Uscito nell’ottobre 2020 TEMPO PERSO. Danza e coreografia dello stare fermi, ultimo libro di Stefano Tomassini pubblicato da Scalpendi Editore nella collana Bermudas a cura di Rino De Pace, è un testo che ci parla del presente e che in questi giorni si riafferma nella riflessione contemporanea per la sua “inattuale” attualità. Concepito precedentemente al primo lockdown come sequel di TEMPO FERMO – Danza e performance alla prova dell’impossibile, si nutre di una ricerca straordinariamente profetica, che si integra con lo studio del cambiamento delle condizioni artistico-produttive in ambito coreografico, nell’epoca del distanziamento dovuto alla condizione pandemica. È un libro che riguarda il limite del corpo e che interroga la possibilità di ripensare il tempo, coreografico e performativo, nella sua assoluta dépense, e quindi come tempo liberato dal capitale, dall’accelerazione della produzione dovuta all’avanzare del neoliberismo nelle pratiche artistiche e curatoriali: un vortice che procede per numeri, algoritmi, comprimendo la creazione e trasformandola incessantemente in prodotto, merce, consumo.
È un libro che interroga la resistenza, quella del corpo prima di tutto: la sua resistenza al movimento, all’azione, alla conquista dello spazio, convertendola in campo d’ascolto, osservatorio delle micropartiture che si liberano nell’organismo, nella dimensione articolare, luogo dell’inatteso e dell’accadimento.
Il volume, in un intarsio di riferimenti letterari raffinati che distingue da sempre lo stile di Tomassini, prende avvio con una serie di citazioni che rimandano al procedere volutamente non lineare, seppur analitico, del testo, e alle declinazioni con cui la riflessione sul tempo e sulla sua relazione con la danza si articolerà nelle pagine. Nell’incipit ne vengono evocate alcune, attraverso rimandi alla filosofia e alla letteratura. Appare la congelata stasi del serpente millepiedi Coaticlue descritta da Gloria Anzaldùa, che si configura come “attività (non immobilità) allo stato più dinamico (…), movimento sotterraneo che richiede tutta la sua energia”; o la riflessione di Elias Canetti che nel suo “Il Libro contro la morte” contrappone all’andamento progressivo e quindi mortifero della concezione positivista del tempo la strategia salvifica e sottrattiva del “fare tutto a tempo sommamente indebito” nel timore “che eseguire le cose nella loro giusta successione equivalga a legittimarne la morte”. E poi subito il tempo nomadico, in Deleuze, e il tempo della resa presente in John M. Coetzee.
Declinazioni tutte di una ostatività di natura bartlebyana al procedere lineare del progresso, a quell’illusione illuministica che abolisce il sacro, la ricorsività, l’effrazione, l’eccesso, la sospensione, la multidimensionalità.
Viene così, nelle pagine, spontaneamente incontro la visione della danza, cantata da T.S. Eliot nei Quattro Quartetti, e in particolare in Burnt Norton:
Al punto fermo del mondo
rotante. Non corporeo
né incorporeo; non da
né verso; al punto fermo
là è danza, ma non arresto
né movimento. E non chiamatelo fissità,
il luogo dove passato e futuro
sono uniti[1].
La danza, nella sua fuoriuscita dal tempo del Kronos in virtù del Kairos, si manifesta come forma alta di pensiero e contemplazione: Non movimento da né verso, non ascesa né declino: un “paradosso, in termini cinetici”, come nota Tomassini, che esprime una quiete non fissa, e diventa emblema della modernità in quanto “immobilità inquieta” (Lepecki).
La questione del tempo posta dall’autore, per la sua natura teorica, artistica e insieme politica, riporta la danza al centro della riflessione estetica contemporanea, assumendo la possibilità di riconoscere “la natura del lavoro coreografico secondo un’idea di danza non più come un’arte, classificata e sottomessa (al sistema produttivo liberista dominato dall’ideologia del consumo) ma come una condizione di possibilità (trascendentale) di tutta l’arte. La logica coreografica, per contro, empirica e convenzionale, agisce allora al di fuori del regime dell’opera (ossia di quell’opera conservabile, trasmissibile)” e aggiungerei quindi rivendibile. Un’opera che si sottrae al prodotto, divenendo virtuosamente inoperosa.
Attraverso una scansione in capitoli che riportano agilmente nel loro incipit l’elenco delle opere analizzate, Tomassini esamina, anatomizza, approfondisce i volti che questo Tempo Perso assume nella ricerca contemporanea e ballettistica, senza trincerarsi in differenze disciplinari. Appaiono cosi in forme diverse il kairos, l’inciampo, il fuori testo, l’immobilità, l’inerzia, il naufragio, il palindromo, il tempo del fallimento, del disinnesco e del reversibile.
Attraversa il tempo fermo della vibralità negli scatti rubati del fotografo Alexey Brodovitch dal dietro le quinte dei Ballets Russes di Montecarlo, immortalati in un aspetto spettrale nell’opera Ballet. Tra fuori fuoco, immagini tagliate e fortuite, appare una “temporalità sfocata” e volutamente sospesa, cifra della modernità e del rifugio del flâneur.
Coglie poi nella possibilità transitiva e intransitiva del danzare isolati nuove dimensioni del rapporto tra il corpo e la città, giocando intorno alla polisemia della parola isolato, trattata di volta in volta come participio passato, aggettivo, sostantivo. Ne deriva cosi un’analisi di There Is No Standing Still, progetto realizzato da Alonzo King e dai danzatori della sua compagnia nel periodo del lockdown composto da una serie di video che raccolgono soli coreografici in contesti urbani e domestici inabitati.

La riflessione poi atterra sull’intelligente visione di Virgilio Sieni con cui il coreografo ha riscritto la città di Venezia durante la direzione della sua Biennale Danza suggellando un profondo legame tra danza, concezione urbanistica e architettura, mettendo al centro la questione dell’isolato come unità minima dell’aggregato urbano. E poi ancora sul lavoro di Michele Di Stefano, coreografo e regista della compagnia MK, che nelle sue vedute e nel moto continuo di corpi, “imprigionati in una fitta ragnatela di movimenti di traffici e routine telecomunicative”, riprendendo Peter Sloterdijk, e accelerati come satelliti rotanti, interroga lo scontro incidentale, l’urto inconsapevole, quel momento di effrazione sempre rivelatore dell’incontro con l’altro nello spazio.
Ma è sui lavori di Cristina Krystal Rizzo che Tomassini sofferma più a lungo la sua riflessione: sulla sua coreografia intesa come forma di esercizio dell’impotere e dell’adynamia, sull’orizzontalità queer nel trasmigrare dei codici e dei segni che contraddistingue le forme di reciprocità e di apprendimento della danza, come contesto di condivisione di pratiche, da corpo a corpo.
Analizzando la Sagra della Primavera. Paura e delirio a Las Vegas di Rizzo, l’autore coglie lo scostamento della coreografa dall’esercizio della sovranità e dell’orientamento allo sguardo: un atto di sottrazione a ogni egemonia relazionale in virtù di una logica del dono in cui “emerge una più forte possibilità: quella di un atto senza potenza, ossia della possibilità di azione in una condizione di impotere”. Si lega cosi alla genesi di questa visione, che in parte, forse più liquida e leggera emergeva già in OTTO, spettacolo del 2003 coralmente concepito da Kinkaleri di cui Rizzo era parte, che del tempo del fallimento, del disinnesco e della reversibilità fa la sua forza e la sua non perduta contemporaneità.

Di questa leggerezza e tenacia, appare nel testo emblematica l’immobilità misteriosa e resistente concepita da Trisha Brown in For M.G. The Movie, lavoro con le musiche originali di Alvin Curran composte attraverso una «long-distance consultation», che tesse attorno al fulcro fisso della stasi una aerea ed evanescente complessità temporale. Una figura di spalle, ferma per tutto il tempo è il perno intorno al quale roteano una coppia e una “maratoneta”, Diana Madden. È proprio il contrappunto tra fissità e movimento, tra tempo perso e tempo agito, e forse diversamente disperso, che genera una tensione drammaturgica che Curran definisce “quasinarrative”.
Di cifra apparentemente opposta, direi plastica, è la concezione che emerge secondo Tomassini nel lavoro di Enzo Cosimi, sculturale, solido, un tempo del naufragio che invece si colloca nello spazio plumbeo e vibratile dell’apocalisse, della fine di ogni tempo, il punto della dispersione malarica e abissale evocata dalla contemporaneità e cosi fortemente attuale, espressa nelle oscurità palustri, immerse nel fumo, del suo Welcome to my world.

Il libro, non a caso, si conclude con un’immagine scattata dal suo autore, Venetikà City, che ritrae Venezia immersa nella foschia, simbolo dell’arresto della città lagunare e del nostro tempo durante la pandemia. La fotografia è commentata da un interrogativo, citazione anche qui, mutuata dall’Oblomov di Ivan Goncarov, che oggi riverbera il ricordo del recente, presente e forse futuro lockdown. “Ma è mai possibile che la nebbia, la tristezza, dei dubbi, dei problemi insoluti ci privino della nostra felicità?“
A darci la risposta è forse tutta l’articolazione del volume, che proprio nella luminosa nebbia del tempo coreografico ritrova nuove forme di sublime, di poesia, di leggerezza, di peso, di sottrazione, di affrancamento all’imperativo della certezza progressiva che ha caratterizzato il tempo recente. Nella foschia, in questo tempo di negata, impastata visibilità si apre una dimensione ampia, distante, opaca, fuori fuoco, dove reimmaginare le relazioni, le politiche, le pratiche di creazione, dove scardinare l’imperativo dell’immagine a tutti i costi. Dove ricercare forme di desiderio e di piacere.

E fa sorridere e restituisce gioia e freschezza alla luce di questi pensieri e dei tempi fermi che viviamo, il titolo di uno dei capitoli del libro “Scopare rende liberi” dedicato alle performance di Cosimi I love my sisters e Corpus Hominis: un invito alla mescolanza dei corpi, alla dépense, a una condizione acefala che taglia, con un colpo d’accetta, ogni verticale sovranità.

In copertina: Kinkaleri, Otto (ph.Kinkaleri)
[1] THOMAS STEARNS ELIOT (1888 – 1965), “Burnt Norton”, da “Quattro quartetti” (introduzione di Angelo Tonelli), I quartetto, in ID., “La terra desolata – Quattro quartetti”, introduzione di Czesław Miłosz, trad. e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, Milano 2012 (XI ed., I ed. 1995), pp. 99