I.
Per firmare doveva mutilarsi: mozzare sul finale il nome, scongiurando così il rischio di debordare in una variante impropria ancorché – evidentemente – naturalissima. Ecco la ragione per cui su alcuni dei non molti autografi rilasciati al pubblico osannante o sugli assegni personali con cui pagava i suoi collaboratori durante le sessioni di registrazione, il più grande pianista del secolo scorso risulta chiamarsi Glen Gould, senza una n. Stando alla vulgata mito-biografica messa in circolazione da lui stesso, il genio di Toronto doveva trattenersi, limitandosi alla prima n del suo nome, altrimenti, preparata la mano per tracciare seconda, avrebbe continuato senza riuscire a fermarsi – preso nel flusso consonantico – fino ad aggiungerne una terza, del tutto innecessaria (il rivolo informe che pure si legge in qualche firma). Per questo sbagliava intenzionalmente l’ortografia, amputandosi: un sacrificio al demone della fuga, acché non lo rapisse.

Andrew Kadzin, il suo produttore della CBS Masterwoks, si era sentito rifilare questa spiegazione proprio da Gould, ma era scettico a riguardo: «Quella presunta mancanza di controllo manuale era poco credibile in un uomo che poteva suonare un flusso ininterrotto di trenta secondi di note più velocemente e più distintamente di ogni altro pianista sulla faccia della terra». E in effetti, quando erano lanciate sui tasti, quelle mani mantenevano un controllo esemplare, pressoché perfetto: per i devoti del culto gouldiano, addirittura miracoloso (exempli gratia).
La spiegazione più ovvia, ma non implausibile – senza nulla togliere alle idiosincrasie quanto mai bizzarre del pianista canadese – può rilevarsi considerando con maggiore attenzione la natura dei due gesti: la scrittura in corsivo (inclinazione a destra, uso di legamenti, scorrevolezza o, appunto, corsività) auspica, anzi: prevede congenitamente che la penna corra sul foglio, sul quale scivola in quella che è all’incirca una scriptio continua, come certamente nel caso di una firma; mentre il pianoforte, al contrario, impone a chi lo suona – finanche al più forsennato degli interpreti in preda a una trance virtuosistica ai limiti della dissociazione psichica (e il Gould in azione non si distanziava troppo da questo identikit) – di confrontarsi con uno strumento costituito da pezzi separati: nella fattispecie, ottantotto tasti su circa dodicimila componenti totali di cui è composto); e lo strumento in questione non può essere suonato se non attraverso una serie ben articolata di gesti unici, individuali seppure talvolta sovrapposti, isolati gli uni dagli altri per quanto ravvicinati fino quasi alla fusione. Penna contro tastiera, flusso contro sequenza, linea contro punti. Di più: uno dei segreti della straordinaria pulizia formale dello stile di Gould, la ragione intrinseca al suo suono cristallino, puro, così impeccabilmente limpido e adamantino, quasi un «tintinnio», per non dire – usando una sua espressione – puritano, risiede in un’articolazione particolarmente nitida che predilige l’uso dello staccato; mentre buona parte del repertorio pianistico più inflazionato, al tempo come allora (romantico e non solo), richiede l’utilizzo del legato, che viene impiegato per avvolgere le note in un impasto omogeneo. A ciò si aggiunga che il pianoforte inseguito da Gould per tutta la vita era invece uno strumento che si sarebbe dovuto arrendere senza riserve alle sue mani, permettendo così un controllo assoluto, millimetrico, su ogni singola nota (onde evitare di scioglierle in un unico flusso melodico), e una risposta immediata alla pressione esercitata dalle sue dita.
Le dita di Gould: che prima di ogni esecuzione erano sottoposte al rituale dell’ammollo (circa trenta minuti in acqua bollente) e a cui è stata tributata dai fotografi che hanno immortalato le apparizioni del Maestro una venerazione poco meno che maniacale (in parte giustificata dall’effettiva magnificenza di quelle appendici), quelle dieci esili dita hanno inseguito per tutta la vita un’ideale musicale attraverso la ricerca di uno strumento che permettesse di ridurre il più possibile la distanza che intercorreva fra l’immagine mentale del suono – perfettamente vivida nel pianista – e la sua effettiva realizzazione, fra la mente e la mano.

II.
Nel corso della sua vita, l’ossessione per il pianoforte perfetto – mirabilmente raccontata da Katie Hafner – assunse proporzioni tali da spingere Gould, nel 1968, a cercare di convincere Verne Edquist, il suo accordatore di fiducia, a cambiare la profondità dei tasti e la distanza d’impatto di tutti e ottantotto i martelletti del suo amatissimo Steinway (un colosso in abete rosso ed ebano di due metri e settanta per mezza tonnellata), per raggiungere finalmente un «contatto più immediato». Lo stravagante pianista canadese, da sempre alla ricerca di uno strumento che rispondesse immediatamente ai più lievi stimoli tattili, pretendeva per questo che fosse alleggerita la meccanica al venerato CD 318, il gran coda scovato miracolosamente a Toronto nel giugno del 1960 e da allora impiegato per la quasi totalità delle sue incisioni (fatta eccezione, fra le poche ma su tutte, delle due monumentali versioni delle Goldberg, realizzate la prima su un altro Seinway, il CD 174, e la seconda, scandalosamente, su uno Yamaha); alleggerire la meccanica significava, a detta di Gould: «ridurre la profondità dei tasti, ossia la distanza che il tasto deve percorrere dalla posizione iniziale al punto in cui va a toccare la parte frontale del feltro, o punzonatura. In altre parole: la misura dell’abbassamento del tasto prima che la corda suoni la nota corrispondente». Per ridurre la profondità dei tasti occorreva ridurre la distanza d’impatto dei martelletti dalle corde, che è di 4.76 cm; ciò vuol dire dunque che Gould cercava una soluzione spaziale a un problema temporale, voleva cioè velocizzare quella che avrebbe definito, in un’intervista con Jonathan Cott, «la corsa del tasto». Diminuendo la distanza fra due punti, si sarebbe abbreviata la durata del lasso di tempo che separava l’azione (la pressione sul tasto) dalla reazione (il suono prodotto dalla corda). «Gould», insomma, conclude Hafner, «voleva che il pianoforte producesse il suono al suo comando e smettesse nell’istante in cui gli dava il segnale di fermarsi. Voleva l’assoluto controllo su ogni sfumatura di suono e fraseggio, e un’immediata e attenta risposta a tutto quello che le sue dita comandavano».

Il pianoforte, per Gould, insieme all’inseparabile sediolina regolabile (a oggi le sue più importanti reliquie, oggetto di pellegrinaggio ossequioso, conservate alla National Library of Canada di Ottawa: quest’ultima alberga in una teca), era diventato un’estensione del suo corpo: una componente essenziale di sé che gli consentiva di tradurre nei fatti, con la maggiore approssimazione possibile, ciò che sentiva dentro – tale l’intimità con questi due canali del flusso gouldiano che la sedia pigmea fu definita una volta dal pianista, in una memorabile scenetta con un divertito quanto incredulo Bruno Monsaingeon, niente di meno che «a member of the family». E quella volta in cui Edquist pulì incautamente i tasti del CD 318, sporchi, anzi «addirittura un po’ appiccicosi, come se qualcuno ci avesse spalmato sopra una ditata di marmellata» (è ancora Hafner a raccontare l’aneddoto), l’accordatore – contro ogni sua aspettativa – incappò nel secco rimprovero del musicista: «quel pianoforte era diventato parte integrante di Gould, e […] i tasti appiccicosi, che Gould preferiva a quelli lisci, erano una componente necessaria del canale che univa la mente di Gould ai suoni che emergevano nello strumento». Ciò che il pianista canadese intendeva raggiungere attraverso un controllo così capillare di ogni componente del processo creativo era l’assoluta aderenza al proprio ideale estetico, a quell’immagine mentale che si era fatto della musica che avrebbe eseguito; un’immagine sonora, certo, ma al contempo visiva.
Gould, per sua stessa ammissione, e a differenza di molti colleghi, trascorreva buona parte del suo tempo lontano dallo strumento (grazie all’abitudine, maturata in gioventù con il suo maestro, Alberto Guerrero, di studiare uno spartito anzitutto con gli occhi, associando così ciò che leggeva a una reazione delle dita). Come avrebbe dichiarato negli anni a venire, la musica che gli passava per la testa – anche durante lunghi periodi passati senza suonare – era immediatamente tradotta in «una sorta di spontaneo sistema digitale».
III.
Un apologo fra i più tramandati dell’agiografia gouldiana, e come sempre in questi casi proveniente direttamente dalla sua voce, offre un’impeccabile esemplificazione a riguardo. Nell’autunno del 1958, Gould si trovava a Tel Aviv per un ciclo di concerti: al suo fianco, per otto delle dieci esibizioni, aveva un «pianoforte assolutamente disgustoso», un «obbrobrio». Niente a che fare non solo con il benemerito CD 318, ancora di là da venire, ma neanche con quello che, per Gould, già dal 1954, quando lo scoprì grazie a un amico, fu per tutta la vita il prototipo ideale del pianoforte, il termine di paragone sonoro per ogni altro strumento futuro, ossia il mezzo che determinò – se non certo la sua iniziazione musicale, avvenuta da bambino – un vero e proprio imprinting digito-acustico: l’Ur-piano, insomma, l’archetipo assoluto. Nella fattispecie, un Chickering di fine Ottocento, un robustissimo mezza coda di due metri proveniente da Boston e che, seppure inadatto per le sale da concerto (le dimensioni ridotte non permettevano la produzione di un suono capace di coprire spazi ampi), e nonostante il suono metallico (ai limiti del clangore, simile a un banjo), offriva alle mani di Gould ciò che era a suo giudizio la prerogativa principale e inderogabile di un pianoforte: l’immediatezza al tatto. «It gives me a sensation of being so close to the strings and so much in control of everything», sentenziò una volta, pienamente soddisfatto, il musicista canadese.

Sta di fatto che l’insostituibile Chickering (le cui doti saranno lungamente magnificate, in numerose lettere, da Gould agli esasperati tecnici della Steinway and Sons, nel tentativo di descrivere loro cosa andava cercando in un piano) non era con lui a Tel Aviv: gli rimaneva l’«obbrobrio». E tale la sua insufficienza che lo strumento in dotazione durante la tournée in Israele aveva preso il «sopravvento» sul pianista, che era stato così – mcluhaniamente, riconobbe a margine lo stesso Gould – «plagiato»: «ero incapace di avere altre reazioni se non quelle che mi si presentavano immediatamente attraverso il medium di quel pianoforte». Pertanto, a ridosso della prima serata, il virtuoso di Toronto optò per una soluzione disperata: noleggiata un’auto, si allontanò dalla città per parcheggiare su una duna nei pressi di Herzliya Marina, e una volta lì decise che «l’unica speranza di salvare il concerto era quella di ricreare la più mirabile esperienza tecnica» da lui conosciuta:
Così, seduto nella mia automobile su quella duna di sabbia, decisi di immaginare di essere nel mio studio… e prima di tutto di immaginare il mio studio, operazione che richiese un po’ di tempo visto che ormai ero in viaggio da tre mesi. Mi sforzai di immaginare l’esatta collocazione di ogni cosa nella stanza, poi di visualizzare il pianoforte […]. Seduto in macchina, mi concentrai al massimo e provai disperatamente, per il resto della giornata, a rivivere quell’immagine tattile.
L’inconsapevole esercizio spirituale praticato da Gould – il quale dichiarava di praticare una tecnica musicale che consisteva nel mantenere «un’immagine mentale di ogni tasto del piano, una conoscenza “tentacolare” della collocazione di ogni nota e di come ci si sentisse a raggiungerla e a toccarla» – segue con stupefacente precisione i precetti di Ignazio di Loyola relativi alla «composizione visiva del luogo», che consiste «nel vedere con la vista dell’immaginazione il luogo fisico dove si trova la cosa che voglio contemplare»: e – pertanto, verrebbe da dire – il miracolo accadde, proprio in virtù di questo straniamento (ma sarebbe a questo punto più pertinente parlare, e per una volta aderenti al senso tecnico del termine sempre sulla bocca dei discepoli del pianista, di ékstasis, ossia, appunto, «dislocazione»: come commenterà Giovanni Giudici proprio in calce al testo del gesuita spagnolo: «uno spostamento della sensibilità, […] una distrazione della coscienza soggettiva, […] un suo non esserci alle cose usuali»). Il coup de théâtre che sigilla la storiella, immancabile, proviene ancora una volta dalla voce di Gould (divinità ed evangelista, al solito, simultaneamente): al termine dell’esibizione, un attempato Max Brod giunse in camerino a complimentarsi con il pianista insieme alla sua segretaria, che confessò al Maestro (il quale, sghignazzando, non ha rinunciato a replicare l’inglese germanizzato della donna: al contrario di Cristo, Gould rideva spesso e di gusto): «noi afere ascoltato molti suoi concerti in Tel Aviv, ma stanotte, questo essere qualcosa di diferso, lei non era uno di noi, lei era… lei era… il suo essere era altrofe».

Questo «divorzio fra componente tattile e altre manifestazioni espressive», cioè a dire la schisi che necessariamente deve darsi per consentire di isolare rendendole autonome le mani dall’attività del pensiero, si impernia teoreticamente sul paradosso del centipede. Ricavandolo dall’amatissimo Schönberg, Gould lo istituì – e prova ne sono le frequentissime riproposizioni – quale paradigma dell’atto (per lui davvero unico) compositivo e performativo: atto unico, cioè, dacché ogni esecuzione del pianista canadese realizzava l’opera ri-creandola, la sovraccaricava di significazione ulteriore, donandole in questo modo maggiore spazio di risonanza – il caso di Bach, che può realmente essere studiato lungo la storia delle sue esecuzioni secondo una partizione a.G. e d.G., avanti e dopo Gould, ne è solo l’esempio più macroscopico. «Penso che la creatività», dichiarò il pianista, a cui molto opportunamente Jacques Hétu aveva affibbiato l’epiteto di recomposer, «abbia […] a che fare con la sottigliezza con la quale riesci ad aderire a premesse leggermente diverse da quelle che tutti si potevano aspettare da te».
Il paradosso in questione dunque vuole che il «centipede a cui veniva chiesto in che modo muoveva le sue cento zampe» venga freddato da questa domanda, che lo spinge a frenarsi cercando la ragione di qualcosa che già fa senza pensarci, «e dopo questo non riusciva più a muoversi affatto». C’è, aggiunge Gould, «qualcosa di castrante in quella domanda». Chissà che una simile castrazione non fosse la stessa che operava il pianista sul proprio nome, mozzandolo di una n, quasi a risarcire i privilegi della mano (che, diceva sempre lui, è un «prolungamento del pensiero»), altrimenti aggiogata alla lentezza del pensiero che si pensa.
IV.
In uno dei saggi di auto-analisi compositiva più penetranti del Novecento, una poetessa che era cresciuta studiando musica e pianoforte e si era fatta le ossa su quello stesso Schönberg che tanto salò il sangue a Gould (e che per caso, dirottata dal vecchio continente nei primi vent’anni di vita a causa della Seconda guerra mondiale, si trovò a passare anche per il Canada), ossia Amelia Rosselli, aveva constatato l’insufficienza della mano, o meglio, dello strumento che, attraverso la mano, le consentiva la traduzione in diretta del pensiero: «scrivendo a mano […] si pensa con più lentezza; il pensiero deve aspettare la mano e viene interrotto […]. Ma scrivendo a macchina posso per un poco seguire un pensiero forse più veloce della luce». È la penna, secondo Rosselli, a rallentare la mano, a differenza della macchina da scrivere, che – lo sapeva bene la poetessa pianista dalla mente dattilografica – con i suoi tasti velocizza l’espressione mimando una coincidenza digitale fra lettera e nota, parola e accordo, frase e motivo. La corsa del discorso – giusta la sovrapposizione galileiana assunta a vessillo dal Calvino della Rapidità («il discorrere è come il correre») – è una fuga cui neppure il corsivo può tenere dietro: una mano che si muove stretta intorno a uno strumento, scivolando sulla pagina per inseguire il pensiero, nulla può contro la frenesia tattile di tutte e due le mani, con le dieci dita in azione, che volano libere battendo un tasto dopo l’altro, arrivando così a lambire l’evento psicogenetico: solo un attimo dopo lo scoppio del pensiero, non appena emerge e già mentre prende forma, nel fulgore residuale del balenio.
Se è vero che la scrittura è un parafulmine – come vuole un’efficacie quanto frusta definizione ad effetto – probabilmente lo è perché è un parafulmine issato nel cielo della mente, in alto fra le costellazioni sinaptiche che illuminano a giorno la volta interna del cranio, per attirare i lampi del pensiero: e una volta catturata, l’energia si trasmette alla mano, che pervasa da quella scossa si muove sulla pagina per ricomporre con pezzi e brandelli di parole il corpo-Frankenstein del pensato.
Con oltranzistico slancio verso l’alto, l’impennata della penna la porta a conficcarsi dunque nel vivo della materia grigia, e penetrando a fondo nella testa arriva a bucare lo spazio cerebrale: è aldilà di quel foro nel cielo che possiamo intravedere i pensieri, i quali, come gli esseri intergalattici dell’Ascesa all’Empireo di Bosch, si affacciano guardinghi dall’ingresso di una nuova dimensione e da lì iniziano a sciamare (al magnifico pannello del pittore olandese oggi, per esigenze attualizzanti, si potrebbe sovrapporre l’immagine della nebulosa Elica, il cosiddetto occhio di Dio: ovvero quella fessura galattica che sembrerebbe il più verosimile passaggio verso uno altro spazio).
Hieronymus Bosch, Der Aufstieg in das
himmlische Paradies (particolare)Nebulosa Elica
Tuttavia, a differenza della penna, la macchina da scrivere (e ancor più, ovviando alla necessità di interrompere il flusso per cambiare foglio grazie alla smaterializzazione del supporto, il computer) si sintonizza direttamente sulle frequenze sinaptiche intercettandone l’inesausto ronzio, il fibrillare, e, come fosse non più una pratica rabdomantica (la penna in mano che insegue il pensiero sulla pagina tentando di scovarne la fonte) ma un esercizio di telepatia applicato a un sismografo (ogni palpito della mente còlto e riprodotto), trascrive senza quasi mediazioni il pulsare inarrestabile nel pieno della sua fermentazione interiore.
La «realtà» – scriveva ancora Rosselli a riguardo della scrittura con la penna – «è così pesante che la mano si stanca»; ma quale che sia la modalità di trascrizione, anche con la tastiera il corpo non riesce a reggere troppo a lungo lo sforzo: il peso di ciò che va – letteralmente – tradotto eccede, l’urto del getto in piena piega le dita.
Questo, naturalmente, a patto che il fiume vocale (la radice indoeuropea *bhl, difatti, è la stessa in flatus, flumen, fluxus, fluere) si faccia sentire: perché, in effetti, non si può prescindere dal suo risuonare; parafrasando Baudelaire, penna o tastiera, poco importa se l’auscultazione della voce interiore non capta alcun segnale. Lo sapeva bene un bracchetto votato alla letteratura ma in continua lotta con il demone dell’ispirazione, quando riconosceva, con filosofico pragmatismo, che sì, «qualche volta, se sei un grande scrittore, le parole arrivano così rapidamente che si può a mala pena metterle sulla pagina», d’accordo, è vero: ma solo «qualche volta».

Notizia bibliografica
Le informazioni sulla firma di Gould si leggono dal bel libro di Katie Hafner, Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto [2008], Einaudi, Torino 2009, p. 141 (la stessa Hafner riporta la vicenda del produttore della CBS dal suo libro: A. Kazdin, Glenn Gould at Work; Creative Lying, E. P. Dutton, New York 1989); da qui, inoltre, sono tratte le citazioni sui tentativi di accomodamento del CD 318 (rispettivamente alle pp. 124 e 115) e l’episodio della pulizia dei tasti del piano (p. 127). Ha parlato di «tintinnio» riguardo al suono gouldiano Geoffrey Payzant, Glenn Gould. La musica, l’uomo [1984], trad. it. A. Carosini, Orthotes, Napoli-Salerno 2016, pp. 169-179, mentre la frase di Gould sul «sistema digitale» è riportata da John P.L. Roberts, The Art of Glenn Gould: Reflections of a Musical Genius, Malcom Lester Books, Toronto 1999, p. 269.
L’episodio del concerto a Tel Aviv e dell’esercizio spirituale praticato da Gould sulla duna è raccontato dallo stesso pianista nel libro-intervista di Jonathan Cott, Conversazioni con Glenn Gould [1984], EDT, Torino 2009, pp. 4-7; la dichiarazione sul Chickering è riportata invece dalla biografia di Kevin Bazzana, Wondrous Strange. The Life and Art of Glenn Gould, Oxford University Press, New York 2004, p. 199; e la tecnica mentale di Gould è ricordata da K. Hafner, Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto cit., 15 e A. Kazdin, Glenn Gould at Work cit., p. 103; si è citato poi il testo di Ignacio de Loyola, Esercizi spirituali, traduzione e postfazione di G. Giudici, SE, Milano 1991 (da p. 32, mentre le parole di Giudici provengono dalla p. 130).
Le parole di Gould sul «divorzio fra componente tattile…» e sulla creatività provengono dal già menzionato libro di Jonathan Cott (pp. 8 e 77), e la frase del pianista sulla mano come estensione del pensiero è ricordata da Patrick Roegiers, Élogie du gènie. Vilhelm Hammershøi, Glenn Gould, Thomas Bernhard, Arléa, Paris 2019, p. 58.
La variante, una fra le tante, del paradosso del centipede è riportata dallo studio di Geoffrey Payzant, Glenn Gould cit., p. 143, che la cita da Glenn Gould: Concert Dropout (disco), Columbia, BS 15 (1968). Curioso il fatto che nei casi di altre forme di scrittura, come quella relativa ai suoi articoli su musica e quant’altro, Gould non tollerasse alcun taglio, neanche quello relativo alle componenti più minute del discorso: come scrisse una volta a Gilles Potvin, produttore di Radio Canada International e critico musicale per Le Devoir e La Presse, riguardo al suo Radio As Music: Glenn Gould in Conversation with John Jessop, «there must be no cuts and no changes whatsoever in the article, including changes of punctuation, without consultation. The punctuation clause is not a caprice on my part, by any means – it is particularly important in relation to an article of this kind which must preserve the integrity of its conversational flow» (la lettera, del 25 febbraio 1971, si legge ora in Glenn Gould, Selected Letters, edited and compiled by J.P.L. Roberts and G. Guertin, Oxford University Press, Toronto 1992, p. 136).
Il saggio di Amelia Rosselli, datato 1962 e commissionatole da Pier Paolo Pasolini, si intitola Spazi metrici e si trova ora nel suo Meridiano: L’opera poetica, a cura di S. Giovannuzzi, Mondadori, Milano 2012, pp. 181-189, e le due citazioni provengono entrambe da p. 189. La mente dattilografica è il titolo di un articolo dedicato ad Amelia Rosselli da Stefano Giovannuzzi, pubblicato su «Moderna: semestrale di teoria e critica della letteratura», XV, 2 (2013), pp. 113-130. Il celebre monito galileiano, dal Saggiatore, è ripreso da Calvino nella seconda delle Lezioni americane, Garzanti, Milano 1990, p. 43. Ricavo inoltre la notizia sulla radice *bhl dal libro di Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce [1992], prefazione di P. Zumthor, il Mulino, Bologna 2000, p. XXII.