo, puntuale.

Inversamente (ma in modo coerente, credo) le foto che mi hanno maggiormente guidato attraverso la comunità delle immagini si ponevano tutte ad una certa distanza dalla virtù dell’istantaneo: da quella cattura del “momento decisivo” rincorso da Cartier-Bresson come massimo raggiungimento del fotografo. Una certa adesione alla durata temporalizzata e al modo di essere del cinema era il tratto specifico di queste foto. Non sto pensando al carattere replicativo degli stereotipi hollywoodiani degli Still di Cindy Sherman o ai set cinematografici di Jeff Wall. Tanto meno alle messe-in-scena di Gregory Crewdson o di Hubbard/Birchler. La fotografia che, qui, è in gioco è quella che aspira ad una durata, che lascia apparire una continuità nel suo svolgimento interno. Così come rende visibile una sorta di evoluzione temporale che si raccoglie su se stessa, si stratifica. Un tempo che si condensa, in sostanza. Intendo, con tutto questo, fare riferimento piuttosto all’immagine sorta dai tempi lunghi dell’esposizione nelle prime prove fotografiche (William Fox-Talbot, David Octavius Hill, Eugene Atget, August Sander), per cui i soggetti fotografati “crescevano insieme e dentro l’immagine”[2], secondo la felice espressione di Walter Benjamin. Così come alludo a certe sequenze a matrice concettuale degli anni Settanta (Douglas Huebler, Duane Michals, Jean Dibbets, Bernd e Hilla Becher) dove una sola immagine e isolata (per quanto decisiva) non è più sufficiente ad un’indagine sulla realtà nel campo fotografico.

Punto di fuga di entrambe le posizioni (quelle di certo cinema e di certa fotografia) è di situarsi nel tempo e contro il tempo, in favore di un altro tempo (possibile, potenziale). Da un lato, facendo resistenza allo scorrimento delle immagini dove il passato scompare comunque dal presente, senza conservarsi in esso. Dall’altro lato, recalcitrando all’idea di arresto, di ostruzione del tempo, per cui l’atto fotografico cerca irriducibilmente di vitalizzare, dinamizzare l’immobilità dell’istante, di farlo durare. Da non confondere con quell’idea per cui l’istante viene mummificato e, come tale, preservato per sempre: “come nell’ambra il corpo intatto degli insetti di un’era trascorsa”[3] – potremmo dire con André Bazin.

Mentre sto cercando una sintesi possibile tra queste tipologie d’immagini (per fissare il luogo provvisorio del loro punto di contatto) mi rendo conto, però, di non parlare altro che di un solo fotografo, di un unico artista, attorno a cui tutto questo discorso non cessa di ruotare. Un vero e proprio maestro del paradosso del tempo, il paladino di un’autentica politica dell’attenzione: Franco Vimercati.

Franco Vimercati, Esposizioni multiple, 1999-2020
Series of 5 photographs, gelatin silver prints, 30,5 x 24,5 cm each, Ed. 6
Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati, Photo: Archivio Vimercati

Perché non si può accostare il corpus fotografico di Vimercati senza essere costretti a interrogare la sua procedura temporale con lo stesso rigore, la stessa intransigenza che l’autore ha mostrato lungo tutta la sua attività. Ma anche con la stessa magia, lo stesso incanto per il miracolo della fotografia: quello per cui la luce o, meglio, “le luci”[4] fissano un’immagine su una lastra. Isolato (per vocazione e destino), schivo e riflessivo, Franco Vimercati fa dell’atto fotografico un gesto radicale di misurazione del tempo che lo colloca tra gli artisti concettuali più rigorosi e originali in Italia e non solo. Rimasto fedele, senza mai allontanarsene, all’austerità e all’inflessibile ascetismo degli anni Settanta, Vimercati continua a sviluppare – per trenta anni – il modello della serie e della sequenza fotografica, rifuggendo dallo statuto dell’immagine unica come immagine autonoma e autosufficiente, sottratta a quell’infinità di relazioni che fanno di ogni momento un composto di piani molteplici, stratificati e concatenati in ripiegamenti appena differenti e produttori di senso. C’è in Vimercati l’ostinazione a concentrarsi sul tempo riducendo tutto il superfluo: non un colore oltre il bianco e nero, non un soggetto interessante, non il virtuosismo della composizione, non un obiettivo fotografico diverso, non l’aneddotico. Ma ancora: nessuno psicologismo, nessuna rappresentazione, nessuna inquadratura che non sia canonica, nessun esercizio di stile. In sostanza: “niente oltre allo scatto”[5].


Franco Vimercati, Vaso (o Le Temps retrouvé), 1982
Series of 6 photographs, gelatin silver prints, 26 x 26 cm each ,Ed. 9 + 3AP
Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati, Photo: Archivio Vimercati

Quella di Vimercati non è una fotografia di oggetti, nonostante tutta la letteratura critica che è stata dedicata ai suoi referenti prosaici e domestici (dalla brocca al vaso, dalla moka alla zuppiera). Piuttosto è una fotografia di eventi, di metamorfosi minimali e marginali, di avvenimenti che sfuggono al controllo. Non un catalogo di cose ma un archivio del tempo.

Non si tratta di perpetuare con l’atto fotografico ciò che è avvenuto una sola volta ed è irreversibile, ma di dilatare e moltiplicare gli stati del tempo, per cui non c’è mai un fare ma sempre e solo un rifare[6]. Senza inizio né fine. Senza progressione né arresto, ma come ripetizione di ciò che preesiste, come un continuo differire nell’uguale. Sarà un caso, allora, che un raffinato osservatore come Ghirri vedesse in Vimercati non solo l’autore per eccellenza di un “tempo illimitato e dilatato” ma anche lo strenuo sostenitore di una “dinamica dell’inanimato”? E così constatava: “Mi vengono anche in mente le sequenze di Muybridge. In queste la possibilità della fotografia di descrivere il movimento nelle sue diverse fasi e figure nei momenti dinamici, e fino allora sconosciuti, in definitiva la scomposizione di un tempo reale in tanti momenti decisivi. In Vimercati ritrovo la stessa ossessione per la precisione, per la sequenza, ma avviene l’opposto: afferrare il momento dinamico in momenti ed oggetti ritenuti statici ed immobili. Non fermare il movimento ma dare dinamica all’inanimato”[7].


Franco Vimercati, Untitled (Sveglia), 1997, Gelatin Silver Print,
30,5 × 25,5 cm; 48 × 43 cm framed, Ed. 12 + 2AP,
Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati

Un minuto di fotografia

Le lancette sembrano fisse sulle 2:46. Il quadrante è quello di una vecchia sveglia da tavolo, a carica meccanica e di uso comune fino a cinquant’anni fa. La foto in bianco e nero che lo ritrae si ripete per tredici scatti, ordinati su cinque registri sovrapposti, ciascuno definito da tre immagini ugualmente distanziate tra loro. Eccetto l’ultima fila in basso (la quinta), che riporta invece un singolo e ultimo scatto della serie.

Ad un primo sguardo tutte le immagini appaiono ferme alla stessa ora e sospese nel tempo[8]. Si ripetono meccanicamente, perfettamente uguali (stessa inquadratura frontale, stessa illuminazione piatta, identica sfocatura dello sfondo). Se non fosse che, ad una visione più attenta e ravvicinata, la lancetta del quadrante più piccolo segna un intervallo di cinque secondi in più a ogni scatto, fino al passaggio di un intero minuto. Per cui la posizione della lancetta nell’ultima immagine risulta uguale a quella nella prima, dove la rotazione appena effettuata si dissolve in quella a venire come in un processo di continuo riazzeramento. In cambio, il grande quadrante della sveglia è avanzato impercettibilmente di una tacca.  Segna le 2:47. Un eccesso di precisione (affilata, puntigliosa, insistente) si staglia su un vuoto che per l’osservatore è difficile colmare. Come un minuto “senza importanza”, dove nulla accade, tranne lo scorrere dei secondi, può diventare il segno di un tempo denso e illimitato? Piuttosto che l’attestazione di “ciò che è stato” o dell’“io ero là”[9] non è in gioco, qui, il teatro dell’indecidibilità tra ciò che sta accadendo di fronte a me e tutto il possibile, tra l’attuale e il virtuale? Se è vero che l’opera prima di un autore non è tanto quella che precede tutti i suoi lavori quanto quella che ha il destino di anticiparli, Un minuto di fotografia (1974) è il vero esordio di Franco Vimercati. Ma che cosa succede in questa decostruzione fotografica dell’unità elementare del tempo? Come l’estensione (la spazializzazione) della serie di immagini, nel suo layout, può rendere conto dell’intensità di un processo? In che modo l’istante della fotografia può non opporsi alla durata reale? E perché partire dal tempo astratto e dal suo limite cronologico per appurare il carattere incommensurabile della durata esistenziale? Con Un minuto di fotografia Vimercati sembra rispondere alle aporie di Bergson. “Quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio – scrive il filosofo francese nel Saggio sui dati immediati della coscienza – il movimento della lancetta che corrisponde alle oscillazioni del pendolo, non misuro la durata, come potrebbe sembrare: mi limito invece a contare delle simultaneità, cosa molto diversa. Al di fuori di me, nello spazio, vi è un’unica posizione della lancetta e del pendolo, in quanto non resta nulla delle posizioni passate. Dentro di me, si svolge un processo d’organizzazione o di mutua compenetrazione dei fatti di coscienza, che costituisce la vera durata”[10]. Nella sequenza fotografica di Vimercati l’immagine del ‘tempo che segue’ non scaccia quella del ‘tempo che precede’ ma coesiste con essa. Un’immagine non rimpiazza l’altra (come nello scorrimento della pellicola) ma si colloca accanto all’altra, si allinea, si moltiplica e si stratifica fino al punto di dare l’impressione che nulla, in fondo, si muova. Eppure, per un originario e imprescindibile connubio tra temporalità e fotografia, questo ridotto inventario d’immagini rende evidente (pur nella sua difficoltà percettiva) che niente nel tempo rimane lo stesso. In quest’opera il tempo si sdoppia in immagine attuale e immagine ricordo, in zona di omogeneità e di differenza, in cosa (la sveglia immobile) e in progresso (il movimento), in estensione spaziale e in potenza inestesa. Nonostante Vimercati condivida con certi rappresentanti dell’arte concettuale della sua generazione, che fanno uso della fotografia, soggetti e temi autoriflessivi che si concentrano sul medium, vanno sottolineate delle differenze rivelatrici. Se da un lato nella riduzione tautologica degli anni Settanta, rullini, orologi e macchine fotografiche si fanno oggetto della fotografia, dall’altro lato la sequenza in Vimercati non ha mai un carattere unidirezionale come, al contrario, si incontra negli altri artisti. Se mettiamo a confronto Un minuto di fotografia di Vimercaticon 60 Seconds of Light (1970) di John Hilliard e la visualizzazione di un minuto che è al centro di Tempo Reale (1975) di Laura Grisi, ne capiamo lo scarto. In tutti e tre casi sono sempre le stampe di un orologio a definire l’immagine (un orologio da camera oscura nel caso di Hilliard e un cronometro nel caso di Grisi), tuttavia negli ultimi due l’avanzare del tempo viene enfatizzato attraverso sovraesposizioni e passaggi di luce, effetti Marey-Muybridge, assenza di soluzioni di continuità, formati rigorosamente lineari. Ma per comprendere pienamente la peculiare concezione del tempo che le opere di Vimercati, a questa data, mettono in forma dovremo soffermarci ugualmente su un’altra fondamentale sequenza fotografica definita dai trentasei scatti di Bottiglie d’acqua minerale (1975).


Franco Vimercati, Senza titolo (Zuppiera), 1991, Gelatin silver print, 17,7 × 22,5 cm, Ed. 6 + 3AP, Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati, Photo: Archivio Vimercati

Anche qui, Vimercati opera in maniera anonima e impersonale, mettendo da parte la rivendicazione ingombrante dell’“io”, così come nel caso del lavoro appena analizzato. Se c’è un ulteriore motivo che ci permette di considerare Un minuto di fotografia come un’opera prima, perfino rispetto all’eccellente corpus fotografico Sulle Langhe (1974) che è pure ad esso anteriore, questo è perché Vimercati cerca di sottrarsi a quel duplice residuo di autorialità e psicologismo che in quel lavoro era ancora rimasto. Il residuo, cioè, dell’artista che – nonostante un approccio sistematico alla Sander – ha ancora una pretesa documentaria su un soggetto interessante (come possono essere i gesti e gli sguardi dei contadini e lavoratori langaroli catturati, uno alla volta e immobili, all’interno del loro ambiente). E quello del soggetto fotografato (la sua automatica trasformazione in oggetto e le aspettative che in ogni foto-ritratto “vi s’incontrano, vi si affrontano, vi si deformano”[11]). Lo sforzo ostinato di Vimercati è quello di lasciar determinare il contenuto dell’opera da un dispositivo ad essa esterno che possa guidare come procedura autoregolativa l’atto fotografico, che già, in quanto tale, è autonomo e indipendente dal soggetto. Avverso ad ogni velleità spontaneistica rispetto al mezzo, Vimercati opera un continuo e instancabile disapprendimento di tutte quelle convenzioni che risultano surcodificare l’immagine fotografica. Senza mai uscire da essa: “da ciò che la fotografia è e può”[12].

Così come in Un minuto di fotografia è la stessa unità di tempo a determinare la sequenza in tredici scatti, in Bottiglie d’acqua minerale sono le trentasei pose del rullino a porre dei limiti alle modalità costruttive dell’opera, “lasciando persino stabilire alla Kodak la quantità di immagini da realizzare”[13]. Limiti fisici che Vimercati trova tutt’altro che restrittivi: addirittura liberatori, più produttivi e più generativi di qualsiasi concezione strutturale che riproponesse criteri compositivi e relazionali interni all’opera o ancorati all’idea di un io individuale. In fondo, come afferma Raymond Bellour: “la sequenza è, nella fotografia, la distorsione più naturale […] che si possa infliggere alla sua presunta essenza”, perché un rullino di pellicola “non è altro che una sorta di sequenza programmata”[14]. Ecco che allora l’opera Bottiglie d’acqua minerale sembra partecipare della natura infinita e seriale della lista piuttosto che della sequenza temporale, quale di fatto è. Le immagini in bianco e nero di trentasei bottiglie d’acqua tutte uguali e della stessa marca, appaiono meccanicamente una accanto all’altra, frontalmente e per intero sotto la stessa luce omogenea, contro lo stesso sfondo bianco, colte con una definizione maniacale, fredda, quasi fiamminga. Potrebbe trattarsi dello stesso negativo stampato trentasei volte ma, all’opposto, le bottiglie sono fotografate una ad una e sempre con la macchina sul cavalletto. Se questo lavoro si può considerare una straordinaria messa in forma del tempo, ciò non si deve soltanto alle sottili differenze nell’uguale, che un occhio attento può percepire, ma anche all’originale idea di ripetizione che lo definisce (e che rimarrà tale in tutte le sue opere successive). Non è un caso che una delle fonti del lavoro sia stata proprio la foto che fa parte delle Verifiche di Mulas dedicata al tempo fotografico, quella dove si mostra il provino a contatto con le foto dell’opera di Jannis Kounellis per l’esposizione “Vitalità del negativo”. Ma se nell’opera di Mulas c’è ancora un senso di progressione leggibile almeno nella successione dei numeri sotto ogni immagine, nelle Bottiglie di Vimercati non esiste un prima o un dopo anche se c’è vera mutazione, visto che la bottiglia non è mai la stessa. Nel caso si invertissero le posizioni di alcune immagini nella disposizione della serie nessuno se ne accorgerebbe perché in essa un ordine progressivo avrebbe un senso relativo. Se letta in questa prospettiva la temporalità di Vimercati ha piuttosto qualcosa di paradossale (e di magico allo stesso tempo) nel suo modo di concepire le condizioni di possibilità della sequenza fotografica. Non si tratta di più scatti di un unico accadimento, come dovrebbe essere per sua natura, ma di tanti scatti per tanti eventi (come se si trattasse, ogni volta, di una singola immagine) che hanno la virtù di apparire identici tra loro. Così le immagini della serie Piastrelle (1975), come quelle della serie Parquet (1977) propongono un’ulteriore radicalizzazione del concetto, anche perché più spoglie, minimali. Ma pure il ciclo Tele (1976) e Sei fogli di carta carbone (1975-76) insistono sullo stesso progetto. Tutto questo fino a quando, alla fine degli anni Settanta, un solo oggetto di volta in volta – Cartone da latte (1978), Vaso (1976) – comincia a diventare il fulcro di un vero e proprio processo di ripetizione. Toccherà alla zuppiera la sorte di diventare la Montagna Sainte-Victoire di Vimercati che, da sola, l’occuperà per un intero decennio, trasformando il suo autore in una sorta di leggendario maestro orientale.


Franco Vimercati, Un minuto, 2020. Installation view at Galleria Raffaella Cortese,
Ph.Lorenzo Palmieri

La ripetizione e il possibile

“Il vero ‘contenuto’ del mio lavoro è la ripetizione. La ripetizione ostinata, cattiva o assente[15], malinconica o violenta, ma solo e sempre ripetizione. In ogni caso, il non voler dare spettacolo, il non essere accomodante, grazioso, ragionevole. Il non voler proporre quesiti intelligenti, raffinati esercizi di stile. Cerco di essere il più semplice possibile proprio perché la protesta sia il più efficace possibile. Deve essere secca e penetrante come un chiodo senza dispersione di nessun genere”[16]. L’appunto a penna di Vimercati dell’agosto 1991 è esplicito in proposito: la fotografia per il suo autore non è solo un supporto liscio e piatto, un negativo toccato dalla luce. É un campo di battaglia dove si contende l’etica e la politica dell’immagine. Ma qual’è il ruolo che vi gioca la ripetizione? Qual’è il rapporto che la ripetizione intrattiene con il tempo? Diciamo pure, tanto per cominciare, che la coazione a ripetere è ancora tutta interna alla foto, non scorporabile dall’atto fotografico come tale. Gli scatti sono sempre al plurale, in serie. Dunque, non sono tanto gli stessi oggetti a ripresentarsi interminabilmente nell’immagine, anche se nel caso di Vimercati un ristretto campionario di oggetti in effetti non cessa di ritornare.  La brocca, il vaso, il bicchiere, la zuppiera, la Bialetti, la sveglia, la stessa Rolleiflex. Ciò che si ripete è la ripresa: di quell’oggetto piuttosto che di un altro, potremmo dire con Philippe Dubois[17]. C’è un carattere performativo imprescindibile nell’atto fotografico che porta a ricominciare da capo, a rifare il medesimo gesto. “Ogni volta rimettevo l’oggetto allo stesso posto – afferma Vimercati – e lo fotografavo in maniera praticamente identica alla precedente”[18]. Aggiungiamo dunque che la famiglia artistica d’elezione del fotografo milanese è quella degli On Kawara, Roman Opalka, Peter Dreher: tutti artisti ossessionati dal tempo e disposti a convivere più o meno con un solo progetto, una sorta di rituale che, giorno dopo giorno, è ripetuto ad infinitum senza mai essere lo stesso. Quella cerimonia del tè, più volte evocata da Vimercati e in cui – dice – “l’ultima cosa che interessa è proprio il tè”[19]. Ma all’interno della ripetizione c’è ancora un altro aspetto da valutare, oltre a questa dimensione performativa (e certo non disgiunto da essa), che abbiamo lasciato per ultimo. Naturalmente questo aspetto ha a che fare con il contenuto della foto, quale risultato o effetto di quell’atto. Abbiamo visto all’inizio che c’è una certa tangenza in Vimercati tra un tempo che non ammette l’autonomia della foto singola (e che potremmo definire cinematografico) e un tempo più propriamente fotografico che cerca di sottrarre il presente al suo scorrimento. Le sue sequenze fotografiche hanno l’obiettivo di frantumare “la mitica immagine singola”[20] in una moltiplicazione di frammenti temporali di differenza infinitesimale e, allo stesso tempo, di trattenere il passato nel presente innestandolo in una durata che diviene sensibile. Per questo i soggetti d’elezione della fotografia di Vimercati sono tutti caratterizzati dall’immobilità (quali oggetti inerti) e spesso inquadrati sopra uno sfondo marmorizzato. Proprio perché più evidenti appaiano gli stati mutevoli, le differenze marginali di ciò che cambia. Cito Bergson: “Per quanto l’oggetto rimanga lo stesso, e per quanto lo si guardi sempre dallo stesso lato, sotto il medesimo angolo visuale, alla stessa luce, la visione che ne ho differisce tuttavia da quella di un attimo prima; quanto meno perché è invecchiata di un istante. La mia memoria prolunga qualcosa di quel passato in questo presente. Il mio stato d’animo, procedendo sulla via del tempo, si riempie in continuazione della durata”[21]. Le sequenze in Vimercati promuovono una coesistenza di tempi (il presente e il passato come l’attuale e il virtuale) senza che ci sia una direzione né un centro. Se ne Le Temps Retrouvé (1982) abbiamo sei immagini in cui un piccolo vaso di ceramica bianca – con un rilievo plastico sulla pancia e un restringimento nel collo – ha condizioni di luce differenti, sfondi diversi e inquadrature leggermente sfalsate; in Esposizioni multiple del 1999 un calice in una serie di cinque scatti si staglia, fuori fuoco, su un fondo nero che intensifica e diversifica le vibrazioni luministiche del vetro. Il ciclo della zuppiera conta più di cento scatti e le minime varianti non si contano. Ora a fuoco, ora sfuocata, ora più scura, ora più chiara, grande quanto il formato della foto, più piccola, ruotata sul proprio asse a differenti gradazioni, riassorbita dal bianco dello sfondo, campeggiante su un fondo nero da cui si stacca, oppure appena evidente – ciascuna immagine della zuppiera è l’oggetto di una perpetua riorganizzazione. Di fatto non c’è una direzione di lettura nelle sequenze di Vimercati e tutte possono essere seguite da destra a sinistra, dall’alto in basso o viceversa. Non c’è né origine, né termine, né promessa. Non c’è nessun tempo privilegiato, per cui una nuova immagine può nascere in qualsiasi punto di quella precedente. Nessuna necessità interna lega un’immagine all’altra, nessun fuoco le fa convergere. Una proliferazione di mutazioni deboli e invisibili si definisce nelle dimensioni, nel formato, nella luce, nel tono, nella posizione (rovesciata o normale), nelle coordinate, nell’ambiente, nell’inquadratura, nel tempo di esposizione, nella stampa. E se tutto ciò riesce a farsi esperienza diretta del tempo è perché ogni immagine non fa altro che ripetere sé stessa un numero finito di volte, diventa il riflesso di ciascun’altra, si impone come presenza attuale e ricordo di quella che l’ha preceduta, nuova condizione di possibilità di ciò che è compiuto. La grande avventura a cui chiama la fotografia di Vimercati, proprio perché spogliata di tutto e ridotta ai suoi limiti, è quella dell’immagine mai data come definitiva, come assoluta. Ma offerta sempre quale condizione alternativa, possibilità ancora aperta. Comprendere l’etica e la politica che l’opera di Franco Vimercati presuppone significa riconoscere il soggetto contemporaneo come molteplice e decentrato, senza identità né origine, per cui la ripetizione è la sola unità di questo mondo e il mutamento ne è la costante. Il percorso di tale spazio vano e fondamentale è il suo Tao.

Franco Vimercati, Un minuto, 2020. Installation view at Galleria Raffaella Cortese,
Ph.Lorenzo Palmieri

[1] Per le tematiche sul cinema trattate qui cfr Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989

[2] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pp. 59-78

[3] Andre Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica (1945), in Che cos’è il cinema? Garzanti, Milano 1996, pp. 3-10

[4] Franco Vimercati, appunto a matita conservato presso l’Archivio Franco Vimercati

[5] È una citazione da Franco Vimercati in Elisabetta Planca, Vimercati l’Achimista, Arte n. 299, luglio 1998 ora in Franco Vimercati Opere, John Eskenazi Publications, Londra 2012, p.142

[6] L’espressione è di Vimercati in Elio Grazioli. Conversazione con Franco Vimercati, Franco Vimercati Opere, op. cit, p. 125

[7] Luigi Ghirri, Franco Vimercati in Descrittiva. Rassegna internazionale di fotografia contemporanea, Galleria dell’Immagine, Palazzo Gambalunga, Rimini 1984 ora in Franco Vimercati Opere, op. cit. p. 140

[8] L’ora registrata nell’opera è  la stessa che si vede nell’orologio de L’enigme de l’heure (1911) di Giorgio De Chirico.

[9] Entrambi sono definizioni di Roland Barthes ne La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980.

[10] Henri Bergson, Saggio sui dati immediate della coscienza, p.63 in opera 1889-1896 Arnoldo Mondadori editore Milano 1986

[11] Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, op-cit., p. 15 la Foto-ritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi si’incontrano, vi si affrontano, vi si deformano quello che credo di essere, quello che vorrei che si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”

[12] Paolo Fossati, Franco Vimercati, Galleria civica d’arte moderna, Modena 1975, ora in Franco Vimercati Opere op.cit. p.138

[13] Conversazione tra Franco Vimercati e Angela Madesani, Milano 1998 in Verso la purezza dell’immagine. Franco Vimercati. Fotografie dal 1973 al 2001 Arte Stella Edizioni 2008 p. 58

[14] Raymond Bellour, Fra le immagini, fotografia cinema video, Bruno Mondadori, Milano 2007, p.95

[15] Con il termine “assente” Vimercati intende qui una ripetizione passiva, “meccanica”

[16] Franco Vimercati, appunto a penna del 06/08/1991 conservato presso l’Archivio Franco Vimercati.

[17] Philippe Dubois, L’atto fotografico, QuattroVenti, Urbino 1996, p. 150.

[18] In Elio Grazioli. Conversazione con Franco Vimercati, op.cit., p.123.

[19] Franco Vimercati, ivi, p. 120.

[20] Franco Vimercati in Fotografia come analisi, catalogo mostra omonima, Città di Torino, 1977.

[21] Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, pp. 7-

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Franco Vimercati. Un minuto
a cura di Marco Scotini
Galleria Raffaella Cortese
Via Stradella 7-1-4, Milano
Visitabile dal martedì al sabato, dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19.30, su appuntamento.
fino al 23 gennaio

Immagine di copertina: Franco Vimercati, Senza titolo (Piastrelle), 1975-2020
Series of 6 photographs, gelatin silver prints, 27,5 x 27,5 cm each, Ed. 6
Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati

Marco Scotini

(1964) è Direttore Artistico di FM Centro per l’arte contemporanea, Milano, e Responsabile del programma espositivo del PAV, Parco Arte Vivente, Torino. È Direttore Scientifico dell’Archivio Gianni Colombo e dell’Archivio Bert Theis e dal 2019 è membro dell’Italian Council. Dal 2004 è Arti Visive Department Head di NABA. Dopo numerose collaborazioni con istituzioni artistiche internazionali (Van Abbemuseum, Eindhoven, Documenta, Kassel, MAXXI, Roma, SALT, Istanbul, Castello di Rivoli), ha curato il Padiglione dell'Albania alla Biennale di Venezia (2015), co-curato la prima Biennale di Anren in Cina (2017) ed è stato Direttore Artistico della 2nd Yinchuan Biennale (2018). Tra le pubblicazioni più recenti: Utopian Display. Geopolitical Curating (Quodlibet NABA Insights, 2019), Politiques de la Végétation (Eterotopia France, 2019), Artecrazia (DeriveApprodi, 2017).

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