Sei autori in cerca di personaggi

Se undici anni vi paion pochi… Nell’ottobre del 2009 usciva – numero 24 di fuoriformato, collana allora pubblicata da Le Lettere e tre anni dopo migrata nelL’orma: dove si è spenta nel 2018, dopo 41 titoli complessivi, con un titolo negli auspici ottimistico e ora amaramente ironico, Il viaggio continua di Franco Beltrametti – Prosa in prosa, oggi riedito dalle edizioni Tic (pp. 183, € 19) come primo titolo della nuova collana «Legend», diretta da Michele Zaffarano e dedicata a «ripubblicare classici contemporanei».

Zaffarano, che firma anche il progetto grafico della collana, è uno dei sei autori allora autoantologizzatisi: insieme ad Andrea Inglese, Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale e Andrea Raos (in questa successione erano e sono elencati in copertina, con Zaffarano in quinta sede). I testi sono i medesimi di allora, come invariato è il «Fotoromanzo» conclusivo: cioè le «504 illustrazioni in bianco e nero nel testo» che compongono le diciotto ultime pagine del testo e la cui menzione è il suo sottotitolo, o meglio il completamento del titolo. Mutato è invece, a distanza di tempo, l’apparato paratestuale (essendo il primo titolo di «Legend», ignoro se tale caratteristica grafica sia format di collana o viceversa alluda solo alla riproposizione di questo titolo specifico, ma il frontespizio impagina “a specchio” – dunque strutturalmente rovesciati – titolo, (sotto)titolo, elenco degli autori ed elenco dei paratesti). Cambia l’immagine di copertina, che nel 2009 era una fotografia di Marco Giovenale ora interpretata in forma “fumettistica” da Enrico Pantani (mentre l’immagine di partenza, solarizzata e in tal modo “spettralizzata”, è riprodotta in seconda e in terza copertina – mentre nel 2009 questi spazi ospitavano versioni a colori delle immagini in bianco e nero del «Fotoromanzo») e cambiano, prolungati/sostituiti a distanza di undici anni, i paratesti. Allora figuravano una prefazione di Paolo Giovannetti e una postfazione di Antonio Loreto, opportunamente conservate; si aggiungono ora una meta-prefazione di Giovannetti e una meta-postfazione di Gian Luca Picconi; si dilegua invece misteriosamente – o forse a sua volta “spettralmente” – la quarta di copertina, nel 2009 firmata dall’ideatore e direttore di quella collana, che è poi chi firma la nota che state leggendo.

Tanto in præsentia Giovannetti che in absentia il sottoscritto, in ogni caso, non possono che partire dalla verifica delle rispettive ipotesi di lavoro d’allora. Scrivevo nel 2009 che «L’abitudine che ci fa usare la dizione da manuale, poesia in prosa può far dimenticare come essa, in realtà, segni un paradosso […]. Posizione ambigua e anche scomoda: troppo ‘asciugata’ dal poetico per i lettori di poesia […]; troppo autoreferenziale e ‘lavorata’ – troppo ‘poetica’, insomma – per coloro che della prosa ammettono un’unica specializzazione merceologica, quella della narrazione (e diciamo, anzi, direttamente la fiction). | Eppure la prosa come forma del limite è stata una delle poche vie di fuga che abbiano consentito alla nostra scrittura poetica, negli ultimi decenni, di non rinchiudersi nel repertorio di se stessa». Aggiungevo che «quanto meno subliminalmente, l’espressione prosa in prosa rinvia poi al concetto di traduzione: un ‘contenuto’ in sé poetico, che verrebbe ‘trasposto’ in prosa, Ma se il ‘contenuto’ è già prosastico, qui, che cosa viene in effetti ‘tradotto’?».

La risposta che davo allora, e che valida – confesso –  mi pare tuttora, allude alla dimensione iconotestuale, allora moderatamente bizzarra e oggi invece – a differenza di altri suoi caratteri, come vedremo fra poco – fattasi quasi mainstream. Se la prosa in prosa – riprendevo qui una notazione intelligente, come sempre, di Loreto – «ha qualcosa del ready-made», la sua scrittura anziché sovraccaricarsi di effetti ‘stilistici’ (i quali la esporrebbero al rischio della «prosa d’arte», dai prosimprosi evitata come la peste) si détourna mediante l’isolamento di ‘immagini’, più o meno virtuali, che spostano sottilmente il suo senso: «Basta incorniciare l’oggetto, come ha insegnato appunto Duchamp, per fargli dire qualcosa di diverso – e inatteso. Qui piuttosto lo si ‘inquadra’: e non stupiranno allora, i frequenti riferimenti all’universo dei media visivi, dalla fotografia allo schermo del computer. | Così facendo si segnalano, nella prosa del mondo, una serie di mutamenti inavvertiti. Come in un certo gioco enigmistico, ci accorgiamo d’improvviso di dettagli incongrui, particolari inquietanti. E finiamo per capire, insomma, come qualcosa nelle nostre vite sia da tempo mutato: a un livello microscopico, magari, ma con conseguenze non meno che catastrofiche».

Undici anni fa questo libro – lo ricorda Picconi – fu più discusso che letto; e forse è questa la sorte connaturata ai libri a torto o a ragione percepiti ‘di rottura’, più che ‘di proposta’. In realtà quella di Prosa in prosa mi sembrava – e mi sembra – una terza via. Quella di un’interrogazione, una messa in questione appunto, di convenzioni e statuti mediali il cui uso lungo e pervasivo ce li ha resi inavvertiti, come l’acqua per i pesci nel famoso apologo di David Foster Wallace («che cos’è l’acqua?»). E se è vero che lo statuto di Prosa in prosa ci appare perfettamente inattuale, per il gusto e anzi il senso comune oggi vigente (la dittatura dello «storytelling», in prosa, e in poesia la restaurazione della buona vecchia «lirica» – cioè di quella sua contraffazione che è il «poetese» di sanguinetiana memoria –, come sintetizza Giovannetti con precisione, anche se non capisco con quanta criticità: se è vero che dei modi neolirici non pare possa dirsi fautore chi ha scritto La poesia italiana degli anni Duemila, Carocci 2017, mentre allo «storytelling» non parrebbe così avverso l’apologeta del «consumo» e dei processi «bottom-up» del web che interviene, provvedendo en passant a liquidare i «fantasmi ideologici del Novecento», in L’estremo contemporaneo, Treccani 2020), non meno inattuali apparivano undici anni fa. Quella di Prosa in prosa era ed è, scrive Picconi, «una proposta massimalista» – e tanto più sovversiva proprio per il suo esibito “minimalismo” stilistico. Tale che, «nel contesto attuale, non è nemmeno ripetibile, ma solo, in qualche modo, citabile, come tenta appunto di fare la presente edizione». Ma i paradigmi di undici anni fa, dicevo, non sono meno vigenti undici anni dopo. Lo sono ancor di più, semmai. E tanto più necessaria, ancorché destinata a restare unanswered question oggi più di allora, sarà la loro attuale ri-messa in questione.

Opportunamente Picconi riporta i capitoli di poetica anni Novanta di Jean-Marie Gleize (dati invece allora, snobisticamente, per scontati), dai quali proveniva non solo il titolo del libro: la «semplificazione lirica» della sua prose en proses si valeva di «una prosa letterale semplificata, astratta e sottratta alla rappresentazione, dereferenzializzata». Corollari di questa opzione, pur nella (inevitabilmente soggettiva, per via di contrasto: una cosa è la prosa in prose – si noti il plurale – di un unico operatore come Gleize, un’altra la prosa in prosa proposta da sei autori diversi) differenziazione degli autori – i quali infatti, da allora, si sono mossi in direzioni diverse fra loro – si rivelano la messa fra parentesi dell’io (opzione di lungo corso, questa, nella genealogia della «poesia di ricerca»: non solo ma specialmente in quella italiana), l’attenuazione del cadrage spazio-temporale e del frame ideologico degli enunciati, in generale insomma il situarsi in quella che in seguito verrà chiamata «non assertività» (della quale non a caso lo stesso Picconi è attento descrittore: cfr. il suo La cornice e il testo. Pragmatica della non assertività, pubblicato a stretto giro dal medesimo Tic). La quale però – come si vede con chiarezza dall’etimo di Gleize – non esautora affatto l’ipostasi ‘lirica’. Dice bene Picconi: «non il capovolgimento del lirico, ma la sua neutralizzazione»; cioè, aggiungo io, il suo spostamento. Dove se parliamo di neutralizzazione alludiamo all’accamparsi sulla scena del testo (scrivevo nel 2013) di una «soggettività neutra»: nell’accezione di Maurice Blanchot.

Che è anche un gesto politico, certo: e infatti non c’è dubbio che i sei oggi incanutiti e/o stempiati prosimprosi fossero accomunati, dice Picconi, dall’intento di «formulare una nuova ipotesi di letteratura liberata da certe forme storiche del dominio». Ed è qui che si contano, senza sconti, gli undici anni trascorsi. Se infatti tale ambizione aveva già nel 2009 un valore di provocazione (il côtédestruens” che le venne allora attribuito), nel 2020 ha piuttosto il retrogusto di un rimpianto autofustigatorio. L’autoparodia fumettistica della foto di copertina, e più ancora la sua spettralizzazione, a questo allude: con la post-crepuscolare ironia delle rose che non cogliemmo, se vogliamo, ma soprattutto l’amarezza pungente del sogno di una cosa constatata non solo irrealizzabile – il che era già allora perfettamente chiaro – ma neppure concepibile (ma invece solo «citabile», appunto). Nota Picconi l’aspetto ‘generazionale’ di un concept album che riuniva autori nati fra il ’67 e il ’73 (‘finestra’ cui non appartengono né il prefatore di allora e meta-prefatore di oggi, né – in opposta eccedenza – il postfatore di oggi; mentre è la stessa del postfatore di allora, nel frattempo dileguatosi a sua volta; e io sono del ’68). Frutto certo di convivialità e parlamenti che per loro natura riuniscono più facilmente coetanei (e con-generi, aggiunge Picconi). Ma che non a caso coincide pure con l’orizzonte ideologico comune a chi, nella sua età di formazione, ha vissuto il venir meno di un sogno di cambiamento, surrogato e denegato da altri e catastrofici cambiamenti: di segno opposto, si capisce, ma non meno radicali di quelli in cui hanno fatto in tempo a credere i nostri fratelli maggiori.

Andrea Cortellessa


Intimorito dal crepuscolo (Due film. Uno)

di Andrea Raos

007. Tomorrow Never Dies, visto oggi, 17 dicembre 1997, primo giorno di uscita nelle sale – almeno qui, in questo paese, in questa città.

questo film è diretto da Roger Spottiswoode, che probabilmente firma qui il suo capolavoro, un classico, straziante esempio di anello che non tiene nelle maglie del sistema che al tempo stesso riafferma l’impossibilit­à di uscire dal sistema stesso.

Spottiswoode è un regista statunitense piuttosto famoso, aveva diretto nel 1983 quello splendido film che è Underfire, apologo sull’impegno politico e sul ruolo dell’informazione. qui, benché la sceneggiatura non sia sua, egli sembra tornare all’antica ossessione attaccando di petto il sistema malato del giornalismo audiovisivo tramite la solita figura del miliardario pazzo che manipola il mondo via satellite – a questo proposito, lo dico per inciso, ricordo in un altro James Bond di molti anni fa un malvagio Klaus Maria Brandauer semplicemente luminoso, assolut­o: la nullità degli altri attori, la schifezza del film nel suo complesso lo rendevano irradiante di una forza magica che non gli ho mai ritrovato in altri lavori di migliore fattura, mai perlomeno con la stessa accecante evidenza (doveva essere, se la memoria non mi inganna, uno degli ultimi con Roger Moore, c’era davvero quest’aria da fine dell’impero).

tornando a Spottiswoode, come è naturale il sistema blandamente attaccato è lo stesso che foraggia il film, il che nella storia, in un certo senso, è detto a chiare lettere.

e c’è un personaggio a dir poco straordinario, in questo Tomorrow: è lo scienziato che offre al pazzo il proprio sostegno tecnologico, un ex-professore di Harvard, contestatario negli Anni Sessanta, che passata l’epoca delle illusioni egalitarie ha deciso di vendere il proprio genio informatico al miglior offerente.

quale più adatta controfigura del regista stesso – e non solo di lui – di questa parodia malvagia del grande Unabomber? veramente Spottiswood­e si vendica di chi facendogli girare 007 lo rende ricco, e lo fa suicidando­si nella persona del sessantottino scoppiato. costui nel film parla pochissim­o e non fa granché, a rifletter bene la sua presenza non sarebbe affatto necessaria, l’evoluzione della storia non lo giustificherebbe: il che significa che è stato messo lì soltanto per morire, per far morire l’essenza del traditore – naturalmente giustiziato dal suo stesso acquirente, perché noi tutti amiamo il tradimento ma non colui che – e mettere in mostra il cupio dissolvi di chi non ha saputo cambiare le cose (le cose… cos’avevo letto in Holzwege che si attagliava così bene a un film del genere?). insomma, Spottiswoode processa sé stesso, l’ex-autore impegnato – ma già spettacolare, non dimentichiamolo, il veggente tutto conosce tranne di creare da sé il germe della propria morte – che credeva di poter piegare le leggi del mercato, che credeva fosse possibile, in queste condizioni, dire, dire cose.

addio Roger, puoi pure andare ora, ti abbiamo amato, hai cercato di essere giusto tanto che lo fosti forse per un attimo, prima di ridiventare uomo e quindi cieco, addio… ricordi le ultime parole del coro, nell’Œdipus Rex?

alla fine del film il capo di Bond si appropria degli stessi metodi di disinformazione del nemico al fine di celare – per ragioni che allo spettatore non è dato capire – la verità sulla morte di questi, tutto torna nell’ordine perché le leve dell’oppressione tornano in grembo ai vecchi feudatari, strappate dalle mani incivili, lorde di un sangue troppo fresco del giovane magnate rampante… di conseguenza l’ultima scena, cioè finalmente il bacio fra 007 e l’eroina della storia, la sua omologa cinese – nella realtà una malese, che lavorando nel film si fa schiava quindi a un tempo del suo oppressore potenziale, la Cina, e di quello concreto, il Sistema Imperialista delle Multinazionali – all’improvviso si sgrana, diviene sognante e perlata, diventa spot pubblicitario. si torna alla realtà, insomma.

ma Spottiswoode tenta di riscattarsi con la morte come in Dune il dottor Wellington Yueh, « un nome disonorato dal tradimento ma illuminato dalla sapienza », la sua vendetta è duplice: così come io la vedo, così come vorrei che fosse, è contro sé stesso ma anche contro chi arricchendolo lo affama: perché nei rari salti di montaggio che la produzione gli ha concesso, egli è riuscito per esempio a infilare una folla multicolore e preoccupata dalla vita, oppure un anziano che scrive tranquillamente seduto a un tavolino mentre passa rombando la potente moto dell’eroe con la marca bene in vista, oppure un bambino lacero che gioca accanto a una barca tirata in secco su una spiaggia giallastra… soprattutto, mentre in una casa di Saigon l’azione è al suo acme, in un brevissimo istante che almeno a me ha mozzato il fiato, per la prima volta si intravede, esposta allo sguardo infoiato di soldi dell’Occidente e a esso indifferente, le spalle nude e frementi, una giovane, stupenda vietnamita che finalmente sorride.

il che non corrisponde al vero.


Wunderkammer 16

di Michele Zaffarano

Tutto può essere un’altra cosa. La realtà è un’altra cosa. Quel che si vede è quel che non si sa, un ritrovamento casuale, un approdo a forme assenti, a varianti polifoniche, a riferimenti incrociati. E l’assenza è squilibrio, difetto, origine. Quando si esprime, le cose possono svilupparsi seguendo i moti di elementi intesi dentro all’ordine del linguaggio e i tasselli di copertura manifestano qualcosa di originario, qualcosa che fa difetto, una mancanza, una particolare rappresentazione del concetto di assenza. Devi sforzarti di scrivere: smeraldo tra i capelli color di carota, e di scrivere: sono arrivati come una rosa, si sono mostrati come una rosa si mostra. Sbaglia colui che ammette, oppure vuol far credere, di essere di fronte a previsioni sicure. Devi scrivere: venite, venite, stanno sfondando il portone. Devi scrivere che qualcuno scrive: una grande fascia verde. Ma è tanta la notte e molte sono le chiacchiere, l’atmosfera si surriscalda e i modi di dire duplicano il problema, l’asfissia, le soste negli hangar, i falsari opposti con disciplina agli apprendisti. Rispetto a chi ha tinto il blocco di nero, una relazione speciale intercorre attraverso la fendi­tura, attraverso la perdita di ogni possibile. Il sicuro sdoppiamento della personalità sarebbe allora ottenuto, da una parte, come compimento dei contenuti, e, dall’altra, come risultato del pratico opporsi a un esilio non più simbolizzabile. L’origine, la provenienza, il principio possono far ruotare le riflessioni durante le età ingrate, ma teoricamente le posizioni da cui si scrive sono in perenne migrazione. L’urgenza assume voce e forma, e forma il dolore. Devi imparare a scrivere: si intuisce l’effetto del furore e della collera meglio di quanto non lo si comprenda. Devi imparare a scrivere: esso rende in modo semplice tutti i piccoli misteri interrogativi. Non siamo costretti a parlare, non siamo costretti ad ascoltare. Rimane la questione su che cosa implichi il corpo. Passare, deve passare per l’introiezione, e tante sono le note quanto inesausta la sua furia. Ma quanto può dare affidamento uno strumento tecnico? È consentita la fermezza qualora se ne dimostri l’inutilità, qualora sia fondata l’impossibilità stessa del suo darsi? O quando venga svelata l’intimità fra il suo dolore e la sua ripartizione, la sua riluttanza alla costruzione di un sé epic­o? Bisognerebbe saper scegliere quello più compatibile. Devi scrivere, come esempio: una luce all’uscita del tunnel, gli stregoni che aspettano al varco, un’ansia tale da non permettere più un’esplicita resa politica. Scrivendo, devi imparare a chiedere: come ci si esprime in questi casi?


Verso il certo

di Marco Giovenale

vuole viaggiare e rendersi utile, vuole passare nel corridoio, è appena passato, è molto gentile e aiuta la signora bionda agée a «salire» la valigia, il fiume che il treno taglia è molto impetuoso e questo impeto raffigura l’animo umano, l’animo umano ha scalato le montagne in immagine e costruito non solo grandi blocchi di cementite odontogenica che al primo caldo la natura possente sbriciola, ma anche le marche delle valigie da cui discendono dei quadri viventi che vengono trasmessi a distanza nelle case delle persone, lui vorrebbe essere nelle case delle persone, a volte, come evtušenko in qualche sua pagina interminabile, vorrebbe perfino essere quelle persone stesse, non alcune ma tutte, vorrebbe essere tutti, e risparmia l’elenco, dice prego alla signora che si ravvia i capelli come lui, come nei corridoi sono scostumati i soldati mentre per chilometri e chilometri nei magazzini fuori parma si accumulano i bomboloni in file, forse più precisamente le tranciatrici a vite, la robinia che è invasiva pervasiva, di’ pure un po’ perversa, l’influenza tra febbraio e ferragosto, il passaggio alla vettura successiva vede un incremento della buona volontà ormonale e un moto dallo stato caldo allo stato freddo, con caduta del desiderio, scissione dei flussi della bile nera, radio accesa sul quasi dell’inter, da un foro, domenica, nella tratta che induce il tunisino muto a lasciare un foglietto che spiega la sua situazione sui sedili di tutti senza ottenere, o senza avere che mutismo a specchio, all’esterno la pianura verso l’iseo dà il piccolo aereoporto toroidale per eredi sevizianti, una casotta rossa allungata, cascine mono, pestate in due piani, uno stabilimento a pile, altre stazioni beta, il grasso accumulato sui polpastrelli, la mancanza di un vero motivo, il fatto di aver fatto alcune cose, che si spingono a vicenda, sono accatastate alle spalle, e quanto più la catasta cresce tanto più rotola davanti una catasta prossima, o che si approssima, che si fa visibile, vedutina, di altre cose ancora, non diversamente insignificanti, porcheriole, che però stanno in un terreno non visto e allora hanno il loro lasciapassare per venire incontro, accadono, anche se il loro accadere, diciamo l’accadere di tutte le cose, addirittura, è per sua natura un passaggio di anello, pare, una strettoia nei due tempi soliti, niente di che, certo se non lascia una scia di sangue, lasciare una scia di sangue del resto è attributo di una percentuale di cose altissima, cose che càpitano, prede padane, la seconda vettura è piena di donne, tutte armate, sono dei soldati, quelli di prima, schiamazzano, si attraversa un campo di frecce, delle pozzanghere in terra, degli scivoli razionalisti, per bambini quadrati, una casa chiusa dalla finanza, per errori di calcolo, una sutura tra quello che è stato e quello che non ha verbo, senza contare il nome, del resto, e per fortuna, sui nomi non si fa mai conto, quelli sono i numeri, è noto anche per via dei telefoni che ormai ognuno ha, ognuno è, e via di questo passo, o di quello, è lo stesso, migliorando


Daily Planet

di Alessandro Broggi

Nessuno ha mai avuto in mente la maggior parte di ciò che accade.
John Cage

Per vendicarsi, una prostituta violentata da un gruppo di sbandati fa quasi massacrare l’unico che l’aveva difesa. Per poter vivere l’amore che provano l’uno per l’altra, Pedro e Cati dovrebbero superare il loro attaccamento morboso. Rapito dai ribelli del Blood Brotherhood, Orked è addestrato alla guerra, drogato, indottrinato e spinto a compiere crimini orribili. Durante la dittatura di Augusto Pinochet, un movimento indipendente di fotografi cileni documenta la repressione militare e la resistenza della popolazione fotografando quello che i media ufficiali nascondono. Da oltre vent’anni l’associazione Special Olympics lavora per integrare gli handicappati mentali nella società per mezzo dello sport. In Ghana esiste un fenomeno chiamato Ayan, o «drum poetry», dove il tamburo parla ed è considerato un vero e proprio linguaggio. Batad è una località incantevole sulle montagne terrazzate delle Filippine, dichiarata luogo a rischio della terra dal World Heritage Committee. Theo vive con un unico sogno: diventare un modello di fama e affermarsi nella società del marketing e della pubblicità. Bunny chow è una specie di pane ripieno di carne e verdure che si mangia in compagnia. Dana vive con la nonna, la madre e il fratellino, il padre è partito in cerca di lavoro e non è più tornato. Autista e narratore di storie, Abdelrazzak trasporta le persone sul suo pullmino verso un luogo nel deserto dove officia una famosa guaritrice. Chen, killer professionista, riceve le sue commissioni via Internet. Sei ragazze di Porto Said condividono un appartamento al Cairo come studentesse. Christoph lascia la moglie, la famiglia e il lavoro di avvocato per vivere in modo solitario e anonimo in un quartiere popolare di Anversa. Il giorno del suo compleanno Jeanne scopre dalla madre di avere un padre indiano. Elio si asciuga lo sperma prima di addormentarsi sul divano. Durante il battesimo, Edo vede gli arcangeli pulire il volto di Cristo dalle ferite della sofferenza umana. Stoffer si comporta normalmente. Le donne di Haenyo, Corea, per vivere si immergono 20 metri sotto il mare e trattengono il respiro per 2-3 minuti raccogliendo frutti di mare, alghe e altri prodotti marini. Per sfuggire alla miseria e soddisfare i bisogni famigliari, Mocktar decide di lavorare in una miniera d’oro del Burkina Faso. William incontra Sara in un bar chiamato «Bitter End». Sebbene divorziata da tempo, Carla litiga di continuo con l’ex marito sotto gli occhi dei figli. La relazione con Naima conduce Sydney da una proposta di matrimonio a una situazione di estrema indigenza. Un giorno Rebecca viene avvicinata da un uomo che la segue e le offre un passaggio. Sergej scopre di avere un male terribile, che lo porta a fare i conti con sé stesso. I Samburu sono un popolo pastorale semi-nomade, con una vibrante tradizione orale e una forma di costruzione della memoria associata a oggetti, addobbi fisici e canzoni. Una famiglia – padre, madre e tre figli – è riunita per la colazione. Camminando in alta montagna Arild incontra per caso il padre di un vecchio compagno di scuola che non vede da vent’anni. Samia chiede a un ragazzo di curare il figlio mentre va a fare una nuotata. Il giovane Wolfgang Amadeus a soli cinque anni ha già una forte passione per la composizione e una vivida immaginazione. Abner e Amira attraversano in auto la periferia di Riga. Seduto di fronte al medico Dragan Ledeux non ha più dubbi: non potrà avere figli. Marco è affascinato dal mito della vecchia mafia. Un battaglione di tiratori scelti giunge nel campo di transito di Verneuil-sur-Avre, dove li attende la smobilitazione. Quique attraversa il confine e arriva negli Stati Uniti. Il pittore Rembrandt accetta con riluttanza di dipingere la milizia civica di Amsterdam in un ritratto di gruppo. Cole è un giovane americano a Parigi che si guadagna da vivere come sosia di Michael Jackson. Il rito della riesumazione dei morti è diffuso in tutto il Madagascar. Noriko da piccola non ha mai capito perché tutti parlassero d’amore, ora lavora di notte come prostituta. Aya vanga un pezzo di terra negli aridi paesaggi del massiccio dell’Aures. George W. è alle prese con la calamità dell’uragano Katrina. Norma e Kika confessano la loro relazione in un diario a quattro mani. Jamie arriva a Vancouver per far visita a un’amica che però non riesce a rintracciare. Un centro commerciale di New York in rovina è sede di un mercato delle pulci. Lotte è stata licenziata dal delfinario. Wendo Kolosoy è una leggenda della rumba congolese. Un uomo e una donna vengono sottoposti a un esperimento terrificante.


da Le avventure di bgmole

di Gherardo Bortolotti

bgmole gioca a carte. Suona il telefono. bgmole si sveglia. bgmole esce dalla farmacia. bgmole butta lo scontrino del supermercato nel cestino all’uscita. « Senza dubbio », dice bgmole. Di ritorno da una gita, bgmole aspetta in stazione. bgmole starnutisce, per l’allergia. bgmole ringrazia la compagna, che gli versa da bere. bgmole legge Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre. bgmole stira una t-shirt di Morrissey e pensa a un vecchio amico. Al terzo incrocio, bgmole svolta a sinistra. bgmole spreme un’arancia.

Baciando la compagna, bgmole le tiene le mani sui fianchi. bgmole richiude il cassetto. Inizia a piovere. bgmole apre l’ombrello. Mentre si lava le mani, bgmole guarda l’immagine riflessa nello specchio. bgmole allaccia la cintura di sicurezza. Fumando una sigaretta fuori da un cinema, bgmole conta i mozziconi sull’asfalto. bgmole si sente la febbre e il mal di gola. bgmole, in bicicletta, supera un’auto che svolta. A casa di amici, bgmole beve una bibita. Il suo ospite chiede: «Vuoi del ghiaccio?». Dal suo angolo, in ufficio, bgmole sente due colleghi che parlano davanti al distributore del caffè. bgmole indica un portone. Senza occhiali, bgmole cammina tra le forme confuse dei mobili.

bgmole si avvicina l’altra sedia con un piede. bgmole sente delle voci concitate, per strada. La luce del sole riempie la cucina. bgmole asciuga il piano del tavolo. bgmole aspetta fuori da una biblioteca. Fino alla fine della galleria, bgmole trattiene il fiato. Quando bgmole apre la dispensa, scopre che il the è finito. Sotto casa, bgmole apre il portone. bgmole va a votare. bgmole conta i biscotti rimasti. bgmole fissa la sveglia per il giorno dopo. bgmole si toglie la camicia e la mette in lavatrice. Sul cornicione di fronte passa un gatto. bgmole ne segue le mosse.


Prato n° 170 (invidia, staccionata bassa e buon vicinato)

di Andrea Inglese

Il prato del vicino ha l’erba più verde. Per questo vengono gli altri vicini, quelli che mancano d’erba, o con l’erba priva di clorofilla, grigiastra, e si mettono a fare il barbecue qui da me. Chi fa il barbecue vuole in realtà incendiare il prato, spesso si danno fuoco direttamente loro, i capitani delle grigliate, dapprima ai vestiti, se li strappano via quando sono già in fiamme, un paio si bruciano per bene i capelli, se ne vanno facendo lo stesso numero, la testa arroventata, il cuoio capelluto carbonizzato e fumante. Per via dell’erba più verde del vicino, altri vengono qui a seppellire il loro criceto morto, ma può essere anche il cane, che a mio parere non è neppure morto, ma accorciano i tempi, spalano già da moribondo, e gli ficcano palate di terra nelle fauci, per sopprimere i guaiti. Facciano come a casa loro, dove l’erba è la mia, brillante, verdissima, invidiata da tutti. Come nella valle che era verde. Quelli del picnic, quando compaiono, sanno il fatto loro, passata la prima ruspa, si disperdono per meglio dividersi la fatica, ognuno rovescia il suo bidone, lo scuote di lato per bene, fino all’ultima goccia, sono solventi, vernici, resine, fanno delle pozze iridescenti straordinarie, i loro bimbi vi si chinano sopra ipnotizzati, i genitori burloni alcuni ce li sbattono, come si agitano dentro quelle lave fredde, avvolti in manti sontuosi e psichedelici, ma poi perdono subito i denti, gli cascano via le unghie, ecco le mamme nervose che li tirano fuori, gli asciugano con un tovagliolo il vomito, e poi su svelti, nelle cabine delle ruspe, a fare ciao a me con la manina, di erba non ce n’è quasi più, ma lasciano in giro i cestelli di vimini con dentro i polli crudi, chi li mangia ora che il prato è grigio, se non vengono quelli dell’incendio, del barbecue? Ci pensano i due soliti della camporella, convinti che la mia erba sia molto più soffice, come una moquette degli anni Settanta, ma entrano subito nella parte, lei diventa una gran porca, lui diventa lo stallone nero, lei è tutta calda, lui è superdotato, lei fa il gioco di bocca, lui la sfonda, lei lo prende, lui glielo dà tutto, scorrono così velocemente, a scatti, una dentro l’altro, uno sopra l’altra, perfettamente lubrificati, gridano e soffiano, lei fa: Ah! Ah!, lui fa: Oh! Oh!, lei è una provocante moretta spagnola, una perversa troia mascherata, una scolaretta strafiga, una famelica succhiatrice asiatica, una bella mignottona maggiorata, lui è un soldato dal pisellone durissimo, un ragazzo infoiato, un peloso uomo obeso, lui ha un enorme pene rigonfio, un fallo inossidabile, un turgido cazzo venoso, lei viene sodomizzata con impeto, chiavata profondamente, impalata con il dildo, sedotta dal professore palestrato, lui la fotte in tutti i buchi caldi, la inonda di sperma colante, le sborra sulle labbra carnose, vanno avanti così, finché il vocabolario lo consente, per permutazione di nomi, per sinonimi, variazioni, inversioni, ridondanze, lo fanno finché c’è materia verbale, i loro sessi sono poverissimi, sono piatti, smunti, quasi invisibili, attendono sintagmi, attendono i tempi e i modi del verbo, il supporto sintattico, il colore del gergo, la luminosità degli aggettivi. Quando tutte le frasi sono finite, si ritirano in buon ordine, come due ombre asessuate, non lasciano impronte, tracce di bava, residui organici, involucri di lattice, non lasciano nulla dietro di sé, fuori dalla grammatica non sono mai esistiti. Sull’erba più verde, l’ultimo vicino che passa è il giardiniere, viene a dirmi come si fanno i vialetti, come si potano le rose, si ingrassano le margherite, s’infilano i lombrichi sotto i sassi, si piazzano i ragni tra gli steli, si nascondono i passeri nei cespugli, viene a dirmi del concime e del rastrello, dell’innaffiatoio e dei frutti caduti, delle ortensie e dei limoni, viene a dirmi anche che lui è vecchio, che ha lavorato onestamente, sempre alzandosi la mattina, per tutta una lunga vita, che il mondo gli fa abbastanza schifo, che le persone sono brutte cose, che più si va dentro le persone più le cose si fanno brutte, come pozzi ripidi e dalle pareti viscide – non lesina metafore il giardiniere – che il mondo va sempre peggio, per via del cuore sempre più buio dell’uomo, che magari ci fosse un cuore, ma è tutto marcio, che ci vorrebbe qualcuno di cattivo, qualcuno di talmente cattivo che rimettesse a posto il cuore, che a forza di fare cattiverie gigantesche, davvero di scala superiore a tutte le altre, sotto questo diluvio di malvagità, tanti piccoli cuori sboccerebbero nelle persone seviziate, ognuna come un cane malato nella sua tana, ognuna nel suo cubo di cemento, finché a forza di prendere sputi e insulti e botte e di subire gli annegamenti simulati, poi gli spunta il cuore, tutta l’anima rifiorisce da dentro la cosa secca, la testa si abbellisce, vengono pensieri ariosi, come se tutti si sentissero a passeggio per una spiaggia, in mezzo a tanti granchi colorati e allegri, migliaia di granchi non nocivi, che si allontanano appena il passo umano si avvicina, e sopra la testa migliaia di gabbiani, ma silenziosi, che non vengono dalle solite discariche, con il becco ancora sporco di nafta, ma gabbiani puliti, e nel mare una vasta densità di polpi e meduse, ma innocue, che persino i bambini ci nuotano in mezzo, e nella cella, mentre perdono urina ed escrementi, perché non c’è più, dopo quella grande e pura malvagità, quel sistema così risanante della tortura mondiale, non c’è più muscolo e nervo che funzioni a modo, e così mentre pisciano, piangono e sbavano di continuo, ognuno diventa come una sagoma serena che passeggia sulla spiaggia, questo mi dice il giardiniere, mentre osserva con avidità l’erba verde del mio prato.


Andrea Raos (1968) è poeta e traduttore, ed è stato per diversi anni studioso di poesia giapponese classica. Ha pubblicato Discendere il fiume calmo, in Quinto quaderno italiano (Crocetti 1996), Aspettami, dice. Poesie 1992-2002 (Pieraldo 2003), Luna velata (cipM – Les comptoirs de la Nouvelle B.S. 2003), Le api migratori (Oèdipus 2007), I cani dello Chott el-Jerid (Arcipelago 2010), Lettere nere (Effigie 2013), Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali (Arcipelago Itaca 2017) e o!h (Blonk 2020). Fra le traduzioni, la più recente è Charles Reznikoff, Olocausto (Benway Series 2014).

Michele Zaffarano (1970) Pubblicazioni: Bianca come neve (La Camera Verde 2009), Cinque testi tra cui gli alberi (più uno) (Benway Series 2013), Paragrafi sull’armonia (ikonaLíber 2014), Todestrieb (Arcipelago 2015), La vita, la teoria e le buche (Oèdipus 2015), Power Pose (il verri 2017), Sommario dei luoghi comuni (Aragno 2019). Direzione di collane editoriali: «ChapBooks», «UltraChapBooks», «Gli alberi», «Legend» (Tic Edizioni). Redazione di riviste: Nioques.

Marco Giovenale (1969) è tra i fondatori di GAMMM (2006). Cura la collana «SYN – scritture di ricerca» per le edizioni IkonaLíber. Tra i libri di poesia: Shelter (Donzelli 2010), Maniera nera (Aragno 2015), Strettoie (Arcipelago Itaca 2017). In prosa: Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens 2016), Quasi tutti (Polimata 2010; ed. def.: Miraggi 2018), Le carte della casa (Edizioni volatili, 2020). Ha curato un’antologia di Roberto Roversi (Sossella 2008). Ha tradotto Billy the Kid, di Jack Spicer (La Camera Verde 2014). Il suo sito è slowforward.net.

Alessandro Broggi (1973). Principali pubblicazioni: Avventure minime (Transeuropa 2014), Protocolli / Protocoles (Benway Series 2014), coffee-table book (Transeuropa 2011). Ha co-diretto la webzine letteraria «L’Ulisse» e ha scritto su Nazione Indiana, GAMMM e PuntoCritico, blog collettivi di cui è stato redattore o co-fondatore. Da alcuni anni ha abbandonato militanza pubblica e impegni redazionali per dedicarsi unicamente alla propria ricerca e scrittura. Per una notizia dettagliata e aggiornata: biobibliografia.wordpress.com.

Gherardo Bortolotti (1972) esplora aree di confine tra prosa e poesia. Influenzato dalla produzione on line, mette alla prova scritture brevi e brevissime sui temi dell’infraordinario. Testi: Tecniche di basso livello (Lavieri 2009), Senza paragone (Transeuropa 2013), Quando arrivarono gli alieni. Parti 234-361 (Benway Series 2016), raccolti poi in Low. Una trilogia (Tic Edizioni 2020). Antologie: Poeti degli anni Zero (Ponte Sisto 2011), La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (L’Orma 2014). Saggi: Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete (in Nuova prosa, n. 64, 2014).

Andrea Inglese (1967) vive nei pressi di Parigi. Tra le ultime pubblicazioni, il romanzo Parigi è un desiderio (Ponte alle Grazie 2016, Premio Bridge 2017), il libro di prose Ollivud (Prufrock spa 2018) e la raccolta di saggi La civiltà idiota (Valigie Rosse 2018). Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia (Biblion 2018). Nel 2020 è uscito Mes adieux à Andromède (art&fiction, Losanna). È stato redattore di «Alfabeta2» e GAMMM; è tra i fondatori di Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it).

I sei autori sono o sono stati curatori del sito di traduzioni e scrittura di ricerca GAMMM.

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