Pensare per immagini: Histoire(s) du cinéma

Nel giorno del novantesimo compleanno di Jean-Luc Godard, ripubblichiamo questo testo di Rinaldo Censi apparso per la prima volta nello speciale «Anacronismi dell’immagine», curato da Stefano Chiodi, sul numero 30 di «alfabeta2» cartaceo, del giugno 2013.


Verso la fine degli anni ’70, un fotografo e artista giapponese, Hiroshi Sugimoto, comincia a fotografare gli interni di numerose sale cinematografiche americane del nord-est e del nord-ovest. Negli anni ’90 passa ai Drive-In e, ancora, alle sale della west-coast. Il progetto si intitola “Theaters”. Sugimoto si piazza sul fondo della sala, spesso in galleria. Lo scatto prevede un tempo di esposizione corrispondente alla durata del film. Ne risultano fotografie in bianco e nero. Le diverse architetture dei palazzi lasciano invariato l’estremo biancore dello schermo, mentre nella sala qualche spettatore sparuto ci appare congelato in una specie di immobilità proiettiva. Sono fotografie di luoghi in rovina. I Drive-In, soprattutto, nati negli anni ’30 e giunti al loro apogeo nei tardi anni ’50, esprimono un senso acuto di desolazione, di abbandono. Documento architettonico, luminosità schermica: non so perché, ma quelle fotografie mi hanno sempre fatto pensare a Robert Mitchum. Che non era solo un divo hollywoodiano, un rozzo gangster, ma un acuto osservatore dei meccanismi della macchina cinema. Nel 1953, in un’intervista promozionale per l’uscita di Second Chance, film di Rudolph Maté realizzato in 3-D, egli improvvisamente si ritrova ad evocare un tempo futuro, dove semplici visitatori di una di queste sale si sarebbero posti questa domanda: a cosa sarà mai servito, a quale culto sarà mai stato votato il luogo in cui si trovano, con le poltrone rivolte in un’unica direzione, e senza simboli religiosi presenti?

Robert Mitchum aveva la vista lunga. Aveva previsto nel 1953 ciò che Hollis Frampton si sarebbe apprestato a scrivere diciotto anni dopo, nel 1971: ogni attività umana può essere considerata arte solo nel momento in cui la sua vera epoca sia scemata nella totale obsolescenza. E il cinema, come “ultima macchina nata nell’era delle macchine”, tale stava per diventare. Era forse questo l’aspetto che intrigava anche Hiroshi Sugimoto?

Senza rendercene conto, ciò che abbiamo qui evocato è un rapporto dialettico. Abbiamo avvicinato alcuni elementi: le sale cinematografiche di Hiroshi Sugimoto, quella di Robert Mitchum e il fantasma di Hollis Frampton. Stiamo forse facendo cinema, inconsapevolmente? Perché, in fondo, è così che funzionano le Histoire(s) du cinéma. Malinconici, luttuosi, gli otto capitoli che la compongono mettono in movimento la storia del cinema, prendendola contro-pelo. Jean-Luc Godard ha lavorato a questo progetto dalla fine degli anni ottanta al 1998. Ma già agli inizi della sua carriera egli sembrava destinato a questo.

Histoire(s) du cinéma: non un’arte, e neppure una tecnica: piuttosto un mistero. Al suo interno, le immagini oscillano, si cancellano, si stratificano in sovrimpressione, si incrostano, si arrestano, rallentano, spariscono in un flash, lottano con le scritte dei cartelli. Ogni cosa è colta in un flusso, arrestata, comparata via montaggio. Con gli strumenti tecnici del video, Jean-Luc Godard espone la storia del cinema su un tavolo operatorio, la seziona, isolando gesti, sguardi, montandoli con dettagli di figure della storia dell’arte, vecchie fotografie, cinegiornali bellici, pagine di letteratura, lunghe citazioni da testi filosofici e scientifici, frammento di dialoghi, sinfonie musicali. Questo gesto di scomposizione, dissezione e analisi, crea tensioni e incrocia un breve passo profetico di Walter Benjamin, contenuto nel suo “Sulla facoltà mimetica”, spesso citato da Georges Didi-Huberman: «Leggere ciò che non è mai stato scritto. Nelle viscere, nelle stelle o nelle danze». E’ questa un’idea euristica prossima a Aby Warburg (si pensi alle viscere e alle immagini del cielo nella Tavola 1 dell’Atlante Mnemosyne), che Jean-Luc Godard potrebbe aver fatto propria? Vedere, piuttosto che leggere, aprire la storia del cinema, per prendere posizione, cioè mettere in movimento il suo corpus via montaggio, lavorando sulla messa in rapporto di componenti di realtà tra loro distanti. «Due realtà contrarie non si accostano. Si oppongono. / Raramente si ottiene una forza da tale opposizione. / Un’immagine non è forte perché è brutale o fantastica – ma perché l’associazione delle idee è lontana e giusta»,scriveva nel 1918 Pierre Reverdy, nel suo poema intitolato L’image. L’immagine nasce dall’accostamento di due realtà (o di due pezzi di pellicola). Jean-Luc Godard ha spesso fatto suo questo brano, citandolo in almeno sei dei suoi film. E bisogna essere davvero molto colti o molto dotati per considerarsi sismografi, saper cogliere il dettaglio nascosto in grado di far ruotare sul proprio asse la storia di una cultura. Jean-Luc Godard ovviamente non è Nietzsche, né Warburg o Benjamin. Eppure, ci ha provato. Arrestando gesti  e sguardi, rallentandoli, accostandoli, creando choc visivi, lavorando per intervalli, egliha posto la storia del cinema in posizione dialettica, donando loro un nuovo senso e un nuovo tempo, in un accostamento anacronistico. Un po’ come convocare Hiroshi Sugimoto, Robert Mitchum e Hollis Frampton, in una sala cinematografica ormai vuota.

scrive, traduce e svolge attività di programmazione cinematografica. È interessato alle frontiere disciplinari. Collabora con la Cineteca di Bologna, per la quale ha curato il dvd “Histoire(s) du cinéma” di Jean-Luc Godard, oltre che rassegne su diversi filmmaker. Il suo ultimo libro si intitola “Copie originali. Iperrealismi tra pittura e cinema” (Johan & Levi, 2014).

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