La ricerca, non di un effetto, ma di una presenza reale

28/11/2020

Grazie a Stefania Zuliani – che lo ha recuperato – offriamo ai nostri lettori questo testo disperso, e finora mai tradotto in italiano, di Leiris. La traduzione è di Sara Svolacchia, si ringrazia Marina Galletti.

A.C.

La tendenza più comune dell’arte statuaria o, meglio, delle arti statuarie negro-africane, è stata identificata sin dal 1915 da Carl Einstein, il quale individuò con acume ciò che di norma definisce le qualità principali di quella che all’epoca veniva chiamata “arte negra”: architettura solida dell’opera che si impone nella sua “esistenza spaziale immediata”, malgrado il formato quasi sempre esiguo e soltanto attraverso la forma molto rigorosa. Un’articolazione chiara di ognuna delle parti, integrate all’unità d’insieme e, al tempo stesso, dotate di una sorta di autonomia propria. Qualità, queste, che l’autore riconduce al fatto che il lavoro dell’artista – nella fattispecie, “uffizio religioso” – è la pia realizzazione di una figura canonicamente definita, resa trascendente dalla sua stessa funzione, e non la “ricerca di un effetto” su quanti si troveranno di fronte alla scultura o le gireranno attorno. “Considerare l’arte negra come ricerca dell’effetto, scrive Einstein, è un’assurdità, specialmente se si pensa che l’adorazione degli idoli si svolge spesso nell’oscurità”.

Secondo Einstein, la scultura è un’arte che, mettendo in gioco delle masse reali, ma di per sé non dotate di virtù, ha come ragion d’essere di costruire un’opera in cui la qualità del corpo situato nello spazio è affermata come tale. Questo può accadere solo se la forma imposta alla materia inerte è in grado di fornire la percezione completa dell’opera in quanto oggetto indipendente e chiuso che occupa una certa porzione dell’estensione. Quanto avviene assolutamente e immediatamente, ossia senza che l’occhio debba muoversi e che la comprensione della forma si operi così attraverso uno “sviluppo nel tempo”.

Salvo rare eccezioni (Bisanzio e l’arte romana), la scultura occidentale, per il fatto stesso di essere sostanzialmente destinata a produrre un certo “effetto” su chi la osserva, si è orientata verso una pista errata. Una pista che consiste nell’applicare alla scultura dei mezzi descrittivi di natura più o meno spettacolare, mezzi che però non sono altro che “surrogati pittorici” giacché si realizza così un aggiustamento delle superfici e non una vera e propria organizzazione dei volumi.

Al contrario, gli scultori africani fanno vera scultura perché, essendo per loro la statua la “realtà mitica e chiusa su se stessa” che essa rappresenta, oppure il suo luogo d’elezione, non possono utilizzare per la fabbricazione di tale oggetto che, innanzitutto, deve esserci, dei mezzi che siano solo “vaghe suggestioni ottiche”. Questi scultori sono perciò portati a risolvere il problema cruciale: articolare i volumi in modo che emerga in maniera evidente, e sia colto senza alcuna esitazione, il fatto che la natura di questi ultimi è di estendersi pregiudizialmente nelle tre dimensioni. Tale estensione, la cui espressione ha a che fare con la struttura, e non con la massa materiale, si manifesterebbe attraverso l’aspetto esile e spoglio di una statua sulla quale “si ha l’impressione di non avere alcuna presa”.

È quindi dal carattere religioso della scultura africana che Einstein desume quelle qualità che le conferiscono così tanto valore. Poiché la statua è un dio o, quanto meno, il “ricettacolo di una divinità”, essa è dotata, di per sé, di una trascendenza che esclude, in quanto inutile, ogni ricerca di effetto volto a imporre tale trascendenza. È proprio questo che, impedendo all’artista di distogliersi dall’essenziale, lo porta a esprimere il volume in tutta la sua interezza. L’opera riveste allora una “parvenza di cosa in sé” invece di essere percepita “come una creazione artificiale, come il prodotto dell’arbitrio individuale”. Allo stesso modo, l’autonomia degli elementi “è ugualmente legata a un imperativo religioso. Ognuna delle parti esprime il senso che possiede da sé stessa e non quello che lo spettatore potrebbe conferirle”. L’integrazione di tali elementi è operata in funzione della necessità di dare all’insieme una “forma chiusa ed ermetica che gli conferisca una realtà propria”. “L’arte continentale si è intrappolata in una variazione dell’effetto che rivela allo spettatore la sua libertà e la sua facoltà d’indifferenza. L’arte del Nero è categorica. Essa trasmette il messaggio dell’essere. Vieta l’astensione”. In altre parole, l’arte negra si oppone per sua essenza al dilettantismo e può essere considerata come arte engagé per eccellenza.

Juan Gris

A un’inchiesta promossa a Parigi nel 1920, il pittore cubista Juan Gris rispondeva con queste parole: “Le sculture negre ci offrono una prova flagrante della possibilità di un’arte anti-idealista. Animate da spirito religioso, esse sono manifestazioni diverse e precise dei grandi princìpi e delle idee generali. Come si può non riconoscere un’arte che, procedendo in tal modo, è in grado di individualizzare ciò che è generale e ogni volta in modo diverso? È l’opposto dell’arte greca che si basava sull’individuo per tentare di suggerire un tipo ideale”. Gris si schiera in tal modo a favore dell’arte negra giacché ritiene di trovarvi la risposta a quella che sarebbe stata la sua preoccupazione dominante in ambito plastico: procedere per deduzione (ossia, andando dal generale al particolare) e non per induzione (a cui può essere ricondotto il procedimento dello stesso Cézanne, il quale voleva “rifare Poussin sulla natura”); non partire più da ciò che è mero accidente per cercare di trarne un’essenza, ma impegnarsi a “definire le forme”. Forme che sono dapprima date nella loro vacuità geometrica e in seguito si incarnano in oggetti determinati, come questo piatto, questa bottiglia o questo pacchetto di tabacco, in cui il cerchio, il cilindro o il cubo che intervenivano nel canovaccio mentale del dipinto si andranno a concretizzare. Lo faranno attraverso un movimento certo non identico, ma almeno dello stesso orientamento di quello con cui, nella maggior parte dei casi, lo scultore negro va dall’idea del dio o dell’antenato alla figura che la materializza, a differenza dello scultore greco che si sforza di innalzare alla bellezza divina gli esemplari di umanità a cui si è ispirato. Indicando la direzione “anti-idealista” dell’arte negra, che non tende a tipizzare ma a concretizzare, Juan Gris è intuitivamente in sintonia con il più noto dei poeti africani d’espressione francese: il capo di Stato Léopold Sedar Senghor, che sentii una volta definire le civiltà dell’Africa come civiltà dell’“idea incarnata” e che scrisse che l’arte dell’Africa nera è “partecipazione sensibile alla realtà che sottende l’universo, alla surrealtà, più esattamente alle forze vitali che animano l’universo”. La dichiarazione di Gris dimostra che non è affatto paradossale considerare realista quest’arte in cui l’imitazione, di norma, gioca un ruolo minimo: ciò che conta, nella fattispecie, non è un naturalismo superficiale (una copia più o meno deformata o idealizzata delle apparenze), ma il fatto che le sculture negre, in quanto “manifestazioni diverse e precise dei grandi princìpi e delle idee generali”, si pongano come realtà presenti e non come mere effigi.

“Riflessioni sulla statuaria religiosa dell’Africa nera” in Tradizione e modernismo in Africa nera (volume collettivo di prossima pubblicazione per Les Éditions du Seuil)


Pubblicato nel settembre 1964 dalla rivista «Cahiers pédagogiques» all’interno di un numero dal titolo Enseignement et civilisation en Afrique noire d’expression française, il testo è un frammento del saggio Réflexions sur la statuaire religieuse de l’Afrique noire, apparso nel volume Les Religions africaines traditionnelles, Éditions du Seuil, Paris 1965 e non in Tradition et modernisme en Afrique noire come erroneamente indicato in calce all’articolo.

Pur nella sua brevità, il contributo documenta i caratteri peculiari che definiscono la riflessione condotta da Leiris sulla scultura africana, divenuta progressivamente oggetto di una ricerca che, muovendo da suggestioni e invenzioni d’avanguardia, ha poi sempre più decisamente adottato metodi e strumenti proprio della disciplina etnografica, mantenendo comunque vitale la problematicità di uno studio ritenuto irriducibile alla rigidità di un esclusivo paradigma scientifico. Se appare chiaro che Leiris attraverso i suoi scritti di africanista ha disegnato una parabola che conduce dall’esotismo un po’ ingenuo dell’art nègre ai dati e alle date dell’arte africana, oggetto del volume Afrique Noire: la création plastique firmato nel 1967 insieme a Jacqueline Delange, è infatti altrettanto vero che non si tratta di un passaggio lineare e privo di incertezze, ripensamenti, esitazioni. L’inedito Préambul à une histoire des art plastiques de l’Afrique noire, che Jean Jamin ha ritrovato negli archivi del Musée de l’homme e presentato nel volume Miroir de l’Afrique (1996) dice con chiarezza le difficoltà di un’impresa – quella di offrire uno sguardo d’insieme sulla produzione plastica africana – viziata dall’inevitabile parzialità di una ricostruzione che non poteva non avvalersi di criteri e categorie proprie della cultura occidentale. Uno per tutti, il “pregiudizio” dell’esistenza di un’arte africana. Una questione che Leiris discute senza risolvere, scegliendo anche nel testo che qui si presenta di riferirsi, nonostante il contesto decisamente etnografico per il quale era stato pensato (gli Incontri internazionali di Bouaké del 1962), ai protagonisti della scoperta dell’art negre agli inizi del Novecento. Allo storico dell’arte Carl Einstein, collaboratore di «Documents» e autore nel 1915 del seminale Negerplastik, «un’operetta debole dal punto di vista etnologico ma importante sul piano estetico» cui Leiris avrebbe costantemente guardato nella sua discussione sulla scultura dell’Africa nera, e a Juan Gris, artista cubista che aveva sostenuto il carattere radicalmente anti-idealista della scultura nera.

Quella di Leiris resta insomma una posizione francamente ambigua, non disposta a rinunciare nell’interpretazione dell’arte africana né alle ragioni dell’estetica né a quelle dell’etnografia. Presentando la collezione di oggetti provenienti dall’Africa nera conservata al Musée de l’Homme, che dal 1938 era stata la sua seconda casa, Leiris aveva sostenuto senza esitazioni la necessità di adottare un punto di vista tale che «dell’oggetto non sfugga né il motivo per cui possa o meno rappresentare una bella creazione dell’industria degli uomini, né in che cosa esso sia documento prezioso per conoscere la vita delle società, a un tempo così diverse e così simili perché in tutte c’è una stessa infelicità umana a cui, utilizzando gli strumenti in dotazione, si tenta di sfuggire».

Stefania Zuliani

Le immagini sono tratte, per la cortesia di Humboldt Books e Quodlibet, dalla nuova edizione dellAfrica fantasma da loro pubblicata.

Michel Leiris

(1901-1990) è stato poeta, scrittore, etnografo e amico dei più grandi artisti e scrittori del suo tempo. Nel 1924 prese parte al movimento surrealista, ma se ne distaccò cinque anni più tardi. Dal 1930 si dedicò alla scrittura e dal 1934 lavorò come etnografo al Musée de l’Homme, professione che lo portò a fare lunghi viaggi in Africa, nelle Antille, in Cina e a Cuba. Partecipò al Collège de sociologie e dal 1946 fu redattore di «Les temps modernes».
Ricevette nel 1952 il Prix des Critiques e nel 1980 rifiutò il Grand Prix national des Lettres. Oggi è considerato un classico e la sua opera è entrata nella Pléiade. Tra i suoi libri tradotti in italiano: "Età d’uomo" (Mondadori, 1966), "Africa nera. La creazione plastica" (Feltrinelli, 1967), "Carabattole" (Einaudi, 1998), "Specchio della tauromachia e altri scritti sulla corrida" (Bollati Boringhieri, 1999), "L’occhio dell’etnografo. Razza e civiltà e altri scritti 1929-1968" (Bollati Boringhieri, 2005).

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