Premio Nazionale Elio Pagliarani
Oggi alle 17 – ahinoi in diretta Facebook – si tiene la cerimonia di assegnazione della sesta edizione del Premio Nazionale Elio Pagliarani, organizzato dall’Associazione letteraria intitolata alla memoria dell’autore della Ragazza Carla e della Ballata di Rudi (1927-2012) e dedicata allo studio della poesia contemporanea, sotto il patrocinio del Teatro di Roma. I finalisti della sezione poesia edita sono Laura Accerboni con Acqua acqua fuoco (Einaudi), Laura Cingolani con Mangio alberi e altre poesie (edizioni del verri) e Aldo Nove con Poemetti della sera (Einaudi); quelli della sezione poesia inedita sono Mauro Barbetti con Frammenti di zone soggette a videosorveglianze, Laura Cingolani con Fare lo spazio e Francesca Gironi con A.
Ogni anno viene conferito anche un premio alla carriera: dopo Nanni Balestrini, Giulia Niccolai, Carlo Bordini, Carla Vasio e Walter Pedullà, quest’anno tocca a Tomaso Binga, premiata per la sua opera di poeta e artista. E anche quest’anno consiste di un’opera d’arte originale del nostro tempo: dopo Gianfranco Baruchello, Marina Ballo Charmet, Emilio Isgrò, Gian Maria Tosatti ed Elisabetta Benassi, stavolta il premio consiste nell’opera La fattura per non pensare di Mirella Bentivoglio, donata da Ilaria e Leonetta Bentivoglio e riprodotta in questa pagina.
La serata, condotta da Maria Grazia Calandrone, si aprirà con la lettura di una poesia di Carlo Bordini – premio Pagliarani alla carriera 2017, che ci ha lasciati il 10 novembre – da parte di Anna Rita Chierici (info: premioeliopagliarani@gmail.com). Riportiamo qui la motivazione del premio a Tomaso Binga, di Andrea Cortellessa, e la presentazione dell’opera di Mirella Bentivoglio, di Paolo Cortese.
Il corpo spiritoso della lettera
di Andrea Cortellessa
Poco prima che il mondo per noi si chiudesse, e ci mettesse in un castigo del quale ancora non vediamo neppure l’ora d’aria, una sede topica del lusso e della frivolezza come l’ultima sfilata della collezione prêt-à-porter di maison Dior, ai giardini del Musée Rodin, a sorpresa s’è riempita delle Scritture viventi e dell’Alfabetiere Murale di Tomaso Binga: un’artista che, con la sua innata irriverenza e la sua intatta forza di provocazione, mai avremmo immaginato potesse trovarsi a suo agio in un contesto come quello. A torto, evidentemente. Quello che è da sempre un tempio dell’icona femminile con intelligenza ha saputo riconoscere il valore, ma anche la seduzione, di chi da sempre ragiona su questo enigma – per noi maschietti – e su questa realtà – per loro femminucce. Del resto le Scritture di Binga, nei ‘caldi’ anni Settanta, stiepidivano ben bene i fasti un po’ algidi delle «ginecografie» – come giusto allora le chiamava un soggiogato Roland Barthes – del genialissimo, spiritosissimo, frivolissimo Romain de Tirtoff, in arte Erté. Solo che al posto delle donne-sogno, delle donne-uccello, delle donne-colore screziatissime e drappeggiatissime dal genio dell’Art Nouveau, a campeggiare qui è un solo corpo di donna, perfettamente nudo e crudelmente anatomizzato dal bianco e nero: quello della stessa artista, certo.

Nondimeno – ripercorrendo una traiettoria, come quella di Binga, anche cronologicamente ormai ragguardevole – si finisce per pensare che un po’ in tutte le sue diverse o diversissime stagioni, pure nel suo caso, sempre sia stato vero quanto diceva appunto Barthes di Erté: al contempo la Donna presta «alla Lettera la sua figura», ma la Lettera altresì «conferisce alla Donna la sua astrazione». Tratto e icona, parola-segno e parola-corpo, spiazzante nonsense e slogan militante diventano con Binga una cosa sola. Se c’è una figura in cui scrittura delle immagini e figurazione delle parole da sempre s’incontrano con la “presenza” del corpo politico – lo «sperimentare con la vita», per dirla con Amelia Rosselli – questa è Tomaso Binga: poetessa sonora, giocosa performer e insieme artista visiva. Per prima cosa, infatti, Bianca Pucciarelli Menna pensò bene di scandalosamente ‘scrivere’ il proprio nome al maschile, quale Tomaso Binga appunto (rubando la costola di una «emme», ha spiegato, all’ammirato Marinetti): così, con gesto semplice quanto radicale, volendo segnare a dito millenni di discriminazione.
Né va trascurato – pensando ai Laboratori di Elio Pagliarani, che poco dopo si aggiunsero al panorama della medesima effervescente Roma di quegli anni – lo spazio espositivo-performativo del Lavatoio Contumaciale, realtà indipendente tuttora in attività al quale Binga diede vita nel ’74 insieme a suo marito, il grande critico d’arte Filiberto Menna, e presso il quale sono passati un po’ tutti i poeti e gli artisti, i musici e i teatranti inquieti di allora e di oggi.

Per omaggiare Tomaso Binga nella chiave della Sorellanza – parola che le piace più di «femminismo», termine a suo dire logorato – non potevamo pensare che a una vera e propria sorella maggiore, nella militanza verbovisiva non meno che in quella politica, come Mirella Bentivoglio: che nel ’78 invitò Binga alla grande mostra al femminile Materializzazione del linguaggio, da lei curata per la Biennale di Venezia. Nel ringraziare Giuseppe Garrera, che tanto va facendo in questi anni per valorizzare quest’«altra metà dell’avanguardia» – per così ricordare un altro corpo- e spirito-guida che ci ha appena lasciati, Lea Vergine –, siamo felici di tracciare in questo modo, grazie altresì alla generosità delle eredi Bentivoglio, una linea rossa tanto precisa quanto essenziale.
In tempi non sospetti, Binga ha raccontato di recente l’origine onomastica, in sé piuttosto misteriosa in effetti, del «luogo d’incontro e d’aggregazione» al quale ha legato il suo nome, i suoi nomi. «Lavatoio Contumaciale», stava dunque scritto a grandi caratteri smaltati – ancora il corpo della lettera! – su una targa di ferro all’ingresso di quello spazio abbandonato in cui s’imbatté, un bel giorno, dalle parti di Lungotevere Flaminio. Si trattava di un «lavatoio a distanza dove venivano lavati e bolliti i panni delle malattie infettive», e parve allora il nome più adatto a chi voleva «lavare e bollire le idee infette o passatiste». Oggi che contumaci ci tocca essere un po’ tutti, c’è solo da sperare che questa vocazione all’igiene intellettuale, e all’artistica guarigione, anche meno metaforicamente possa suonare come una parola di buon augurio.
La fattura per non pensare
di Paolo Cortese

L’opera serigrafica è stata eseguita in occasione di una mostra tematica dal titolo Cartoline per Como, nel 1978. L’artista decide di rappresentare contestualmente l’immagine di personaggi che indossano i costumi folcloristici del territorio, desunti appunto da un souvenir postale e probabilmente identificabili con Renzo e Lucia del Manzoni, e la classificazione di vari ferri e spilloni (ferro da calza, spiedino, spillo, ago) alludenti alla acconciatura del personaggio femminile. La raggiera della donna, che è la “sua condanna”, richiama in un certo senso quel carattere lesivo, costretto, o quanto meno poco comodo e confortevole, di rispondere ai gusti dettati delle mode di ogni epoca (ad esempio corsetti, scarpe strette, ecc.). Nel caso specifico il tema dell’ago sottintende quel silenzioso linguaggio secolarmente caro alla donna, confinata nel territorio espressivo del ricamo, del rammendo e della tessitura, e viene condensato nello strumento della “fattura” che le impedisce di esprimere il suo libero pensiero.
In copertina: Tomaso Binga fotografata da Dino Ignani