Paul Celan ha fatto cent’anni e gode in Italia di ottima stampa. Se ne parla, lo si cita come archetipo di poesia-dopo-Auschwitz. E lo si stampa. In occasione del duplice anniversario (in aprile sono stati anche cinquant’anni da quando si gettò nella Senna), sono uscite in Italia tre nuove traduzioni. Oltre all’antologia poetica tradotta da Elisa Biagini per Ponte alle Grazie (Non separare il no dal sì), due di queste pubblicazioni vedono la cura di Dario Borso. Borso è stato già curatore e traduttore di tre volumi recenti che costruiscono, attorno al Celan ‘maggiore’ tradotto nei Meridiani Mondadori nel 1998 da Giuseppe Bevilacqua, un altrettanto notevole Celan ai ‘margini’. Sono pubblicazioni che, come ebbe a dire Camilla Miglio, hanno segnato un “punto di svolta nel discorso su Celan in Italia”. Si tratta della raccolta giovanile del 1948 (La sabbia delle urne), ritirata dal mercato da Celan per i troppi refusi, e della silloge composta nella clinica psichiatrica dov’era recluso nel 1966 per le ripetute violenze contro la moglie (Oscurato), apparse entrambe nella ‘Bianca’ Einaudi. E infine le Poesie sparse pubblicate in vita, impreziosite da un antico scritto di Andrea Zanzotto, e uscite per nottetempo nel 2011.
Oggi, oltre alla riedizione di Microliti per Mondadori, ancora per Nottetempo Borso si cimenta in una nuova impresa: tradurre l’ampia scelta che Celan in persona – caso unico nel suo curriculum – aveva predisposto in vista di una traduzione italiana che, su impulso di Vittorio Sereni (che all’inizio aveva in mente Zanzotto), era in programma per uno ‘Specchio’ Mondadori. L’antologia non fu più realizzata soprattutto per via delle difficoltà a reperire un traduttore gradito a Celan, che giocò su più tavoli e respinse solleciti e proposte fino a sfiancare gli interlocutori. Finché non morì. A vedere infine la luce per Mondadori nel 1976 fu un libretto bianco e nero chiamato Poesie, con altre scelte rispetto alla lista del poeta, più ampie e comprensive di prelievi da tutta l’opera. Ad approntarlafu il talentuoso madrelingua tedesco Moshe Kahn – noto oggi in Germania come traduttore di Primo Levi e Camilleri, nonché dell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, ma indicato in extremis da Celan per la sorpresa di molti –, coadiuvato da Marcella Bagnasco.
Oggi finalmente quell’antologia è divenuta un libro, ma la sua pre- e post-storia è tale da meritare un secondo volume di Borso, quasi una thèse complémentaire, che la racconta. Si tratta di Celan in Italia, uscito per i tipi Prospero, che è una summa dettagliata delle vicende che portarono prima a quell’elenco del 1964, poi alla sua infinita dilazione fino a smarrirsi nei cassetti dei sogni editoriali.
La vicenda avvince ed è indubbiamente affascinante seguire il fiuto dell’autore. Borso pesca perle – lettere, telegrammi, traduzioni riuscite, traduzioni mancate – in archivi pubblici e privati. Il lavoro è certosino e utile per l’appassionato di Celan, è stimolante per il traduttore e per il critico, che trovano soluzioni ingegnose e sfondoni rivelativi. È ghiotto per lo storico della germanistica italiana. Alla prova del caso-Celan, una disciplina in parte compromessa coi quadri della NSDAP in era fascista si faceva volentieri ostaggio di automatismi interpretativi dettati da Literaturpäpste come Holthusen. Contava la classificazione, la tassonomia possibile: quanto c’è in Celan di ebraico, quanto di mistico – di cristiano! –, quanto di ermetico, surrealista, neoespressionista, quant’altro (si veda, per un’idea, la stroncatura di Fortini). Ed è gustoso, oltre ogni effetto-accumulo, seguire l’onda di varianti nelle singole versioni che Borso fedelmente riporta. Compaiono poesie tradotte da nomi come Masini, Mittner, Secci e Chiarini, supervisioni effettive o promesse di Zanzotto e Campo, ma anche versioni brillanti di semisconosciute. Oppure ci s’imbatte in componimenti come Matière de Bretagne,scelta come test traduttivo, chissà perché, da dieci voci diverse. Chi abbia qualche interesse non solo per Celan, per la sua poesia, ma in particolare per la storia intellettuale, accademica, editoriale italiana degli ultimi settant’anni troverà pane per i suoi denti.
Lo stile del testo si vale d’un abito investigativo alla ricerca di indizi e indiziati, di sospetti, e conta qualche vittima d’un rito idiosincratico non sempre intelligibile al lettore medio non germanista (Bevilacqua, Ferruccio Masini). Il tutto è molto ricco, così tanto che qualche indicazione più circostanziata sulle fonti usate (come accadeva nel carteggio Sereni-Celan curato anni fa da Giovanna Cordibella per L’obliquo), a beneficio dello studioso che voglia rileggere e verificare, o anche un indice dei nomi, non avrebbero intasato di più una via già affollata. Perché i nomi coinvolti in questa vicenda sono davvero tanti, da Sereni a Zanzotto, da Ida Porena a Marianello Marianelli, da Leone Traverso a Pietro Citati a Nanni Balestrini (da cui tutto o quasi era partito quando appena ventiduenne nel 1957 aveva tradotto tre composizioni per il neonato “Verri”). E sono altrettanti quelli poco o per nulla noti – come le giovani tesiste che tradussero Celan a metà anni sessanta – che Borso recupera di prima mano nelle corrispondenze più disparate, facendo luce sulle perplessità, i rifiuti e i silenzi di un poeta inseguito e sempre attento alla ricezione a venire, e che voleva esser tradotto da poeti.
Finita la lunga premessa storica di Celan in Italia, ecco finalmente l’altro libro – firmato Celan –, L’antologia italiana. La selezione risale al 1964. Per forza di cose, dunque, salta il lustro finale dell’autore, più tormentato, più ermetico, come si usa dire per un poeta che non disdegnava la filosofia ma che sconta di piacere troppo ai filosofi (sul suo rapporto con Heidegger si è scritto molto, ma resta quel no, scortese il giusto, a farsi ritrarre in foto con lui una volta che il pastore dell’essere venne a sentirlo). I testi selezionati comprendono il meglio delle prime quattro raccolte – 48 poesie: 16 da Papavero e memoria (1952), 10 da Di soglia in soglia (1955), 11 da Grata di parole (1959), 11 da La rosa di nessuno (1963). Naturalmente vi sono molte assenze, specie da Di soglia in soglia (Argumentum e silentio, Parla anche tu, o Qualunque pietra alzi), ma anche da Grata di parole (Fiore), dalla Rosa di nessuno (Ghiaccio, Eden, o Benedicta), ma l’arbitrio selettivo è difetto congenito di ogni antologia. Dall’iniziale Canto nel deserto alla poesia finale In aria, passando per Corona, Fuga di morte, Shibboleth, Fiducia, Stretta, Radix, Matrix, resta un’impressione compatta di versi scavati nell’asfissia dal desiderio e dalla memoria. Resta una circolarità di terra percorsa da voci senz’aria.
Per chi si avvicini a Celan non potrebbe esservi introduzione migliore. Dato il carattere introduttivo e il pubblico potenzialmente vasto di ogni antologia, lo scritto di apertura avrebbe potuto offrire al lettore novello il quadro, pur sintetico, delle linee della sua poetica. Si sarebbe tratto giovamento da un percorso che interpretasse motivi e ragioni della scelta. Invece si dà in rito abbreviato conto dell’altro libro, di Celan in Italia, per poi fornire una lettura in chiave tutta biografica della selezione. Se Bevilacqua nel saggio anteposto al ‘Meridiano’ aveva ipotizzato il 1964 come l’anno della risoluzione a morire (una “presunta Wende necrofila”, nella sintesi scabra borsiana), Borso insiste sul fatto che in quel momento Celan fosse in ripresa, quasi euforico. Il giugno 1964 in cui avvenne la scelta delle 48 poesie per l’Italia sarebbe stato momento vitale, come dimostrerebbe la passione per Inge Waern. Si potrebbe obiettare che il sogno di morte di un poeta non escluda pulsioni erotiche. Che eros e vita si guardino a volte di sottecchi. O che la sovrapposizione di biografia e scelte d’autore porta spesso fuori strada. Ma in generale, per chi si trova di fronte la seconda, agile antologia di Celan in 100 anni, la prima ‘scelta’ da lui e in edizione economica – cosa che il poeta non voleva, come rivelano le condizioni dettate a Mondadori nel febbraio del 1970 –, il punto della doppia operazione editoriale di Borso non pare questo.
Il punto, per un libro che non vuole ripetere ma che riassume i dati dell’edizione critica tedesca, che è destinato a un pubblico vasto, agli zaini e non alle sole biblioteche, sarebbe un altro, oltre ai criteri antologici: sarebbe la traduzione. Qui Borso ha il coraggio di prendere strade diverse da quelle di Bevilacqua. Bevilacqua, da poco scomparso, germanista raffinato e consapevole del fatto tedesco (si veda la cura, nel 1982, di Questioni tedesche, saggi del dopoguerra di Eric(h) Weil, esule e collega a Lille di Jean Bollack, con Peter Szondi tra i primi a leggere Celan con lui), Bevilacqua ha fatto capire Celan come pochi. Le sue Letture celaniane e l’introduzione al ‘Meridiano’ del 1998 sono tuttora tra le migliori prospettive generali in una letteratura troppo spesso affogata nel suo oggetto. Eppure, si è notato, la sua traduzione sconta una dissonanza. Lo stile di Bevilacqua non è quello di Celan. È più alto, più grave. Ferma restando la sensibilità poetica, la sapienza ritmica (ne L’ospite Bevilacqua traduce il distico finale “tu l’odi misurare (durchmessen) lontananze / e laggiù scagli la tua anima”, mentre Borso: “lo odi percorrere le distanze / e getti la tua anima fin lì”, invece Biagini nell’antologia parallela: “tu lo senti misurare lontananze / e là lanci la tua anima”), accade che Bevilacqua perda la concretezza talora brutale di Celan. Titoli come In figura di selvatico porco (quando il riferimento è al mero, mitologico cinghiale), la frequenza dell’aggettivo preposto al sostantivo (“di sbalzato oro”, in Davanti a una candela, o i titoli Alterna chiave, Alata notte, etc.), mostrano d’interpretare un modello arduo da reperire in Celan e più consono all’aspettativa di certa ricezione italiana d’epoca.
Anche i primi, celebri versi di Fuga di morte formano un campione rappresentativo. Bevilacqua li rende: “Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera / noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte”. Già Gilda Musa, nella pionieristica traduzione del componimento nel 1956 recuperata da Borso nell’altro libro, aveva seguito una strada più cruda e promettente: “Latte nero dell’alba lo beviamo di sera / lo beviamo al mattino e a mezzogiorno lo beviamo di notte”. E Borso la riprende: “Latte nero dell’alba lo beviamo di sera / lo beviamo a mezzodì e al mattino lo beviamo di notte”. Anche che se, va detto, talvolta manca di portare fino in fondo la scelta stilistica. A volte accade che il registro si alzi quando l’originale non lo richiede (“la gruccia che un dì”, “mano notturnamente forte”). Accanto a durezze di resa in soluzioni come “Innestato nell’occhio / ti è il rametto che ai boschi indicò la via”, o come Notturnamente arricciate (già in Bevilacqua e qui mantenuto), ci sono spunti di resa felice del timbro crudo di Celan, come in Tubinga, gennaio (“visite di falegnami affogati con/queste/parole d’abisso: / Venisse / Venisse un uomo / venisse un uomo al mondo, oggi…”) o nell’incipit di Tenebrae (“Vicini siamo, Signore / vicini e afferrabili./ Afferrati di già, Signore, artigliati insieme…”).
Oltre ogni celebrazione, oltre ogni biografismo, quest’antologia mostra come la pietra celaniana ci interroghi proprio sul piano della lingua. Come esiga che la nostra lingua accetti di parlare nei suoi versi oggi. Come vada scalfita, indagata, fatta ‘fiorire’ per restituirli. Cent’anni dopo la nascita in una regione germanofona poi sommersa dalla storia, mentre anche chi l’ha conosciuto scompare, nell’ambiguo processo che mira a fare dell’ingovernabile Paul Celan un tassello tra i tanti di un canone generale e quieto, è ancora, è sempre opportuno che la lingua poetica traduca il verso nell’orizzonte presente, che porti l’ostico, l’erotico, irrespirabile Celan a dire il linguaggio dei fiori e delle pietre. A dire la sua ‘ricerca’ oggi.
Paul Celan
L’antologia italiana
a cura di Dario Borso
nottetempo, 2020, pp. 224, € 12
Dario Borso
Celan in Italia. Storia e critica di una ricezione
Prospero, 2020, pp. 380, € 24
In copertina: Jacques-Henri Lartigue, Golo et Simone, 1913