Il “geniale” spot tedesco che dichiara guerra al Covid. O ai cittadini?

30/11/2020

Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno ingabbiate, in un secondo tempo descrivono a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale pericolo non è poi così grande, poiché, con qualche caduta, essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo rende tuttavia timorosi e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo.

Immanuel Kant, Che cos’è l’Illuminismo?, 1784

Lo spot tedesco è uno spot “virale” (oltre che “geniale”)

Lo spot commissionato dal Governo tedesco che è stato prodotto per convincere i propri cittadini a restare confinati a casa ha ricevuto una quantità sorprendente di elogi e di apprezzamenti unanimi, non solo se paragonati a tentativi analoghi portati avanti da altri stati europei (si pensi al caso francese e al caso spagnolo) ma anche più in generale nell’ambito dei video promozionali in generale. Fate un giro su internet e provate a vedere voi stessi. L’aggettivo più utilizzato nei commenti per giudicare lo spot è «geniale». Spicca per assenza anche di un minimo di capacità autocritica e di senso del ridicolo l’aggettivo «virale» attribuito allo spot, in moltissimi titoli di quotidiani. Molto più acuti, oltre che più divertenti, sono i commenti al video che si trovano su Youtube. In ogni caso, l’unanimità degli elogi espressi da giornalisti, commentatori vari, è a dir poco inquietante. Non tanto perché l’unanimità di un giudizio (sia esso estetico, ma non solo) sia di per sé inquietante, ma per le ragioni che stanno dietro a questo giudizio e per i contenuti e per la forma dello spot in questione.

Si può fare una guerra contro un virus?

La struttura dello spot è molto semplice: un anziano signore ricorda i tempi della seconda ondata della pandemia Covid nel 2020, con un’implicita ma molto evidente analogia tra i nonni che ricordano al nipote le tragiche esperienze passate in guerra. Ad aiutarci in questa analogia – qualora ce ne fosse bisogno – c’è la colonna sonora di sottofondo, pomposa e patetica, come in un brutto film di guerra hollywoodiano. Soltanto che in questo caso la «guerra» da combattere è contro un virus e il fronte sul quale siamo stati posizionati dallo stato maggiore in questo conflitto è il divano di caso nostra.

La prima analogia che lo spot istituisce senza possibilità di dubbi è la seguente: tutti i provvedimenti volti a limitare la diffusione del virus sono una guerra. Ma siamo davvero sicuri che questa analogia  – il virus come una guerra – sia adeguata per coinvolgere i cittadini a far comprendere i pericoli di questa malattia e a farli collaborare attivamente alle misure di salute pubblica? Alcuni decenni fa, Susan Sontag in un pamphlet intitolato proprio Malattia come metafora. Il cancro e la sua mitologia ci aveva messo in guardia dall’impiego disinvolto o inconsapevole di metafore da porre in relazione con le malattie perché la deriva «moralistica» e «colpevolizzante» (si pensi al caso dell’Aids) connessa a tale costruzione retorica è inevitabile e incontrollabile. Altrettanto pericoloso nella costruzione di metafore legate alla malattia è l’apertura di un varco irriducibile fra chi è sano e chi è malato. Non solo, il tipo di carico simbolico della malattia – in primis quello della guerra: “guerra contro l’Aids”, “guerra contro il cancro” ecc. – svia l’attenzione rispetto alla effettiva comprensione delle cause della malattia e dei suoi effetti nella vita civile. Già secoli fa Ippocrate si era impegnato a decostruire l’alone metaforico e sacro che avvolgeva l’epilessia – ritenuta malattia sacra – affinché potessero finalmente venire alla luce le cause della malattia stessa grazie all’uso della ragione:  «Riguardo alla malattia chiamata sacra», scriveva Ippocrate, «le cose stanno così: a me sembra che non sia per nulla più divina delle altre malattie, né più sacra, ma in realtà una origine, donde deriva, che hanno anche le altre malattie. Ma per questa gli uomini ritennero che origine e causa fossero un fatto divino per mancanza di esperienza e per la sua stranezza, visto che non assomiglia per nulla ad altre malattie; e in base alla difficoltà per loro del non comprendere viene a essere garantita l’origine divina (…)».

Anche un po’ di secoli dopo Ippocrate, la metaforizzazione della malattia continua a portare con sé una sua sacralizzazione, nel senso di una sua separatezza rispetto alle possibilità di comprensione razionale e all’intervento operativo umano e con ciò un’incapacità di comprensione delle cause e quindi un’impossibilità di relazionarsi in modo efficace ai suoi effetti.

Quanto la retorica metaforizzazione della “guerra all’Aids” ha inciso sia nella formazione in merito ai pericoli connessi all’attività sessuale, sia nei confronti dello sviluppo della ricerca? Sarebbe facile mostrare che la metafora della guerra non è servita in alcun modo in questa direzione, anzi ha prodotto danni che si ripercuotono ancora oggi: la retorica della “guerra all’Aids” ha alimentato stigmi e stereotipi o addirittura demonizzazioni che sono andate a detrimento di tutte le forme di consapevolezza dei cittadini nei confronti della malattia. L’Aids riguarda drogati, omosessuali e prostitute, solo loro sono in pericolo, solo loro sono il pericolo.

Guerre camuffate e “guerre al terrore”

Sorgono ancora più dubbi in merito alla metaforizzazione della lotta al virus Covid in chiave bellica proposta dal «geniale» spot tedesco, se ci concentriamo sul fatto che dalla fine della Seconda guerra mondiale le guerre si sono manifestate con sempre maggiore frequenza secondo due tipologie. Un primo caso sono le guerre non dichiarate e più o meno abilmente nascoste dietro definizioni che mirano a celarne proprio la natura bellica; si pensi a tutte le definizioni che di volta in volta si sono succedute: operazioni di polizia internazionale, operazioni umanitarie o di pacificazione. Il secondo tipo di guerre che caratterizzano la nostra epoca sono quelle dichiarate verso qualcosa che non si può o meglio non si vuole combattere come una guerra: fra tutte la cosiddetta War on Terror. La guerra al terrore è un conflitto in cui il nemico è stato deliberatamente privato didignità politica: il terrore – che non ha nulla a che vedere con la sfera di azione politica dell’uomo – diventa la metafora mediante cui si definisce lo “stato canaglia” di turno, il “nemico” degli Stati Uniti, anzi della democrazia globale. Questa spoliticizzazione del nemico non ha altro scopo ed esito che quello di «spingere la discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali», come scriveva Carl Schmitt nel Nomos della Terra.

Quanti sanno o si ricordano che la guerra in Iraq si è basata su informazioni palesemente false prima ancora che la guerra venisse scatenata relativamente al possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein? Chi si ricorda che lo stesso Tony Blair ha ammesso il «grave errore»? Nove anni di guerra, centinaia di migliaia morti e di distruzione sostenuti dalla propaganda in funzione della mobilitazione dell’opinione pubblica per un conflitto spacciato come necessario contro un nemico assoluto hanno finito per rimuovere la genesi della guerra stessa.

Nel caso del War on Terror, molti hanno osservato che dietro a questa immagine si celava la riduzione a mostro di un nemico politico che potesse giustificare e permettere ciò che il diritto internazionale non avrebbe potuto consentire. Gli Stati Uniti colpivano lo “stato canaglia” non come ci si relaziona in un conflitto giuridicamente normato, ma come San Giorgio (un santo appunto) dall’alto infila la propria lancia nel corpo del drago (un mostro). Proprio facendo esperienza e tesoro di come le guerre sono state condotte negli ultimi decenni oggi dovremmo essere scettici circa la possibilità sia che si possa dichiarare guerra a un virus, sia che la guerra possa essere utilizzata come metafora in grado di coinvolgere i cittadini a condividere consapevolmente comportamenti finalizzati al contenimento dei danni legati all’epidemia. Certo noi possiamo operare singolarmente e collettivamente per circoscrivere e per contrastare gli effetti di una epidemia, ma perché il governo tedesco decide di utilizzare l’immagine della guerra?

Un’osservazione a margine – che poi tanto marginale non è – in merito alle due tipologie di guerre che caratterizzano la contemporaneità: dietro a questi conflitti non dichiarati (ma praticati), oppure dietro a queste guerre contro qualcosa che non può essere un avversario in una guerra si sono nascoste e si continuano a nascondere guerre effettive, materiali, con centinaia di migliaia di morti in carne e ossa (civili e bambini compresi) con tragedie collettive di portata immane. Nessuno di questi conflitti camuffati – proprio in virtù della loro genesi – non solo non è mai riuscito a concludersi con un accordo di pace, con il raggiungimento di un nuovo ordine politico, non solo quasi tutti continuano a trascinarsi in modo più o meno sotterraneo come conflitti, ma hanno pure avuto una ricaduta non compresa e non percepita ancora a sufficienza sulla vita civile nei paesi che proprio queste guerre hanno scatenato. Scatenare la “guerra contro il terrore” ha implicato forti limitazioni della libertà individuale e collettiva che permangono in vigore ancora oggi anche nei paesi non direttamente coinvolti nei conflitti. In nome della libertà democratica globale si sospende la libertà democratica all’interno delle nazioni. Ma la minaccia infinita del terrore è tale, da non consentire più il ripristino di ciò a cui ho rinunciato per “difendere la libertà”.

Queste mi pare siano alcune delle ragioni che dovrebbero renderci almeno scettici nei confronti dell’impiego della guerra come metafora della lotta alla pandemia e come cornice da utilizzare col fine di suscitare comportamenti consapevoli volti ad arginare la diffusione di un virus. Ma se questa metafora viene di fatto impiegata – come nel caso dello spot prodotto dal governo tedesco – tale impiego non può essere slegato dalla rappresentazione implicita che lo stato ha dei cittadini.

“Un pericolo invisibile aveva minacciato tutto ciò in cui credevamo”

Per comprendere questo rapporto tra stato e cittadini – che nemmeno troppo implicitamente è istituito all’interno dello spot del governo tedesco – si deve fare attenzione all’unica parola pronunciata dall’«eroe» dello spot stesso per più di una volta: la parola Schicksal, destino, fato, necessità, una parola che è ripetuta addirittura per ben tre volte in un minuto e mezzo. Questi i contesti in cui la parola è pronunciata. Prima occorrenza: 1) Ai tempi dell’epidemia Covid noi eravamo giovani: (0:17) «22 anni… a quell’età vuoi far festa, studiare, conoscere nuova gente, cose così. Andare a bere con gli amici. Ma il destino aveva in serbo per noi altro»: il destino aveva in serbo per i giovani l’epidemia Covid appunto. Poi: 2) «All’improvviso il destino della nostra nazione era nelle nostre mani». E infine: 3) a 1:17: «Sapete ogni tanto mi viene da sorridere ripensando a quei tempi. Quello era il nostro destino».

Certo la parola «destino» è una parola dall’ampio spettro semantico e può essere impiegata in molteplici sensi, ma in questo contesto esprime in modo inequivocabile una concezione che lega il singolo e la collettività allo stato e alla storia. Lo stato e la storia come «destino» – oltre a evocare la tragica adesione delle masse al fascismo e al nazismo – implica un rapporto di necessità su cui i singoli e le collettività nulla possono decidere e nei confronti del quale non possono prendere posizione. I cittadini devono solo adeguarsi a ciò che prevede lo stato senza porlo in discussione, perché in fondo non c’è nulla da decidere: è destino.

Nella prima occorrenza la parola destino si riferisce all’arrivo dell’epidemia Covid che viene appunto rappresentata come un «destino». Certo un’epidemia può essere intesa come «destino» nella sua fase di irruzione, ma tutte le decisioni che ne conseguono a livello di misure di salute pubblica, di investimenti per la prevenzione e per la cura dei malati ecc. e dei modi di prosecuzione della esistenza nella vita civile sono appunto decisioni e come tali non rientrano nell’ambito del «destino», ma sono sempre orientate eticamente e politicamente. L’orientamento che implicitamente è proposto dallo spot tedesco è il seguente: i cittadini sono destituiti sia di competenza, sia di capacità di decisione. I cittadini non sono soggetti consapevoli, ma soggetti a un destino. Le stesse decisioni assunte dal governo sono il «destino» e come tali non possono nemmeno essere oggetto di discussione, sono sottratte alla dialettica politica.

Nella seconda occorrenza l’«eroe» afferma: «Il destino della nostra nazione era nelle nostre mani». Se si tratta di «destino» e se i cittadini sono stati destituiti di competenza e di capacità di deliberazione, il fatto che il destino sia nelle nostre mani è un modo di dire, un puro artificio retorico. Per lo spot, il destino è nelle mie mani solo nella misura in cui mi adeguo fatalmente senza pensare e senza decidere a ciò che mi viene posto come inevitabile e necessario. Solo in questo modo posso adempiere il mio compito. Da questo momento, il ruolo etico del singolo e la dimensione politica della collettività sono svuotate di senso, sono sospese sine die.

Infine, la terza occorrenza: l’«eroe» sorride e sorride pensando «a quei tempi» non solo per via dello scampato pericolo, ma anche per essere diventato un «eroe» appunto, non facendo nulla, «tenendo il culo sul divano», secondo le parole del nostro.

Nella storia degli stati e nelle trasfigurazioni letterarie – da Davide ad Achille, da Antigone a Medea, da Perseo a Enea, fino alla modernità – gli eroi sono figure umane che interrompono il corso della storia, scegliendo dove andare, prendendo posizione consapevolmente, operando attivamente per modificarne il corso. Per esempio, quando qualcuno parla di un «eroe della Resistenza» penso a un uomo o a una donna che con la loro libera scelta e con la loro azione consapevole hanno contribuito a costruire una repubblica fondata sulla Costituzione, operando attivamente per porre fine alla dittatura fascista. Dopo l’azione compiuta dall’eroe, la comunità degli esseri umani vede la storia da un’altra prospettiva e acquisisce quelle qualità etiche e politiche che aveva perduto o che non aveva mai posseduto.

Mai come in questo spot la parola «eroe» è usata in modo differente rispetto a tutti gli impieghi che ne sono stati fatti fino a oggi. Qui «eroe» non è nemmeno chi semplicemente limita la propria mobilità come forma di contrasto all’epidemia, ma chi si riduce all’inazione e chi si appiattisce senza pensare, senza collaborare a una decisione, senza agire. Questo nuovo eroe deve solo obbedire a un «destino», pertanto deve abdicare pure alla propria responsabilità. Ma d’altra parte questo eroismo del non decidere nulla e del non prendere posizione su nulla era preannunciato dal tipo di rapporto che è stato istituito in tutto lo spot tra cittadino e stato, tra cittadino e storia. Nel sequel dello spot il rovesciamento paralizzante della figura dell’eroe è ulteriormente rafforzato: «Tempi speciali, richiedono eroi speciali». Eroi così «speciali» che sono tutt’altro che eroi o segnano la mutazione genetica della figura dell’eroe, la sua trasformazione in uno zombi. Tutto deve essere accettato in nome di un destino di cui il governo e le istituzioni sanitarie sono gli unici depositari e su cui i cittadini (o meglio i consumatori) sono privi di competenza. Un cittadino chiamato a pensare, a decidere su ciò che è giusto o sbagliato e con ciò a essere eticamente e politicamente responsabile non solo non è nemmeno preso in considerazione, ma addirittura è implicitamente rappresentato come un pericolo. Non è tanto l’epidemia in quanto tale a essere un pericolo assoluto e che minaccia «tutto ciò in cui credevamo», ma questa concezione destinale applicata allo stato a svuotare l’idea stessa di cittadinanza.

«È facile essere un eroe nel 2020», dice l’eroe di sé stesso nello spot, basta non pensare, non decidere, non assumersi una responsabilità, basta non fare nulla, dove il fare nulla è uguale a conformarsi al «destino». Ma che essere umano è quello che abdica a ogni decisione etica, alla dialettica politica? Hannah Arendt in Vita activa utilizzava il termine «metabolismo». Estirpata la dimensione etica e politica dell’essere umano – come ci invita a fare lo spot del governo tedesco – rimane solo il suo «metabolismo».

Uno spot davvero “geniale”?

In fondo, oltretutto, lo spot anticovid tedesco tanto geniale non è, visto che il messaggio che ci viene ammannito sembra ricopiato da un altro “spot” degli anni Ottanta, forse lo “spot” per eccellenza degli anni Ottanta, ancor di più del celebre spot Ramazzotti che trasforma il capoluogo lombardo nella «Milano da bere». Vi ricordate quando Margaret Thatcher ripeteva come un mantra There is no alternative riferendosi alla assenza di alternativa al neoliberismo e al processo di globalizzazione neoliberista tutt’ora in corso? Il messaggio di quello “spot” vecchio di quarant’anni inventato dal primo ministro inglese – e tradotto pari pari in tedesco dal socialdemocratico Gerhard Schröder – è in fondo tutto quello che si ritrova nello spot dell’«eroe» tedesco che fa la guerra al Covid. Con il There is no alternative la contingenza di uno specifico modello economico veniva (e viene) contrabbandata come destino e pertanto ogni tipo di confronto dialettico, di responsabilità, di critica presa di posizione nei suoi confronti è fin dall’inizio destituita di senso: non c’è alternativa, pertanto spegnete ogni vostra velleità di esercitare il pensiero, di agire, perché di fronte al destino tutto è inutile. Abbandonarsi al corso della corrente è tutto quello che potete “fare”. Se mai avete letto Che cos’è l’Illuminismo, per favore buttatelo – e con lui tutto Kant – e riducetevi – se non lo avete ancora fatto – in uno stato di minorità.

È proprio la parola destino che svela come lo spot tedesco in questione non sia altro che l’edizione aggiornata al clima della pandemia del There is no alternative coniato della Thatcher, solo che al posto dell’odiosa e ormai vetusta «Lady di ferro» abbiamo un fresco «eroe, un idolo, un cittadino modello» – come recita il sequel dello spot – che dal futuro ci ricorda i bei tempi della pandemia del 2020, quando da cittadino pensante si è mutato in «cittadino modello», ovvero in un «pigro procione». O per dirla con Arendt è diventato mero «metabolismo».

Nello spot si evita accuratamente qualsiasi riferimento all’idea di cittadinanza, di responsabilità, di giustizia, attraverso cui invitare gli uomini e le donne tedesche a limitare la propria mobilità. Più che coinvolgerci attivamente e consapevolmente a non organizzare feste danzanti o aperitivi si spinge ben oltre grazie all’introduzione della metafora della guerra e grazie alla centralità della nozione di destino. Più che un video che si rivolge a una comunità politica è un breviario da 1 minuto e mezzo che si rivolge alla massa dei clienti, è un manuale del consumatore all’epoca del neoliberismo; seguite l’esempio dell’eroe dello spot: trascinatevi dal letto al divano, non ponetevi domande, ingozzatevi di pop corn, guardate la tv, intrattenetevi davanti al computer – almeno finché avete tutto questo – e comunque vada anche quando sarà finita la pandemia per favore continuate a non porvi domande (e a non porcele), non pensate, non agite, non preoccupatevi della polis (perché non esiste più), non preoccupatevi dell’ecumene (anche quella è in pericolo, ma non importa), state tranquilli siete in buone mani, nelle mani del destino. Anzi, nelle mani del neoliberismo.

Maurizio Guerri

è docente distaccato all’Istituto nazionale Parri; insegna Filosofia contemporanea e Storia della comunicazione sociale all’Accademia di Brera; è docente a contratto al Dipartimento di Filosofia “P. Martinetti” della Statale di Milano. Al centro dei suoi studi la cultura visuale, il rapporto tra immagini e storia e l’uso politico delle immagini; le forme della testimonianza. Tra le ultime pubblicazioni: diversi capitoli in A. Pinotti (a cura di), “Costellazioni. Le parole di W. Benjamin”, Einaudi, Torino 2018; “Le immagini delle guerre contemporanee” (Meltemi, 2018), “Filosofia della fotografia” (con F. Parisi, Raffaello Cortina, 2013), “Potenza dell’arte e necessità dell’estetica” (Mimesis, 2012). Ha curato l’edizione italiana di diversi testi tra cui Petter Moen, “Møllergata 19”, Quodlibet, 2019; E. Jünger ed E. Schultz, “Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo” (Mimesis, 2017, 2 ed.); S. Kracauer, “Gli impiegati”, Meltemi, 2020; K. Tucholsky, J. Heartfield, “Deutschland, Deutschland über alles”, Meltemi, 2018. È membro della redazione di “Italia contemporanea” e di “Novecento.org”; dirige la collana “Estetica e culture visuali” di Meltemi.

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