Canto nel fango e nella pietra. Dante (secondo Mandel’štam), Zanzotto, Celan
Paul Celan legge, nella Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam, di come i versi danteschi abbiano “preso forma e colore in base a un processo geologico” e di come la loro struttura materiale abbia “rilevanza di gran lunga maggiore della loro famigerata potenza scultorea”[2]. E ancora: “al poliedro”-Commedia hanno lavorato “api dotate di geniale istinto stereometrico, richiamando in caso di necessità sempre nuove e nuove api”. Per Mandel’štam non si tratta di elaborare metafore, ma di “lottare per rendere concepibile il tutto”[3].
E Celan pare fargli eco, quando scrive della consistenza “microlitica” della sua poesia.
Mikrolithen sinds, Steinchen, kaum wahrnehmbar, winzige einsprenglinge im dichten Tuff deiner Existenz – und nun versuchst du, wortarm und vielleicht schon unwiderruflich zum Schweigen verurteilt, sie zusammenzulesen zu Kristallen? Auf Nachschübe scheinst du zu warten – woher sollen die kommen, sag?.
[Microliti sono, pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua esistenza – e ora tenti, povero di parole e forse già irrevocabilmente condannato al silenzio, di raccoglierli in cristalli? Rifornimenti sembri attendere – donde dovrebbero venire, dì?][4]
I “rifornimenti” sembrano arrivare dalle retrovie della Natura tutta, che mette insieme umano e non umano, organico e anorganico. Ancora un indizio tra gli appunti celaniani: un intero passo da Empedocle sulla natura, riscritto in una annotazione raccolta nella cartella -i- (designazione tipica, per Celan, quella delle idee, o ispirazioni, pietruzze poetologiche da riaggregare):
Empedokles: «Doch ich will dir ein anderes verkünden. Geburt ist es eigentlich bei keinem einzigen von allen sterblichen Dingen und kein Ende in verderblichem Tode. Nur Mischung gilt es vielmehr und Austausch des Gemischten: Geburt ist nur ein dafür bei den Menschen üblicher Name».[5]
Empedocle: Ma voglio dire un’altra cosa. Non esiste in effetti nascita che sia inizio di tutte le cose mortali e non c’è la corruzione della morte alla fine. Conta molto più la mescolanza e lo scambio del mescolato: «La nascita non è che un nome diffuso tra gli uomini».
Da Mandel’štam Celan può trarre inoltre l’indicazione della natura “catastrofica” di una configurazione poetica, insieme geologica e musicale:
La struttura del monologo dantesco, impostato su registri d’organo, può essere ben compresa mediante un’analogia con minerali rocciosi la cui purezza risulti violata dall’intrusione di corpi estranei. Le impurità granulose e le venature di lava indicano un’unica dislocazione, o un’unica catastrofe, quale fonte comune della creazione delle forme.[6]
Mandel’štam osserva nella Commedia la presenza di diverse voci e linguaggi, spazi e tempi rimodulati, suggerendo un’idea di “esecuzione” che egli attribuisce alla poesia, alla musica, alla danza, e infine alla lettura. La grande orchestrazione universale dell’opera dantesca, armoniosa e completa, simmetrica come un cristallo, da cui il poeta russo trae la figura di una Commedia-strumento musicale, va certo distinta dalle scarne e dissonanti, petrose e impervie articolazioni di Paul Celan. Come sa chiunque suoni a lungo uno strumento a corde, il pigiare i tasti può essere molto doloroso, alla lunga, per le dita del suonatore. Soprattutto se queste sono già ferite e contuse. Pensiamo in questi termini la “tastiera rammemorativa” di Celan. Una tastiera distrutta, che va continuamente rimessa insieme, con pezzi sparsi, e per la quale va costruito ogni volta uno spazio cavo di risonanza (una cassa disarmonica).
L’attitudine geologica in Celan è presente soprattutto a partire dagli anni di composizione e pubblicazione di Sprachgitter (Grata di linguaggio, 1959)[7]. Le strutture naturali, musicali, linguistiche costituiscono, nella loro diversità, una figura metamorfica mai identica a se stessa, pur nella sua continua, possibile ripetizione. Come ma anche diversamente dal Dante di Mandel’štam, si tratta per Celan di “convertibilità della materia poetica – la più esatta, la più profetica e la più indomabile di tutte le materie”[8]. Le memorie e le ‘voci’ celaniane condividono sostanza, forma e colore con la natura fossile. Fossile ma non morta. Si tratta di riuscire a pronunciarne nomi e dimensioni, restando nel “vero”[9]. Tracce e macerie portano con sé un tratto (discontinuo e quasi illeggibile) di speranza.
In questo Celan è vicino allo Zanzotto dei Conglomerati. Zanzotto del resto osserva un gesto a lui stesso familiare: pur sapendo di non potersi “sostituire alla deriva della destrutturazione per trasformarla in altro, per cambiarle segno” – scrive Zanzotto – Celan col suo linguaggio rovescia “la storia e qualcosa di più della storia”[10], per innescare una “controtendenza” all’“annichilimento assoluto”[11].
Ma anche l’elemento di speranza procede in qualche modo dal Dante mandel’štamiano. L’indizio si trova in uno dei motti (appuntati e poi scartati) del volume successivo a Sprachgitter, dedicato al “fratello” russo: Die Niemandsrose (La rosa di nessuno, 1963). La citazione dantesca è tratta da Dante, Inf. XXXII: “sì che dal fatto il dir non sia diverso”.
Se ogni citazione è una “cicala”[12] (parola di Mandel’štam), il motto dantesco porta con sé l’eco e i colori del territorio dal quale proviene e col quale mette in contatto il lettore Celan. Una ‘poetica della pietra’ che ponga il problema del dire l’orrore si fa subito presente nelle prime due terzine di Inf. XXXII, citate in parte dal poeta russo nella Conversazione:
S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
Emerge anche il problema di dover stringere in rime serrate (eseguire in uno ‘stretto’, anche in senso musicale: eng-führen) la materia dell’universo:
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Non può essere sfuggito a Celan il nome di Anfione, il tebano figlio di Berenice[13] che col suo canto, aiutato dalle Muse (le donne) ma anche dal fratello che le sollevava, fa tornare al loro posto, rimette in sesto le mura distrutte di Tebe.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
E così va Dante, in una landa desolata in cui ghiaccio, rocce e membra umane si artigliano e si confondono. E lo scrivere è un andare. Pensiamo al celaniano “non guardare più! vai!” di Stretto[14]: la sua poesia è “passo”, come già per Dante e Mandel’štam.
Celan tuttavia non procede in terzine e in rime, bensì attraverso un contra-dire tra uomo e ombra, organico e inorganico, in dissonanza e tensione continua. Il mantenimento di questa tensione è vita a fronte della distruzione; ma anche di una impossibile visione universalistica e armonica del cosmo; e ancora: è un dire-contro il “canto tedesco” della tradizione canonica, lirica e musicale, che va dal Medioevo al Romanticismo.
Ma il nuovo canto ‘geologico’, terrestre, ‘nel fango’ e nella ghiaia, di chi viene ‘dopo’ la cesura dell’”accaduto”[15] è articolato a partire da quella opposizione, che è il punctus contro cui Celan intavola il suo punctum.
Le forme del canto antifrastico vengono attraversate da Celan per dare paradossale risonanza al silenzio degli spazi cavi[16]. ‘Esegue’ (ancora: nel senso mandel’štamiano della “esecuzione musicale”) le strutture dei mondi minerali, geologici, inorganici, ma anche organici e micro-organici, animali e vegetali. Li restituisce in materia linguistica, che della ‘materia del mondo’ è contro-parte, e “sta nel vero” (steht) nel luogo storico della creatura umana.
Questo aspetto, dal punto di vista della poesia italiana, lo coglieva già Zanzotto nel 1953, quindi proprio negli anni in cui anche Celan li metteva a fuoco, in un saggio su Montale dal titolo eloquente: L’inno nel fango. Zanzotto inserisce Montale e in seguito, con altre parole e argomenti, anche Celan, tra i “più qualificati testimoni di nuove forme di sensibilità che […] iniziò il suo ‘descensus ad inferos’ verso la fine del ’700, sulla linea di una volontà di prendere contatto a qualunque costo con la realtà”[17]; una realtà sconvolta dal divenire “oggetto” degli uomini, dall’“esperienza in guerre e tirannidi distruttrici del valore della personalità (si pensi a Kafka o all’uomo-sasso di Ungaretti): e proprio nell’epoca immediatamente seguente a quella in cui erano stati solennemente proclamati i diritti dell’uomo”. Zanzotto ricorda come non si debbano “sottovalutare le suggestioni che provengono direttamente dalle verità scientifiche dell’astronomia e della geologia, da quest’ultima specialmente, solo che siano riportate al livello di fatti che valgono qui, ora, per l’uomo”[18].
Celan, quasi coetaneo di Zanzotto, ne condivide la sensibilità per il proprio tempo, il presente gravato dal trauma. Si muove da una esperienza radicale di negazione dell’umano, e cerca in territori lontanissimi dall’umano ma non disumani, un luogo per i suoi “inni”. Luogo di fango e terra, sangue e pus, cenere e lava, ciottoli e conchiglie, pulviscolo e acqua, ma sempre per la loro rilevanza, come scrive Zanzotto di Montale, per quel che valgono “qui, ora, per l’uomo”, per la sua “tastiera rammemorativa”[19] di cui essi, non sempre umani, sono parte. Il rapporto tra l’uomo, con la sua intenzionalità psichica, e la natura – organica o anorganica che sia –, con la sua materialità misurabile nei termini dello spazio e del tempo, non è di opposizione, né traducibile in linguaggio metaforico[20].
Ricercar, per verba
Tra le diverse forme musicali capaci di questa re-intavolatura rammemorativa, una della più interessanti è il ricercar, o ricercare, nato nel XIV secolo, pensato innanzitutto per esecuzioni su strumenti come il liuto. Tastando con le dita il manico, si ricercavano, spesso improvvisando, una o più melodie o temi, per voce o strumento, riorganizzandole secondo schemi contrappuntistici.
Spesso mettendo insieme parti di canzoni, o mottetti accompagnati, la composizione, per strumento o voce ri-membrava, rimetteva in circolo una memoria emotiva e non logica di temi, segnando un passaggio tra memoria e tempo aperto; ecco che il ricercar, attraverso due secoli, si avvicina progressivamente alle forme del preludio (Vorspiel), musica che trae dalla memoria alcune melodie e le rilancia come introduzione, verso la composizione a seguire; importante per guardare con occhio anche musicale la sua ‘protensione’ verso ciò che deve ancora accadere (zu-fallen), ad-venire (zu-kommen).
La forma compositiva del ricercar si stabilizza nel corso di Quattro- e Cinquecento fino alla musica barocca, giungendo a Bach. L’arte del ricercar, come è evidente, non è arte di invenzione. Nel Ricercar del Musikalisches Opfer di Bach la melodia è per esempio composta da Federico II di Prussia (tema regio). Ma Bach la re-intona e varia, riprende l’altrui e lo rende proprio senza perdere la memoria dell’origine ‘estranea’.
Il ‘ricercar’ occorre, forse per la prima volta con riferimento alla composizione poetica, nell’ottavo canto dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto [corsivo mio]:
Signor, far mi convien come li fa il buono
sonator sopra il suo instrumento arguto,
che spesso muta corda, e varia suono
ricercando ora il grave, ora l’acuto.
Mentre a dir di Rinaldo attento sono,
d’Angelica gentil m’è sovenuto,
di che lasciai ch’era da lui fuggita,
e ch’avea riscontrato uno eremita.[21]
“Ora il grave, ora l’acuto”, i due modi non sono in successione, ma l’uno contro-voce dell’altro, in un equilibrio che segue il filo di una memoria narrativa molteplice (“mentre a dir attento sono” … “m’è sovenuto”). Nel ricercare accade proprio questo: compresenza del diverso, dell’altrui materia, nella memoria che attualizza, dà luogo a una esecuzione. La finzione narrativa, ma anche la prassi effettiva di Ariosto era la declamazione a corte.
Si tratta certo di una coincidenza. Ma sta di fatto che Ariosto utilizzi l’immagine del ricercar in un passo metariflessivo, sulla struttura della propria opera, per far comprendere appieno la costruzione e l’equilibrio cercato nel mettere insieme temi e timbri diversi, luoghi anche lontani. Ariosto mentre scrive ‘rilegge’ se stesso e la tradizione. Siamo intorno al 1520, in una di quelle che Koselleck o Blumenberg chiamerebbero Epochenschwellen (soglie epocali). Soglie e crisi della prima modernità. Ariosto nel suo ‘ricercare’, a differenza dei colleghi solo di qualche decennio più giovani, mette insieme materiali e memorie ormai disperse o in via di dissoluzione della tradizione cavalleresca e antica, con apparente leggerezza segnandone apogeo e crisi. A quella soglia e crisi, che va dal Cinquecento al Seicento, guarderanno gli artisti del Novecento, in diversi modi a seconda del momento del ‘secolo lungo’. La ripresa di forme arcaiche, tardomedievali, poi sviluppatesi nel barocco e nel Settecento, come appunto il ricercar, è un elemento importante della nuova musica del Novecento (ripreso da Webern in un momento particolare della storia tedesca, il 1934, a un anno dall’ascesa al potere di Hitler; e dallo Stravinskij della fase tarda, nel 1951)[22]. Di forme risalenti al Cinque- e Seicento troviamo traccia nella nuova musica, ma già nelle riflessioni di Benjamin sul dramma barocco. O ancora, nelle numerose rivisitazioni novecentesche del sonetto[23], cui contribuisce lo stesso Celan con le versioni shakespeariane[24].
Queste coincidenze illuminano di luce nuova il passo in cui Celan, nel Meridiano, individua come modi fondamentali della sua poesia “l’acuto di ciò che è presente, il grave di ciò che è storico – anche storico-letterario – , il circonflesso – un segno estensivo – dell’eterno”[25].
L’oggi e la storia sono ‘eseguiti’ insieme, nella poesia, come su uno strumento.
Ricercar è il titolo di una poesia di Celan datata 21.5.1961 presente quasi fino alla fine negli abbozzi di indice per il volume Die Niemandsrose, ma infine lasciata nel cassetto[26]. Meno di due settimane prima, il 9 maggio 1961, Celan scriveva una lettera al critico Walter Jens, definendo il proprio modo di comporre un “ricercar”. La lettera va inquadrata nel contesto delle diverse richieste di sostegno inviate ad amici e colleghi dal poeta, allarmato e costernato per l’accusa di plagio mossagli da Claire Goll, vedova del poeta Yvan[27]. E Jens scrive in effetti un articolo sulla poesia di Celan, riferendosi, tra l’altro, alla sua tecnica compositiva basata sulla ripetizione, e individuandone il carattere “leitmotivisch”. A questa sollecitazione Celan risponde con estrema precisione:
‘Aschenblume’ (Mohn und Gedächtnis, S. 53) ist eine Wiederholung von Aschen- kraut‘ (Der Sand aus den Urnen, S. 37, Mohn und Gedächtnis, S. 16). (Sie nennen das das ‘Leitmotivische‘, lieber Walter Jens, ich würde es, im Musikalischen, vielleicht als ein ‘Ricercar‘ bezeichnen – womit auch die Anamnesis in Ihrem Sinne stärker zum Ausdruck käme.) UND –: Aschenkraut ist keine Metapher, es ist der Name der Cineraria, also etwas durchaus Konkretes.
“Cineraria [lett. Fiore di cenere]” (Papavero e memoria, p. 53) è una ripetizione di “Erba cenerina [erba di cenere]” (La sabbia delle urne, p. 37, Papavero e memoria, p. 16) (Lei lo chiama elemento ‘leitmotivico’, caro Walter Jens, in termini musicali lo descriverei forse come un ‘ricercar’ – che esprimerebbe anche l’anamnesi più fortemente nel suo senso). E -: Fiore di cenere” non è una metafora, è il nome della Cineraria, qualcosa di totalmente concreto.
La poesia Ricercar, e probabilmente l’improvvisa accensione di questa figura e forma musicale nell’immaginario di un Celan già frequentatore di forme contrappuntistiche nel suo modo di comporre poesia, nascono dunque da una rimeditazione e rilettura della propria opera alla luce delle polemiche nate intorno all’accusa di plagio mossagli dalla vedova Goll.
Se si consultano, come Celan faceva intensamente, i dizionari storici ed etimologici delle diverse lingue europee, si potranno trarre indicazioni interessanti.
Ricercar, dal provenzale cercar, rumeno cercà, francese chercher; slavo kragu, anello; vedico kar / car; sanscrito c’akra; greco kirkos; latino circum, avverbio che significa attorno; tardolatino circare, che significa andare attorno, quasi in cerchio, come fa chi vuol trovare qualcosa, camminando in cerchio. Nel ricercar è inscritta la ricerca attorno a qualcosa e vi gira la ruota della ripetizione. E solo il rumeno, conservativo, nella sua natura di lingua periferica di enclave, attesta anche cercetà, dal tardo latino circitare: ingegnarsi a trovare ciò di cui si ha bisogno, o che si desidera, o che si è smarrito. Nel rumeno si aggiunge dunque, etimologicamente, il significato di cercare nella memoria qualcosa di perduto e di cui si ha bisogno. Questo significato è presente nel ricercar musicale, che appunto si fonda sul recupero di melodie monodiche o polifoniche, in cui a memoria si cercano nuove connessioni. Esiste dunque un legame forte tra ricercar, repetere, Wiederholen, e la creazione di uno spazio, di un perimetro in cui materiali mnestici disparati (e disperati) si ritrovano. Si ritrovano, ma non in maniera caotica. Si ritrovano in forme precise, che di per sé esprimono una consapevolezza critica e una estetica della resistenza, nell’oggi. Circitare è del resto un composto di citare: intensivo di cieo, 1. muovere, mettere in movimento; 2 scuotere, agitare, sollevare; 3 eccitare, destare, animare, incitare, stimolare, sucitare; 4 invocare, far venire, chiamare in aiuto; 5 produrre, provocare, causare, generare; 6 chiamare per nome, da cui le espressioni citus (veloce) sollicitus (molto mosso, inquietato, impaurito da un pericolo, così come un’altra serie di verbi (conciere, concitare, exciere, excitare, incitare, sollicitare, sucitare). Già etimologicamente l’espressione verbale lat. cieo / gr. kineo, intesa in senso testuale, implicherebbe il re-suscitare una tradizione o una voce; il suscitare demoni o fantasmi; ma anche il chiamare a testimonianza. Celan pare riferirsi proprio alla serie semantica indicata in uno degli appunti preparatori per il suo Meridian, redatto nell’estate nel 1960: “ciò che è citato, suscitato, presente” (das “Zitierte, Heraufbeschworene, Gegenwärtige”)[28]. Ripetere, circitare e citare possono dunque convergere in un Worthof (alone verbale) etimologico legato alla mobilitazione di forme e forze, presenze silenti ma non assenti. Qualcosa del genere si proponeva, del resto, egli stesso traducendo Mandel’štam: sollecitare in altra lingua “la poesia di uno scomparso ora riemerso dal suo abisso”, la cui “forma (Gestalt)” e “individuale esistenza” (Dasein)” “pongono interrogativi all’ora presente”, e “riguarda tutti noi”[29].
Si può ripetere e citare in molti modi. Citazioni verbali (letterarie, di versi, di passi tratti da altre opere); di figure e luoghi immaginati; oppure di oggetti concreti. Da fonti letterarie ma anche scientifiche, comunicazioni di vario tipo, articoli di giornale. Citazioni non verbali (opere d’arte, musicali, teatrali, cinematografiche). Autocitazioni. Citazioni di forme che diventano un discorso sulla tradizione (generi letterari, forme metriche e ritmiche codificate in altri tempi e risemantizzate, a volte svuotate e rovesciate, esposte nel loro essere impalcature danneggiate). Da altre lingue con innesti multilinguistici, da e in traduzioni. Nella poetica celaniana trovano spazio tutti i modi citazionali qui elencati, con una caratteristica costante: c’è sempre una trasformazione, uno iato, una modificazione che interrompe la continuità tra chi cita e ciò/chi si cita[30]. In una lettera al critico e germanista Hans Mayer Celan mette in rilievo la necessità della trasformazione, nel passare di mano in mano, di una parola, di un verbo, del nome di un oggetto o di una sequenza ritmica. L’esempio riguarda una citazione di Hofmannsthal pronunciata da Mayer durante una conferenza, ripresa e modificata da Celan durante il discorso di ringraziamento per il Premio Città di Brema (Allocuzione…)[31]. Le citazioni si possono raccogliere, scrive Celan, per poi lasciarle “nuotare per conto loro”, nel medium liquido della lingua che ha superficie mossa e profondità a volte insondabili. La questione non è dunque nemmeno l’esattezza di cosa o di chi si citi, ma l’intenzionalità della coscienza del parlante, che si modifica citando e modifica la citazione stessa[32].
Albæ oscurate: “Matière > matière”
Todesfuge (Fuga di morte[33],1945) è forse la poesia di Celan più commentata e tradotta, ed è diventata parte del canone europeo e di molti discorsi – anche politici – non sempre congrui con le intenzioni dell’autore[34]. La canonizzazione, le critiche, e persino una serie di ‘applausi sbagliati’[35] provocavano in Celan inquietudine, talvolta angoscia. Le a volte urticanti reazioni a Todesfuge lo conducono non certo a “ripudiare” questa poesia[36], ma a maturarne una diversa percezione, autolettura, provocata proprio da letture critiche e accoglienza del pubblico negli anni successivi alla pubblicazione. Scrivere, per Celan, sempre più diventa un rileggersi, in un sistema relazionale che comprende una polifonia interna, oltre che esterna con i suoi “interlocutori” (i suoi Gegenüber: gli “a fronte” – umani e non). La poesia di Celan intavola una controvoce rispetto al “mondo”, ma anche rispetto a se stesso. Nei primi anni Sessanta Celan arriva a suggerire, per una eventuale traduzione in italiano, un cambiamento nel titolo, preferendo al termine Fuga il Ricercare[37]. L’insistenza su questo tipo di composizione segnala una consapevolezza poetica. Celan ha avuto modo di chiarire a se stesso il senso della ripetizione di parole, motivi, forme altrui; di come questo comporti un mutamento, a volte una inversione dei significati, una “risemantizzazione” per dirla con Jean Bollack, che disloca notevolmente l’idea di autorialità, lettura, citazione in uno spazio plurale e multifocale.
Celan si trova, nel momento in cui rilegge, a distanza di quasi due decenni dalla sua Todesfuge e dai fatti che ne conseguirono, in un nuovo momento di crisi, insieme tragica e produttiva. C’è un rimando temporale e spaziale a diversi strati che emergono e assumono una nuova luce, un nuovo significato, riletti, ripensati e riscritti.
Con in mente la tecnica del ‘ricercare’, guardando ai “temi” che costituiscono voci e controvoci di Todesfuge, osserviamo come Celan ripensi e ri-citi la tradizione della poesia europea e la propria personale tradizione lirica giovanile, che risale al suo scrivere prima o accanto, ma non ancora a partire dall’“accaduto”.
Mi concentro sull’incipit, molto discusso e variamente interpretato, ponendolo in una prospettiva che ne può far emergere elementi della forma compositiva e memoriale del ‘ricercare’ musicale: “Schwarze Milch der Frühe “| “Latte nero dell’alba”.
L’alba, forma poetica medievale che canta il passaggio dalla notte al giorno, risuona a più riprese sulla tastiera rammemorativa di Celan. Una Aubade e un Taglied (termini rispettivamente provenzale e tedesco per definire l’alba occitana), si trovano tra le poesie raccolte nel taccuino della prigionia a Tăbăreşti, ma anche inviate in forma epistolare all’amata Ruth Kraft[38]. Le due poesie confluiscono poi, con qualche significativa variazione, nella raccolta di esordio, La sabbia delle urne.
Per la tradizione delle albæ il buio della notte protegge i convegni d’amore, mentre la luce diurna illumina il dolore della separazione e l’onta dello svelamento. L’amore è “dichiarabile” solo nel buio: lo ripetono in forma identica e circolare il primo e l’ultimo verso di Aubade (di datazione incerta tra 1938 e 1942): “Nel buio solamente mi dichiaro a te”. Ma le voci sono due, e la stessa dichiarazione di amore nella tenebra è pronunciata da un amante all’altra. Chi canta per primo, in Aubade, si rivolge a un tu amato e amante, che sembra assumere sembianza femminile, vista in controluce al lume di una falce lunare, luna essa stessa (“nei tuoi corni si accumula chiarore”). L’aurora con il suo elemento cromatico forte e caldo (Morgenröte), che va colta nell’attimo prima che si avveri (“fiutata” da ciascuno, “io e tu” come animali che sentano il pericolo) è una soglia di passaggio attraverso le lacrime della separazione.
Aubade[39]:
Im Dunkel nur bekenn ich mich zu dir.
In deinen Hörnern aber häuft sich Helle.
Die Morgenröte wittern wie ein Tier
dein Aug und meines vor der Tränenschwelle.
Nel buio solamente mi dichiaro a te.
Ma nei tuoi corni si accumula chiarore.
L’aurora fiutano come un animale
il tuo occhio e il mio davanti alla soglia di lacrime.
Insieme i due amanti attraversano le lacrime e il tempo del dolore provocato dalla luce del giorno. La seconda quartina è un duetto:
Du überspringst die Stunde, die jetzt schlug.
Wir knieen nun und können weinen …
Von Kummer ist schon übervoll mein Krug –
Und deine Tränen fließen auch in meinen …
Scavalchi l’ora che adesso batté.
C’inginocchiamo dunque e possiamo piangere …
Di cruccio è già stracolma la mia brocca –
E anche le tue lacrime scorrono nelle mie …
La terza quartina è cantata dall’altra voce. E risponde, ripetendo in versi, il richiamo dell’amante, anche lui “controluce”, “im Gegenlicht”[40], cupo, oscuro, sullo sfondo dell’aurora dita di rosa ormai dispiegata (“Chiami, tu cupo negli incendi di rose”). Il dire amoroso nella tenebra è ormai l’altrove, il qui ed ora è la luce distruttiva, portatrice di morte, una morte tristanica “de tendreur”, un cuore sull’altro.
Du nennst, ein Finstrer in den Rosenbränden,
das Dunkel Drüben und die Helle Hier …
Bis dir mein Herz verflackert in den Händen.
Im Dunkel nur bekenn ich mich zu dir.
Chiami, tu cupo negli incendi di rose,
il buio “là oltre” e il chiarore “qui” …
Finché il mio cuore ti si spegne tremolando in mano …
Nel buio solamente mi dichiaro a te.
La forma del canto è già piegata al presente. Helle (chiarore) in tedesco, ha valenza semantica ambigua, tra chiarore e inferno (Hölle, ma nella lectio arcaica Helle)[41].
Anche Taglied[42] (1943) canta la separazione di due amanti alleati del buio appena rischiarato dalla luna, sofferenti per il distacco causato dal primo mattino, qui determinato nella sua valenza temporale “Frühe” (il mattino presto). Rispetto alla presa diretta del dialogo in Aubade, in questo componimento si insinua una situazione memoriale e di disfacimento nella natura sempreverde, fedele e parassitaria dell’edera. Alla baluginante figura della amata-luna di Aubade qui si sostituisce, con funzione analoga, la personificazione del silenzio accerchiato dal verde scuro dell’edera intrecciato ai capelli. Un vago volo di colombo o colomba (color colombo: grigio, color colomba: bianco fende l’aria: il testo resta ambiguo. L’ambiguità dei colori rispetto alla luce ‘contro’ la quale si stagliano è già forse questa una allusione all’ambiguità del colore della vela di Tristano[43], introdotta nella strofe successiva. La visione incerta, buia o splendente è quello che resta di ogni cognizione del dolore, come un barlume fugace di ricordo. Non c’è ambiguità nella prima stesura inviata a Ruth dal campo di lavoro di Tăbăreşti [44]. Il colore nella lettera-poesia inviata a Ruth è decisamente di colomba, è bianco: “Die weiße Taubenschwinge will er fangen” (“Lui vuol catturare l’ala bianca di colomba”).
La voce è dell’amante che ricorda l’amata (i suoi capelli intrecciati ora dal silenzio e dall’edera). Nella prima versione la compenetrazione tra silenzio, capelli ed edera non è ancora definita. Lo spazio è ancora dicotomico: l’edera rampica fino a raggiungere “le gote / del silenzio” dall’altra parte [hinüber], una separazione indicata anche dal trattino (“der Stille hinüber – in ihr aufgelöstes Haar”): dall’altro lato del(le gote del) silenzio – tra i suoi capelli sciolti.
Unendlich grün wächst Efeu an den Wangen
der Stille in ihr aufgelöstes Haar:
die weiße Taubenschwinge will er fangen.
Ein Schimmer bleibt, was mir ein Leben war…
Infinitamente verde cresce edera alle gote
del silenzio tra i suoi capelli sciolti:
L’ala bianca del colombo vuole afferrare.
Un barlume rimane ciò che per me era una vita…
Il tema di Tristano si dispiega nella seconda quartina. Al presente di una nave che salpa, della bandiera ammainata, prima di issare la vela fatale, al crescere dell’erba, erba di lutto, nel luogo dove un tempo fu consumato l’amore. Di nuovo un duetto (“dormimmo”, il passato remoto, contrapposto al tempo-ora del presente, tempo di pericolo, inganno, morte):
Nun lichten sie die Anker in den Tiefen.
Nun lösen sie vom Mast die Fahne der Gefahr.
Nun heben sich die Gräser, wo wir schliefen.
Ora levano le ancore dagli abissi.
Ora staccano dall’albero la bandiera del pericolo.
Or si alza l’erba dove dormimmo.
La terza quartina è l’antifona dell’amata, che ripete e varia le parole dell’amato. L’ala di colombo/colomba, visione necessaria, ma invisibile (ma nella prima versione troviamo, barrato, ungesehn: “non vista”, dunque nascosta, segreta):
Du weißt, wie ich die Taubenschwinge misse,
die unsichtbar den Efeu überragt.
Sai come non posso rinunciare a quell’ala
che invisibile sovrasta l’edera …
La chiusa è corrosiva, nello stile di Heinrich Heine, i cui Lieder sono consegnati alla storia letteraria per il dispiegamento massiccio di termini e stilemi romantici messi sardonicamente in crisi dagli ultimi due versi di ogni sua poesia. Celan sembra qui rovesciare il topos medievale. Non vi sarebbe alcun inganno da parte di Isotta dalle bianche mani ai danni Tristano. È proprio lei, la amata Isotta dai capelli d’oro, a issare la vela che nella luce del giorno lentamente si oscura (ma nella prima versione si legge: “la vela si scurisce, mentre lentamente si fa giorno”[45]: ovvero appare scura controluce). Si potrebbe scrivere: ‘vela nera dell’alba’. A dichiarare impossibile ogni incontro che avvenga nella luce, ma nello stesso tempo a mantenere un elemento di oscurità posto ‘contro’ quella luce, già in potenziale contrappunto, e quindi, ancora, forse: vela nera nell’alba, che scurisce mentre lo spazio intorno e dietro si rischiara.
Was weinst du, wenn ich jetzt ein Segel hisse,
das langsam dunkelt, wenn es tagt?
Cosa piangi, se adesso isso una vela
che lentamente scurisce quando albeggia?
Come ha osservato Vivian Liska, sin dalle poesie giovanili Celan si misura con la tradizione poetica tedesca ed europea. Le sue poesie attingono il materiale linguistico che le compone da forme e metafore tramandate di generazione in generazione e allo stesso tempo ne rivelano il fallimento di fronte alla realtà storica. La revoca della loro attendibilità avviene in forma di paradossi e rovesciamenti, in contesti stranianti e orizzonti d’attesa negati, in addii di tono elegiaco che virano verso negazioni esplicite[46].
Oltre alla ripresa e insieme negazione di ogni orizzonte di attesa aperto tradizionalmente dalla forma ‘fuga’, in Todesfuge Celan ‘ricerca’ passaggi delle sue proprie poesie. Si crea così una rete di relazioni interne al macrotesto celaniano, sempre permeabili alle correnti e alle voci che scorrono dallo spazio aperto e stratificato delle tradizioni poetiche.
E così la voce-tema legata al latte nero dell’alba (bevuto al mattino, a mezzogiorno, di sera, a mezzanotte) smentisce e svuota di senso il passaggio dalla notte al giorno così come si configurava nelle prime poesie di Celan, che rivisitano e interrogano la tradizione medievale senza smentirla del tutto. Per i sommersi non c’è soglia di lacrime tra un buio che protegge l’incontro d’amore e una luce che ne distrugge il segreto. Il “latte nero dell’alba” toglie all’oscurità il suo aspetto erotico e vitale, di protezione materna e degli amanti, e lo carica di morte. Nel verso “es dunkelt nach Deutschland” letteralmente (“scurisce verso la Germania”) “scurisce verso” è un contra-punctus rispetto al punctus testuale “es dunkelt, wenn es langsam tagt” (“scurisce mentre lentamente albeggia”), ovvero alla prima stesura della chiusa di Taglied. Il presagio mortifero della vela di Isotta, l’amata dai capelli d’oro, come Margarete.
Ma in questa poesia di amore non c’è traccia, se non nella convenzionale lettera scritta dall’aguzzino alla sua Margarete. Della bellezza oscura e straniera che la (forse) straniera Sulamith canta in prima persona a proposito della propria stessa scura bellezza davanti alle “figlie di Gerusalemme” del Cantico dei Cantici[47], non resta che il grigio della cenere, intonato in seconda persona dalla voce poetica.
Non c’è amore, se non nella traccia incenerita, nell’ombra dissonante dei capelli di cenere in contro-canto, in contro-luce rispetto all’oro di una Margarete comunque assente.
Dall’alba scompare ogni cenno alla forma del canto medievale, l’organizzazione della voce di un amante, poi unisono, poi voce dell’altro/a amante, è riconfigurata nell’incastro sincopato, singhiozzante e preciso della fuga. L’amore e il suo intreccio con la morte sono solo una lontanissima traccia inscritta nel nome della bella sposa del canto di Salomone – nel grigio della sua cenere riposa una forma di innocenza; lo splendore di Margarete non è senza ombre. Rimanda alla Gretchen del Faust, a sua volta figura votata alla morte per amore; vittima ma anche artefice di un duplice matri-e infanticidio, è salvata dalla sua libera scelta di morire e non fuggire con Faust.
La “materia bretone” cui pure, nell’insistito incipit che rimanda al far del giorno, ribaltando in negativo il valore protettivo dell’oscurità, è ‘ricercata’ di nuovo, poco più di un decennio dopo Todesfuge, in Matière de Bretagne, composta nel 1957[48].
Anne Carson ha esposto molto bene questa nuova ‘cantabilità’, in ristrettezza massima di mezzi (economy), di “ciò che non è andato perduto” (Unlost):
Celan combines the local Bretagne stuff of courtly traditions and ancient sailing with the local Bretagne stuff of gravel, hours, beds and personal pronouns that fold over one another like hands. He transcribes a circle of great lyrical beauty, lit by gorselight, around Nothingness. Das Nichts occurs twice but this word does not stop the poem or spoil the light. It is simply part of the poet’s matière.[49]
Ma Matière de Bretagne è molto di più: non ‘ricerca’ solo elementi della tradizione personale e culturale secondo una tecnica musicale; registra mimeticamente processi biologici, geologici e fisici che sorprendentemente corrispondono con le tecniche elaborate dalla memoria umana. Per questa via possono dirsi “materia” è anche l’immaginazione poetica e la composizione musicale.
La violenza della luce si sprigiona dal ‘conglomerato verbale’ Ginsterlicht (luce-ginestra), insieme fenomeno fisico che produce una qualità luminosa ed elemento botanico che si dispiega poi, in una proliferazione biologica, come “purulento” diffondersi lungo territori scoscesi. Clivi che a loro volta assorbono la qualità somatica di ferite: “Luce-ginestra gialla, i declivi | suppurano contro il cielo, […]”, e nello stesso tempo seguono una “inclinazione” verso il basso. I primi due versi sono un accordo in dissonanza.
Ginsterlicht, gelb, die Hänge
eitern gen Himmel, der Dorn
wirbt um die Wunde, es läutet
darin, es ist Abend, das Nichts
rollt seine Meere zur Andacht,
das Blutsegel hält auf dich zu.
Luce-ginestra gialla, i declivi
suppurano contro il cielo, la spina
corteggia la ferita, in questa
uno scampanio, è sera, il nulla
srotola i suoi mari alla preghiera,
la vela di sangue punta verso te.[50]
Luce gialla diffusa prolifera su pendii e ‘contro’ il cielo. Die Hänge, i declivi, vengono così spiegati in francese da Celan alla moglie, nella prima di una serie di attente traduzioni mot-à-mot:
Der Hang: (Abhang) – pente; (die Neigung) – la penchant, propension, inclination, disposition[51]
Il clivio: (declivio) – pente (pendìo) – la pendenza, propensione, inclinazione, disposizione.
L’elemento orografico, per mezzo dei nodi della lingua stessa, sta in relazione metonimica con modalità psico-affettive, intenzionali (propensione, disposizione); fisiche: l’inclinazione è il clinamen lucreziano, già epicureo, ma anche l’angolo di incidenza storica del soggetto come creatura, nel suo essere nel mondo.
L’immagine non si chiude, Celan fornisce a Gisèle, per poter leggere la poesia, il Worthof, l’aura intorno a quel giallo bagliore di ginestra su un pendìo.
Il giallo, suppurante, ‘sta’ contro il cielo, in una inversione di ruoli. Brigitta Eisenreich[52] ricorda di aver riferito a Celan, a proposito del “suppurare”, della parola bavarese per “pus” (Eiter): maderi, ovvero “materia corrotta, alterata, putrida”. Il verbo eitern, che attribuito alla luce di ginestra ne caratterizza l’effetto come qualcosa che, crescendo su se stesso, “corrompe” la materia, ma nel disfacimento la trasforma in altro.
L’oggetto non è in controluce, ma è luce contro un fondo meno luminoso, come un negativo fotografico, che ‘sensibile alla luce’ e per effetto di acidi, venga fotoimpresso.
Di questa inversione fanno parte le spine, nodo di senso e suono, nodo di memoria individuale e culturale che rimanda a scene cristologiche della passione, incrociate con letture kafkiane care a Celan (penso alla ferita in forma di rosa, suppurante e verminosa del Medico di Campagna di Kafka, più volte citato tra appunti e abbozzi di Celan).
Le spine luminose si dispongono intorno a un cielo, che ne risulta improvvisamente “orlato”. Qualcosa del genere si ritrova dieci anni dopo si ritrova nella poesia Welt (Mondo)[53], inviata da Celan alla moglie. Vi si legge di uno spazio del ‘mondo’ orlato di chiodi metallici e luminosi, ma non chiuso (“circonclouté” traduce in francese per Gisèle, “umnagelt” in tedesco, che letteralmente vuol dire tempestato di chiodi), che prende forma di ‘mandorla’.
In Matière de Bretagne il cielo prende forma di piaga, risuona di scampanii e si fa scuro: “la spina | corteggia la ferita, in questa | uno scampanio, è sera, il nulla”.
Il corteggiare, Um-werben, è spiegato da Celan alla moglie Giséle[54]. Um-werben va inteso come “solliciter, rechercher, demander (en mariage), briguer”; ne illumina il senso erotico di ascendenza cortese: “courtiser”; ma anche la valenza di accumulazione, estensione: “acquerir, gagner”.
La spina della ginestra bretone (unico esemplare dotato di spine, con precisione straordinaria riconosciuto da Celan in veste di botanico) “corteggia” la ferita, acuta e dolorosa. Accompagna una luce gialla (gialla come il pus?), e si dispone “intorno al cielo”; lo sollecita, lo ri-cerca, chiede di unirsi ad esso nell’amore. Vediamo qui una convergenza tra alcuni significati del termine Umwerben, primariamente erotici, e altri già osservati nel citare, circitare, ricercare. Si tratta di un doloroso ‘disporsi intorno’.
“Il nulla” (Das Nìchts (U_), assonante con la luce, Licht, ma nel suo andamento giambico metricamente opposto al dattilo Gìnsterlicht (_ UU), si dispiega in forma liquida e plurale, “srotola i suoi mari alla preghiera”, come un rotolo della scrittura sacra su cui pregare. In questo consiste la “Andacht”. Un officium di preghiera silenziosa. Nelle traduzioni approntate per Gisèle, Celan cita, oltre prière (preghiera), recueillement (religieux); “dévotions, exercices”. Torna il riferimento alla tradizione cristiana della novena di Natale: “Neuntägige Andacht – neuvaine” (la novena di Natale). In una “stretta” percebile, meno nel testo a stampa, e molto più nella frammentaria controvoce, sincopato testo a fronte della traduzione, nello scampanio a morto del Venerdì Santo in cui Cristo è circonclouté, umnagelt, circoncluso di spine e chiodi, e in quello festoso della nascita di Cristo risuona il contrappunto tra morte e nascita di Cristo.
Non c’è alba, ma un giallo bagliore violento viene dalla terra, è una luce intonata in un accordo dissonante con il nulla, accompagnata da qualcosa come uno scampanio a morto, e insieme di gioia per la nuova vita.
In un contesto del tutto diverso rispetto ai precedenti, in questa ‘circonclusione’ devozionale del tutto nel nulla, riappare la vela di Tristano. Non bianca, non nera, ma scura, “di sangue”: punta dritto verso il “tu” della poesia. È tutto diverso, e i colori parlano. Parla Celan, scrivendo retrospettivamente a Norbert Koch, il 23 gennaio del cruciale anno 1961, di come la “Matière de Bretagne” fosse già presente in poesie precedenti, e cita le immagini arturiane (Avalun, la colomba) in Flügelrauschen (Fruscio d’ali, 1944)[55]. Registra la presenza di una cesura che forza la mano, la percezione di chi parla e a chi scrive:
Allerdings liegt zwischen den beiden Gedichten das … Dazwischenliegende: Stunden, Jahre, Erfahrungen (mit Menschen und Dingen). Die Erfahrung u.a., dass wir heute anders sehen, anders wahrnehmen, anders sprechen müssen[56].
Tuttavia, tra le due poesie resta … ciò che resta tra loro: ore, anni, esperienze (con umani e cose). L’esperienza tra l’altro, che noi oggi dobbiamo necessariamente vedere in altro modo, percepire in altro modo, parlare in altro modo.
Celan riscrive e ricerca la materia nel senso più ampio. Come spiega al germanista e curatore delle sue opere Beda Allemann, va tenuto conto della “Matière” con la M maiuscola, il nome che designa il ciclo bretone medievale, ma anche della “matière”(“Matière>matière”)[57], materia di cui fanno parte persone, oggetti e luoghi organici, inorganici, e di memoria. Allega alla lettera la poesia, certamente una “stesura precedente” (“Vorstufe”), di Matière de Bretagne, ma nello stesso tempo tiene a far sapere al suo accademico interlocutore che la vela “di sangue” rimanda a un referente concreto, “le vele rosse dei pescatori bretoni”[58].
Anne Carson, nel libro in cui legge Simonide “con” Celan, a proposito della tristaniana false sail ricorda la tradizione greca risalente alle storie di Teseo. Avrebbe anche lui dimenticato di issare una vela bianca dopo l’impresa a Creta nel labirinto del Minotauro, e il padre Egeo, vista la vela nera, si sarebbe ucciso gettandosi in mare. Carson ricorda l’insistenza di Simonide a proposito di tradizioni alternative, secondo cui la vela non sarebbe stata bianca, bensì rossa. E argomenta sull’ambiguità della vela “falsa” nelle due storie. Fu falsità ingannatrice della gelosa Isotta dalle bianche mani o scelta di Isotta dai capelli d’oro?
Phoinikeon è la parola greca per rosso. Il rosso delle conchiglie da cui i fenici traevano al porpora, che per metonimia diventa anche il nome dell’intero popolo. Potremmo continuare, con Celan, il discorso, e chiederci: una vela purpurea, controluce, può ben apparire nera: nera vela nell’alba.
Il segno controluce, il rosso della vela di Teseo, male interpretato da Egeo, ne provoca la morte; avrebbe potuto – se compreso – portare salvezza. La salvezza, nel caso di Egeo, come nel caso di Matière de Bretagne, è evocata per assenza, per negazione. D’altro canto, la parola / vela color sangue, color porpora, custodisce nelle sue profondità il possibile (non certo, ma probabile), fatale svolgimento futuro.
Pensiamo in questo caso a un altro autore cruciale per Celan, Friedrich Hölderlin. Pensiamo alle parole di Ismene ad Antigone e Τί δ’ ἔστι; δηλοῖς γάρ τι καλχαίνουσ’ ἔπος (“che c’è? una voce t’ha sconvolto, vedo”)[59] tradotte dal poeta svevo: “Was ist’s, du scheinst ein rotes Wort zu färben?” (“Ma cosa c’è, sembra che tu tinga di rosso una parola?”). L’aggettivo “kalkainous”, oscuro, turbato, attribuito alla parola, deriva anch’esso dalla lavorazione della conchiglia, il murice (kalké) porporifero. Hölderlin traducendo scava nella lingua e attualizza, fa emergere latenze[60]. Il metodo di Celan è lo stesso: dentro la lingua, nel territorio tra memoria, materia e forme. Ma con una differenza: Hölderlin, come scrive George Steiner, in modo “più sofocleo di Sofocle, […] si immerge fino alle fonti oscure dell’immaginario, laddove l’astratto e il concreto non sono ancora dissociati. Come se fosse segretamente in contatto con la matrice fisica del linguaggio e del pensiero”[61]; il movimento di Celan non è di scavo verso una passata, remotissima origine in cui gli opposti sono ancora indistinguibili, ma di sollecitazione delle faglie che fanno emergere i nessi, nel presente. Per questo movimento soccorrono ancora le forme geologiche, come ad esempio i conglomerati, le rocce metamorfiche di origine vulcanica, e i “plutoni” che emergono secando diversi strati della superficie, o le “faglie” (Verwerfungen). Celan cerca, trova e riconosce queste strutture, ma soprattutto il movimento (spostamento, aggregazione, frattura, emersione) di cui esse sono traccia nella letteratura scientifica e le ri-cerca in poesia. Sono questi i suoi ‘conglomerati cantabili’[62].
La seconda strofe di Matière de Bretagne è incisa da faglie da cui emergono elementi delle precedenti, giovanili albæ, che entrano in contatto con la realtà esperita nel qui e nell’ora di chi scrive.
La materia bretone in senso culturale, già riscritta nelle poesie giovanili, si agglutina alla materia naturale delle spiagge bretoni e con la materia mnestica che apre varchi tra l’allora e l’ora, che tiene conto del percorso, di ciò nel frattempo è “accaduto”, e “sta in mezzo” (“Das Dazwischenliegende”), fa da cesura.
Trocken, verlandet
das Bett hinter dir, verschilft
seine Stunde, oben,
beim Stern, die milchigen
Priele schwatzen im Schlamm, Steindattel,
unten, gebuscht, klafft ins Gebläu, eine Staude
Vergänglichkeit, schön,
grüsst dein Gedächtnis.
Secco, insabbiato
il letto alle tue spalle, ricoperta di giunchi
la sua ora, sopra,
accanto all’astro, i lattei
meandri parlottano nel limo, dattero di mare,
sotto, algoso, si apre all’azzurro, un arbusto
di caducità, bello,
saluta la tua memoria.
Così, il luogo erboso su cui gli amanti erano stati insieme è un letto “secco, insabbiato | il letto alle tue spalle”, il suo tempo è misurato dal crescere acquatico e vegetale di un canneto, tra terra melmosa e cielo oscurato: “ricoperta di giunchi | la sua ora”. In alto c’è una stella attraversata da fiumi fangosi e lattiginosi (“sopra, accanto all’astro, i lattei | meandri parlottano nel limo”); in basso le risponde uno Steindattel, dattero di mare: nome di pianta e frutto, corpo di conchiglia e mollusco che scava e rompe le superfici calcaree degli scogli sottomarini, lasciando traccia di sé con tunnel e cavità nelle rocce sommerse. Si assiepa e si spalanca nell’azzurro offuscato dal ‘suono’ del giallo che si intrasente nella parola “Gebläu” (che aggrega Gelb e Gelbbläu[63]): non del cielo, ma del mare – aggregazione fugace di pietra scavata, alghe che ne parassitano il guscio. In questo apparire, rompere esplodere e spalancarsi controluce per farsi invadere dall’acqua, contro l’azzurrità del mare si ritrova, baluginante, la bellezza, che saluta il ricordo. Un ricordo che lascia traccia di sé in profondità vischiose.
Del sous-texte di Matière de Bretagne fa parte una serie di vocaboli sottolineati nei libri e riportati, riaggregati su fogli bianchi, su cui le parole e i silenzi sono tracciati come paesaggi.
In una pagina parte del fascicolo “-i-” / September 1958. /[64], dove Celan annota elenchi di parole, espressioni notevoli tratte dalle sue letture di geologia e paleontologia[65] si ritrova una aggregazione intorno a conchiglie, gusci e datteri di mare: versi in stato nascente: “Steindattel klafft”: Il dattero di mare si spalanca.
Steindattel klafft.
Schalen. Scharniere.
. . . .
Steindattel klafft.
Dattero di mare si spalanca
Gusci. Cerniere.
. . . .
Dattero di mare si spalanca.
L’annotazione torna più volte tra i suoi appunti. Il dattero di mare, classificato da Linné nel 1758 come Mytilus lithophagus[66], grazie alla forma del suo esoscheletro e alla secrezione chimica che ne promana, riesce a scavare cavità nelle pietre calcaree, di solito appena sotto la superficie del mare, o in conchiglie più grandi, in cui si insedia per tutta la vita. Vive in un ambiente di cui si nutre, ma lo crea anche. Arrivato alla fine del ciclo vitale resta quello cavo, ombra, calco, orma di una forma. Il vuoto ne dice la presenza. E funziona anche come macchina del tempo.
Allo stato fossile le tracce del dattero di mare sono utili per misurare il livello di abbassamento o innalzamento del mare, in quanto esso si insedia normalmente poco al di sotto della superficie marina. È dunque un indicatore dell’invertirsi e variare della freccia del tempo rispetto allo spazio marino[67].
Nella illustrazione che segue si può osservare la sezione longitudinale di una stalagmite fossile che contiene buchi scavati da antichi datteri di mare, tutti sigillati da strati precedenti prodotti da organismi incrostati su di essi[68].

Fabrizio Antonioli-Marco Oliverio, Holocene Sea-Level Rise Recorded by a Radiocarbon-Dated Mussel in a Submerged Speleothem beneath the Mediterranean Sea, in “Quaternary Research”, 45 (1996), p. 242.
Il dattero di mare appare come parte della materia bretone (materia come tradizione poetica, materia come parte del paesaggio, materia anorganica, ma con un passato organico). E torna nel 1963 nella poesia Kermovan, legato anche all’immagine della palma, ovvero dei datteri terrestri. Ancora una volta, Celan crea uno “stretto” tra regno vegetale, animale, minerale e acquatico.
Se si risale alla pagina in cui Celan appunta la sequenza sul dattero di mare, si ritrova una serie di “detriti” rilevanti per la sua scrittura, sul lato verso, dove è appuntata la sequenza del Dattero di mare, così come sul recto[69]. Anche la disposizione degli appunti sulla pagina è leggibile come un territorio di genesi poetica che nasce dalla disposizione delle parole e dei suoni sulla pagina, dal loro toccarsi e germogliare (Genesis-Gelände, nella definizione data da Peter Waterhouse alla poesia di Celan come a quella di Zanzotto)[70].


Le due facce recto e verso della pagina manoscritta si possono osservare come frammentarie partiture di parole e tracce di sparizione compongono figure provvisorie (puntini di sospensione ben distanziati, sottolineature, spazi bianchi e tentativi di incolonnamento parallelo). Nell’annotazione dei versi sul ‘dattero di mare’ il ricordo resta nei gusci vuoti, che rimangono uniti attraverso le cerniere, il giunto, l’articolazione che rende possibile l’apertura e la chiusura di uno spazio. Ma se guardiamo l’intera pagina troviamo: gusci dunque, ma anche cerniere, e nella stessa pagina appena sotto, ‘lamellature’ di conchiglie fossili (“Lamellibrachiata”), sorta di “branchie” (“Kieme”) sui gusci, che consentono lo scambio tra interno ed esterno. Nella morfologia delle conchiglie Celan ritrova organi della respirazione (lamelle brachiali, che inalano i “mari” infiniti, li filtrano e li espellono, modificati). Annota tutti i vocaboli che indicano il ciclo di “respirazione” liquida e filtrante. Le pieghe del mantello (Mantelfalten), che si comprimono e si estendono; il sistema di cerniere e chiusure che si aprono e chiudono (Schalenklappen / Schloß, Schloßband / aufklappen der Schale / Schließmuschel segnando una possibile ispirazione poetica con “-i-” il termine Schließe[71] / Verschluß); le lamelle delle branchie (Kiemenlamellen), pieghe dell’epitelio fessurate da un reticolo (netzförmig durchbrochene Hautfalten), che creano una luminosità intermittente e ciliata. Celan non poteva non sottolineare la parola “Flimmerepithel”, che rimanda a Flimmertier Lied (animale ciliato) della poesia Sprachgitter; e rovescia la valenza della parola Flimmerhaare cara a Gottfried Benn, un altro autore verso cui Celan si pone in contro-canto[72].
Nella terza strofe di Matière de Bretagne una voce fuori campo, fuori tono, tra parentesi, interroga le mani. Le mani tastano se stesse nel ricordo, ricercano le voci legate alla bellezza e all’eros. L’amore, elemento che distingue l’umano, e insieme alla memoria e al lutto guida l’intenzionalità, la ‘eidetica’ della ‘creatura’ celaniana. Ciò che è tra parentesi, scrive Celan in un appunto, è “das Verschwiegene”: ciò che è taciuto. Qui, con parole di Claudio Parmiggiani, si potrebbe dire che sia proprio “la traccia dell’addio delle cose”[73] a parlare, senza voce.
(Kanntet ihr mich,
Hände? Ich ging
den gegabelten Weg, den ihr weisst, mein Mund
spie seinen Schotter, ich ging, meine Zeit,
wandernde Wächte, warf ihren Schatten — kanntet ihr mich?)
(Mi conoscevate,
mani? Andai per
la via biforcata che indicaste, la mia bocca
sputò il suo pietrisco, andai, il mio tempo,
cornice di neve vagante, gettò la sua ombra – mi conoscevate?)
La voce | non-voce che dialoga con le mani aggrega zone-altre della raccolta Sprachgitter. In questa raccolta, forse per la prima volta la composizione musicale si dispiega, tra poesia e poesia, tra sezione e sezione del libro, che è, nel suo complesso, uno spazio polifonico. Le voci si richiamano e ripetono ogni volta mutando, ogni volta in relazione dissonante l’una rispetto all’altra. Riconosciamo l’andare sulle mani richiamato nel ciclo incipitario (la cantata Voci), il sapere acquisito attraverso le mani ferite dal loro stesso percorso: “Voci | dalla via delle ortiche”[74]. E la ripetizione del verso, in altra tonalità: “Mi riconoscete, mani | — mi riconoscete, mani?” – la mano è sede della conoscenza e del riconoscimento[75]. Riconosciamo un sentiero che si biforca, è scritto divergente (detto altrimenti: “scritta divergente” auseinandergeschrieben)[76], e riconosciamo l’andare, lo sputare pietre, il vegliare errando, il gettare ombre. Il che è come dire: scrivere controluce – tutti elementi, temi e voci dello stretto di fuga Engführung, la composizione che conclude il volume.
La quarta strofe ricerca e riprende, risponde ‘leggendo sulle mani’ la strofe iniziale.
Hände, die dorn-
umworbene Wunde, es läutet,
Hände, das Nichts, seine Meere,
Hände, im Ginsterlicht, das
Blutsegel
hält auf dich zu.
Mani, la ferita
corteggiata da spine, scampanio,
mani, il nulla, i suoi mari,
mani, nella luce-ginestra, la
vela di sangue
punta verso te.
Le mani che nella terza strofe erano emerse dalla parentesi, silenziosamente citando e ritmando un percorso di dolore e rabbia, tornano in posizione incipitario. Intonano, nella vertiginosa progressione fonica che procede dai “declivi” della prima strofe, qui ripresa contrappuntisticamente: Hänge-Hände-Wunde, gli elementi incipitari in forma di “stretto”, finale e fugata: le mani; la ferita corteggiata da rovi e da suoni di campana; il nulla e i suoi mari; mani guardate controluce, contro la luce gialla della ginestra. Mani che sono la vela di sangue che fa rotta verso chi parla, chi scrive.
Ma anche la vela rossa fa parte della materia ritrovata sulle spiagge di Bretagna e riletta nei libri di geologia e paleontologia. Il lato recto del foglio su cui Celan annota i quasi-versi sul dattero di mare, riporta note su un organo “sensore” (Fühler) delle conchiglie. Il nome è parlante: “Mundsegel” (vela della bocca, evidenziato in azzurro nell’illustrazione), la parola composta Lippenanhänge, parte pendula delle labbra, che “spalanca” il Worthof, l’alone della parola Hänge (i pendii, i clivi lungo i quali prolifera la ginestra con la sua luce, l’inclinazione e una estremità che pende, che si protende, che pro-pende, si inclina verso il “sentire”, il percepire l’esterno dall’interno). Questo è forse il luogo “segreto dell’incontro”[77] assonante tra “Hänge” e “Hände”: entrambe organi del sentire, del tastare la realtà che ci circonda, e per lasciarvi una traccia.
La conchiglia ha “una vela”, rossa per metonimia e adiacenza alla “bocca”. In natura, come nella memoria poetica antica, medievale, e di oggi, dell’oggi in cui Matière de Bretagne si inscrive, essa è parte di un conglomerato cantabile.
Nella stessa pagina, a confermare lo sforzo di Celan nello stringere dentro un medesimo Worthof, tradizione poetica, esperienza storica, esperienza dell’oggi ed elementi della realtà naturale, ritornano le “cerniere” (Scharniere) che aprono e chiudono le conchiglie, diversi termini che ne caratterizzano l’attività: il “piede a forma di cuneo”, capace di lasciare tracce sulla sabbia (Kielförmiger Fuß); conchiglie che scavano (“grabende Muschel”); conchiglie erranti (Wandermuschel);elementi ciliati (Flimmerhaare). O una varietà di conchiglia bivalva di colore rosso che porta il nome biblico di Arca di Noé (“Archenmuschel o Archa Noae)”. E ancora: terminologia anatomica che si ritrova nella descrizione morfologica delle conchiglie: Ventricolo, letteralmente camera del cuore (“Herzkammer”); sacca pericardica (“Herzbeutel”).

La stretta finale rovescia di nuovo l’ordine delle voci e delle note. Se la precedente era intonata sulle mani, e finiva sul “tu”, l’attacco della strofe finale riprende dal “tu” e lo svolge in ripetizioni e variazioni come un tema musicale. Chi scrive, apostrofato col tu, nella ripetizione del verbo insegnare, in una spirale metrica che va verso il rallentamento e la dissolvenza, insegna l’arte del sonno, ingresso nella notte. Notte, sonno (morte) che protegge o distrugge. “Diventa forse una culla questo paesaggio? La fine di questa poesia è una ninnananna? (Addormentarsi, Trapassare nella lingua non attuale, nel sistema del canto?)”[78] si chiede Peter Waterhouse nel suo saggio dedicato a Celan e Zanzotto, a proposito di Matière de Bretagne.
Du
du lehrst
du lehrst deine Hände
du lehrst deine Hände du lehrst
du lehrst deine Hände
schlafen.
Tu
tu insegni
tu insegni alle tue mani
tu insegni alle tue mani insegni
tu insegni alle tue mani
il sonno
Quella vela che è insieme segno, parola ‘di passo’ (sorta di Schibboleth[79]) non riconosciuta, potrebbe ritrovarsi nel contro-salmo pubblicato da Celan nel 1963 (Psalm (Salmo, in Die Niemandsrose | La rosa di nessuno)[80]. Anche Psalm, in sé forma biblica di canto antifrastico, rivelerebbe, sotto questo aspetto, una modalità da “ricercare”. Esso intona in modo percettibile forse solo nella chiusa note e voci che vengono dalle lontane albae che abbiamo attraversato. Esse riemergono, dopo passaggi nel tempo, scontri con altra materia che ne hanno ogni volta modificato senso e suono: “terra e fango” (Erde und Lehm), rosa, nulla e nessuno (Nichts- Niemandsrose); parola purpurea (Purpurwort), controluce, contro la luce di uno stame chiaro d’anima (“mit dem Griffel seelenhell”), pronunciata “sopra, oh – sopra la spina” (“über oh – über den Dorn”).
E così si potrebbe leggere anche Es ist alles anders (È tutto diverso, in Die Niemandsrose, 1963), la cui ultima parola è Alba (nel senso di mattino, Morgen, ma anche “bianco”, e anche nome del fiume che separa idealmente l’ovest e l’est dell’Europa) ed è costellata dall’insistito suono “weiss” (inteso come voce del verbo sapere, e come colore bianco), illuminata da albe e solcata da ritorni su e giù per la freccia del tempo storico e biologico, rituale-religioso e individuale-erotico, e per le vie dello spazio (con il suono dello shofar – in tedesco Widderhorn – corno d’ariete dell’alleanza tra uomo e dio. Widder suona come wieder, “di nuovo”, è, nella materialità linguistica, un ritornare, un rinnovare l’alleanza).
Le albæ giovanili si reinscrivono “in tutt’altro”[81] modo nel nero latte dell’alba della Fuga di morte. Il loro valore di controparole, di parole e oggetti ‘controluce’ (contro la luce) si riattualizza ogni volta, in nuove esecuzioni. Il solo Worthof dell’alba, intesa come parola “controluce”, misura nel tempo la ricerca di una forma che aggreghi l’esperienza dell’uomo a quella del mondo, della terra. Abbiamo osservato solo qualche breve traiettoria, ma l’alba e la sua lotta contro la notte, la vela bianca che potrebbe essere anche scura, e forse salvare se ben interpretata, potrebbe essere documentata in tante altre poesie celaniane.
La materia poetica, anche quella scritta di propria mano, col proprio sangue, è anche altra e diversa, perché scritta in un altro tempo, secondo altra inclinazione, altra luce, in altro territorio. Il gesto poetico-musicale del ricercare è un modo per misurare la distanza da “ciò che resta” tra un momento di scrittura e l’altro, ovvero di cristallizzazione di memoria ed esperienza del presente, e ciò che “sta in mezzo, e divide” un momento di scrittura da un altro, e un altro ancora.
E quindi, seguendo quella che non è “ricerca topologica”[82] ma una via carsica in cui immagini e parole incontrano “ore, anni, esperienze (con umani e cose)”, e si trasformano, mantenendo traccia della vita estinta, rendendola luogo cavo in cui far scorrere e risuonare altro, e ricreare, coi detriti, ancora un canto.
Il ‘ricercar per verba’ è anche un aggregare, in una morfologia senza origine, orme di forme. L’uomo compone e scompone intenzionalmente, a partire da dolore e amore, ciò che la natura fa seguendo le leggi della aggregazione e della decomposizione, dell’accrescimento e della ricomposizione fisica, biologica, minerale.
Come il dattero di mare, anche il “canto” senza armonia del poeta è un misuratore di distanze, nello spazio, nel tempo, nella memoria della “materia”, e nello stesso tempo un aggregatore, un catalizzatore della sua convertibilità. Diversamente dal dattero di mare, che si spalanca quando finisce di vivere, e lascia traccia di sé senza intenzione, il canto del poeta è legato al suo proprio momento, alla sua condizione di creatura, e a partire da quella si innesca il processo di conglomerazione. La Herzkammer[83] (ventricolo, letteralmente ‘camera del cuore’), Archenmuschel (Arche Noa) per chi scrive è un luogo di risonanza di “voci”. Per questo Celan leggeva attentamente Pascal? E forse per questo si domandava, dubbioso: “also doch anthropozentrisch?” (“ma allora [la poesia è] antropocentrica?”)[84].
Forse una qualche risposta si può cercare negli spazi polifonici in cui si aggregano voci e suoni dell’uomo e degli elementi nei due cicli che rispettivamente aprono e chiudono la raccolta Sprachgitter (Grata di parole, 1959): Stimmen (Voci) e Engführung (Stretto). E per questo Sprachgitter può dirsi il momento svolta di una poetica celaniana intesa come “musica della materia”. Una strofe inedita di Stretto[85] riprende le “voci” (Stìmmen: un piede trocaico, per Celan il piede del “Weltschmerz”[86]) e il loro essere “strette” (“ènggeführt”, fugate, nel piede dattilico che richiama un movimento di dita, di mani). Voci segretamente in dialogo (“Gespräche”, nel piede anfibraco del focus al centro di due lembi silenti). In dialogo con gli elementi, fino a rendere udibile la traccia del grido, ritmato in un dimetro anapestico secato nel primo piede: “[…] bis || der Schrèi sich belébte”. Un grido fluito tra gli elementi e rappreso nelle tre incisioni che ancora rigano la pagina prima della coda, che riprende in un solo verso il piede trocaico e il dattilo (Weltschmerz e mani). Incisioni, forse branchie-lamelle su gusci di conchiglia, forse fughe nel senso di spazio tra pietre, mattoni, che lasciano una possibilità, se non certezza di respiro e vita:
Inseln, gedankenberührt, Gespräche, geheim
mit Grundwasserspuren, Gold
gegen Glimmer getauscht,
eine Hand hinbefohlen zum Aussatz, Stimmen,
enggeführt, bis
der Schrei sich belebte.
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Stimmen, enggefüh[t]rt
Isole, sfiorate da pensieri, dialoghi, segreti
con tracce di acqua freatica, oro
scambiato con chiarori,
una mano forzata alla lebbra, voci,
fugate in stretto, fino
a che il grido non tornò alla vita
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Voci, fugate in stretto
[1] Queste pagine sono tratte da Camilla Miglio, Ricercar per verba. Paul Celan e la musica della materia, in uscita da Quodlibet nella primavera del 2021. Si ringraziano Bertrand Badiou ed Eric Celan per aver consentito la consultazione e la pubblicazione dei materiali d’archivio. Salvo indicazione diversa, traduzioni mie.
Sigle: B – Paul Celan, “etwas ganz und gar Persönliches”. Paul Celan, Briefe 1934-1970. Hg. von Barbara Wiedemann, Berlin 2019; DG – Paul Celan, Die Gedichte. Neue kommentierte Gesamtausgabe in einem Band. Mit den zugehörigen Radierungen von Gisèle Celan-Lestrange. Hg. und kommentiert von Barbara Wiedemann, Berlin 2018; M – Paul Celan,“Mikrolithen sinds, Steinchen”. Die Prosa aus dem Nachlaß. Kritische Asugabe. Heraus-gegeben und kommentiert von Barbara Wiedemann / Bertrand Badiou, Frankfurt am Main 2005; TCA M – Paul Celan, Der Meridian. Vorstufen – Textgenese – Endfassung. Tübinger Ausgabe. Hg. von Jürgen Wertheimer / Bernhard Böschenstein / Heino Schmull, Frankfurt am Main 1999; TCA S – Paul Celan, Sprachgitter. Vorstufen – Textgenese – Endfassung. Tübinger Ausgabe. Hg. von Jürgen Wertheimer / Heino Schmull / M. Schwarzkopf. Frankfurt am Main, 1996.
[2] Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, a cura di Remo Faccani, il Melangolo, Genova 1994 (ora Nuovo Melangolo, Genova 2007), p. 66.
[3] Ivi, 71.
[4] M, Nr. 128.1., p. 74; trad. it. Paul Celan, Microliti, a cura di Dario Borso, Mondadori, Milano 2020, pp. 62-63.
[5] DLA Marbach, MPF D: Celan; Celan, Paul: Gedichte / Verschiedenes. Fragmente, Übersetzungen u.a. -i- Sammelmappe Mikrofiche 616.
[6] Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit., p. 65.
[7] Uno dei contributi più interessanti degli ultimi anni sulla poetica “geologica” di Celan e le sue implicazioni filosofiche e politiche, si deve a Mariaenrica Giannuzzi, Paul Celan e l’uso politico della storia naturale, in “Studi Germanici”, 8, 2016., pp. 67-102. Celan comincia a frequentare le letture di Mandel’štam e legge anche Dante in questo stesso giro d’anni. Stando agli studi di Christine Ivanovic egli lesse integralmente la Conversazione su Dante solo negli anni Sessana, ma poté già attingere a larghe citazioni dirette e indirette attraverso altre “letture russe”. Cfr. Christine Ivanovic, Göttliche Tragödie? Paul Celans Die Niemandsrose von Dante her lesen, in Lesarten. Beiträge zum Werk Paul Celans, a cura di Axel Gellhaus e Andreas Lohr, Böhlau, Köln 1996, pp. 119-152.
[8] Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit., 105.
[9] “Im Wahren stehen”, “stare nel vero” è quasi un refrain nella corrispondenza con le persone più importanti per Celan, soprattutto donne. Si vedano i carteggi con la moglie Gisèle Lestrange, con Ingeborg Bachmann, ma anche con Brigitta Eisenreich e Ilana Shmueli.
[10] Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura, II, p. 435.
[11] Cfr. Andrea Zanzotto, Sovraimpressioni, Mondadori, Milano 2001; in proposito Luca Stefanelli, Il divenire di una poetica. Il ‘logos veniente’ di Andrea Zanzotto dalla ‘Beltà’ a ‘Conglomerati’, Mimesis, Milano-Udine 2015. Ringrazio Andrea Cortellessa per le indicazioni e i consigli zanzottiani e non solo.
[12] Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit., p. 53: “La citazione non è un estratto. La citazione è una cicala. Sua caratteristica è l’impossibilità di tacere. Afferratasi all’aria, non la molla più. L’erudizione è ben lontana dal coincidere con la tastiera rammemorativa che costituisce appunto la sostanza della cultura”.
[13] La Chioma di Berenice è presente nella poesia dedicata a Ruth Kraft per il suo compleanno e inviatale in bella calligrafia dal campo di Tăbăreşti, dal titolo Sternenlied (Canto delle stelle, 6 dicembre 1942).
[14] Paul Celan, Stretta, in Id., Antologia italiana, a cura di Dario Borso, nottetempo, Milano 2020, p. 125.
[15] Celan non pronunciò mai il termine Shoah, o Olocausto. Parlava di “quanto è accaduto” (“das, was geschah”); si veda il Discorso di Brema (Allocuzione), in Paul Celan, La verità della poesia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p. 35).
[16] L’immagine dello spazio cavo capace di accogliere sempre il futuro è ritrovata da Celan nei versi del Cimitero marino di Paul Valéry, sottolineati di sua mano: “sonnant dans l’âme un creux toujours futur” (letteralmente: “cisterna / incavo in cui può risuonare l’eco di una grandezza interiore” (Valéry, La jeune Parque commentée par Alain, Gallimard, Paris 1953, p. 55). La chiosa con un appunto a margine fa esplicito riferimento alla possibilità̀ della poesia di occupare un luogo nel tempo e nella memoria, uno “Zeithof” [“alone, aura di tempo”]. Ne ho scritto in Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 170-171.
[17] Andrea Zanzotto, L’inno nel fango (1953), in Id., Scritti sulla letteratura. Fantasie di avvicinamento, a cura di Gian Mario Villalta, Mondadori, Milano 2001, pp. 15-20, qui p. 15.
[18] Ivi, p. 17.
[19] Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit., p. 52.
[20] Tra gli studi italiani si veda in proposito Marianna Rascente, Metaphora Absurda. Linguaggio e realtà in Paul Celan, Franco Angeli, Milano 2011.
[21] Ludovico Ariosto, Orlando furioso, prefazione e note di Lanfranco Caretti, Einaudi, Torino 19813, ottava XXIX, p. 178.
[22] Cfr. Julian Johnson, Out of Time: Music and the Making of Modernity, Oxford University Press, New York 2015; in particolare il capitolo Creative Remaking of Baroque Music, sull’intreccio tra sviluppo della musica dodecafonica e riscoperta della musica barocca.
[23] Cfr. Andrea Cortellessa, “Petrarca è di nuovo in vista”, introduzione a Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, atti del Convegno di Roma, 4-6 ottobre 2001, a cura di Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2004, pp. I-XXXI.
[24] Cfr. Peter Szondi, Poetica della costanza. La traduzione di Celan del sonetto 105 di Shakespeare, in Id., L’ora che non ha più sorelle. Studi su Paul Celan, trad. di Giovanni Alberto Schiaffino e Christa Viano, Gallio, Ferrara 1990, pp. 71-105.
[25] Paul Celan, Il Meridiano, in Id., La verità della poesia, cit., pp. 6-7.
[26] Si veda la traduzione in “Antinomie”.
[27] Cfr. la attenta e impressionante documentazione dei fatti e delle loro conseguenze in Barbara Wiedemann, Die Goll-Affäre. Dokumente zu einer Infamie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001. Celan, molto vicino al poeta surrealista ebreo-tedesco-francese Yvan Goll negli anni in cui lavorava a Der Sand aus den Urnen (La sabbia delle urne, 1948), ne traduce le poesie francesi. Nel febbraio del 1950 Yvan Goll muore, e la vedova Claire non solo vieta la pubblicazione dei testi, ma ne fa la base per la sua accusa di plagio e per una serie di manipolazioni e falsificazioni della verità, oggi si direbbe fake news, che esasperarono e infine compromisero l’equilibrio psichico di Celan. L’episodio è un trauma ulteriore, devastante, per Celan; attaccato sull’unico terreno per lui abitabile, la lingua della sua poesia, dalla moglie di un poeta al quale era legato da amicizia e che lo aveva in prima persona cercato, negli ultimi anni della sua vita, affinché traducesse in tedesco le sue poesie francesi. Se le prime avvisaglie si manifestarono all’inizio degli anni Cinquanta, il ‘caso’ divampò tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Fu accompagnato da clamorose polemiche e prese di posizione in cui Celan si sentì non solo incompreso ma anche linciato. Percepiva in questo episodio il catalizzatore di un mai sopito, rimontante antisemitismo. Si veda il capitolo “Gibt es mich überhaupt?”. Folgen einer Verleumdung, in Wolfgang Emmerich, Nahe Fremde. Paul Celan und die Deutschen, Wallstein, Göttingen 2020, pp. 176-188.
[28] TCA M Nr. 671/764. Cfr. Arno Barnert, Mit dem fremden Wort. Poetisches Zitieren bei Paul Celan, Stroemfeld, Frankfurt am Main 2007, pp. 21-22.
[29] Paul Celan, Nota introduttiva a una scelta di poesie di Mandel’štam in traduzione tedesca, in Id., La verità della poesia, cit., p. 40.
[30] Celan sfrutta i processi citazionali non soltanto modificando e interrompendo la continuità con chi cita ma anche consapevole della rottura, del salto, della faglia temporale e storica.
[31] In Celan, La verità della poesia, cit., pp. 34-36.
[32] Ivi, p. 40.
[33] In Celan, La sabbia delle urne, cit., pp. 101-105.
[34] Sulle implicazioni politiche, editoriali, per le discussioni intorno a Todesfuge e le conseguenze per la poetica di Celan, rimando a tre volumi che le contestualizzano nella storia culturale della Germania del dopoguerra: Thomas Sparr, Todesfuge: Biographie eines Gedichts, Deutsche Verlaganstalt, München 2020, di Emmerich, Nahe Fremde, cit.e Helmut Böttiger, Celans Zerrissenheit. Ein jüdischer Dichter und der deutsche Geist, Galiani, Berlin 2020.
[35] Come osserva Arturo Larcati, il poeta e influente critico Hans Egon Holthusen, nel saggio Fünf junge Lyriker (in Ja und Nein. Neue kritische Versuche, München 1954, pp. 126-138), lo descrive come surrealista, disinteressato a ogni comunicazione col lettore, nella “assoluta arbitrarietà dei processi di interpretazione della poesia e soprattutto la negazione della referenza storica delle metafore. L’atteggiamento di Holthusen non è solo fuorviante, ma addirittura perfido, perché il critico si presenta come un estimatore di Celan, ma gli rivolge ‘l’applauso sbagliato’ nel senso che, mentre sembra apprezzare la sua opera, in realtà mette in discussione il carattere di testimonianza storica della sua poesia”. Cfr. Arturo Larcati, in La fortuna di Paul Celan in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, in Paul Celan in Italia. Un percorso tra ricerca arti e media, a cura di Diletta D’Eredità, Camilla Miglio e Francesca Zimarri, Sapienza Università Editrice, Roma 2015, p. 339-352, qui a p. 347.
[36] Rispondendo al germanista e critico Hans Mayer Celan scrive “un poeta non ripudia mai una propria poesia”.
[37] Si tratta di una proposta fatta da Celan a Ferruccio Masini, che traduceva Todesfuge con Incastro di morte, per il tramite una lettera della editor Gerda Niedeck, scritta in italiano. La lettera è in Dario Borso, Paul Celan in Italia. Storia e critica di una ricezione, Prospero, Milano 2020, nota 36, p. 78: “Todesfuge è quasi impossibile da tradurre. ‘Incastro’ si riferisce a Gefügtes che è senz’altro tipico per la fuga musicale. Il signor Celan ci tiene però di mettere molto in evidenza che si tratta di una poesia secondo le regole di musica, si discuteva pure di ‘Fuga su un tema di morte’. Dato che il Ricercar è nella sua struttura molto simile alla fuga si propone ‘Ricercar della morte’. Le sequenze dei diversi ‘temi’ dovrebbero corrispondere a quelle tedesche”.
[38] Ruth Kraft ha curato e pubblicato la raccolta delle poesie inviatele da Celan in Paul Celan, Gedichte 1938-1944. Mit einem Vorwort von Ruth Kraft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986.
[39] D: Celan, Paul, Gedichte. Frühe Gedichte III – Mikrofiche Nr. 000604; der Sand aus den Urnen / Umkreis. Trad. it. in Paul Celan, La sabbia delle urne, appendice, a cura di Dario Borso, Einaudi, Torino 2003, pp.124-125.
[40] Controluce è il titolo della serie di aforismi raccolti in parte in Paul Celan, La verità della poesia, cit., pp. 31-33; e nella loro completezza in Id., Microliti, cit. pp. 11-23.
[41] Cfr. il Dizionario Grimm, ma anche le fiabe degli stessi Grimm: KHM 24.
[42] Cfr. Celan, La sabbia delle urne, Appendice, cit., pp. 128-129.
[43] Alla crudele scoperta di un amore proibito, tipica del Taglied, è collegato il tema di Tristano e Isotta – materia arturiana ripresa in grande stile dal discorso musicale-culturale-politico tedesco di fine Ottocento, soprattutto attraverso Wagner. E sempre nella materia epica tristaniana è propria la morte dell’amore e per amore causata da un inganno. Si ricorderà l’epilogo tragico della storia di Tristano e Isotta “la bionda”. Tristano, bandito dalla corte di re Marco dopo lo svelamento dell’amore che lo lega a Isotta, faticosamente ricompone il dissidio tra amor de lonh e gioia dell’amore vicino legandosi a un’altra Isotta, “dalle bianche mani”. In punto di morte invoca la presenza taumaturgica della regina Isotta “la bionda”. Il segno convenuto è il colore della vela della nave: bianca se avrà a bordo la Regina amata, nera in caso contrario. La moglie Isotta dalle bianche mani inganna Tristano, riferendo all’infermo bloccato a letto che la vela in arrivo è nera. A Tristano si spezza il cuore, e Isotta la bionda, arrivata a morte avvenuta, muore d’amore crollando sul corpo dell’amato. Cfr. Arianna Punzi, Tristano. Storia di un mito, Carocci, Roma 2005, p. 51.
[44] DLA Marbach. A: Celan Gedichte. Sammlungen o. T. Gedichte aus dem Arbeitslager Tăbăreşti, 1943 (einzeln aufgenommen) 52 Bl. davon 28 beschr. Bl. geh. 95.82.19.
[45] La variante al foglio 18 recita: “Was weinst du, wenn ich jetzt ein Segel hisse …| das dunkelt, wenn es langsam tagt?”; in DLA Marbach A: Celan Gedichte. Sammlungen o. T. Gedichte aus dem Arbeitslager Tabaresti, 1943 (Einzeln aufgenommen); 95.82.19,18.
[46] Vivian Liska, Die Nacht der Hymnen. Paul Celans Gedichte 1938-1944, Peter Lang, Bern Berlin Frankfurt a.M. New York Paris Wien 1993, p. 138.
[47] Cantico dei Cantici, 1, 5 (si veda per esempio la versione latina “Nigra sum, sed formosa, filiae Jerusalem”).
[48] Inviata in forma di lettera a Gisèle il 13 agosto 1957 (PC/GCL, N. 83 pp. 92-93), e corredata di traduzioni in francese mot-à-mot per una delle loro “lezioni di tedesco”; inviata per lettera il 17 ottobre a Ingeborg Bachmann, dopo il loro nuovo incontro a Francoforte; pubblicata singolarmente sulla “Akzente” del 1958, p. 20 (nel 1958 e nel 1964 chiede ad Aloisio Rendi di tradurla in coppia con Sprachgitter, proprio traendola da “Akzente”); raccolta due anni dopo in Sprachgitter; inserita in un progetto di antologia italiana nel 1964 e letta più volte in occasioni pubbliche (vedi il commento di Wiedemann in DG, p. 757). Tutti questi elementi segnalano l’importanza di questa poesia per Celan. Essa è in effetti un esempio forte della sua tecnica di rilettura e ricapitolazione, ri-arrangiamento e risistemazione, interrogazione à rebours; in una parola: della tecnica compositiva del “ricercare”. Cito da
Si vedano le note di Wiedemann in DG, pp. 757-759, utili per ripercorrere diverse occasioni in cui Celan si trovò a discutere e commentare questa poesia e la sua ricezione: ne emerge quanto Celan fosse consapevole di aver scritto una poesia che accoglie e raccoglie elementi disparati: parole e immagini dalla coeva traduzione del Bateau Ivre di Rimbaud; la memoria del crocifisso giallo di Gauguin; la lettura anfibologica della tradizione ebraica e cristiana; il riferimento al ciclo bretone; l’esperienza della natura in occasione di gite e visite sulla costa bretone; letture da libri di geologia e botanica.
[49] Anne Carson, The False Sail. Prologue, in Ead., Economy of the Unlost (Reading Simonides of Keos with Paul Celan), Princeton University Press, Princeton 1999, pp. 3-10: qui p. 8.
[50] In Celan, L’antologia italiana, cit. pp. 116-117.
[51] PC / GCL, p. 94.
[52] Brigitta Eisenreich, Celans Kreidestern. Ein Bericht, Suhrkamp, Berlin 2010, p. 49. L’amica/amante Brigitta Eisenreich, ricorda il giorno d’autunno del 1957 in cui Celan aveva letto per lei Matière de Bretagne, facendo riferimento al ciclo arturiano. Brigitta era appena tornata da un viaggio a Merano, gli raccontò della sua visita a Castel Roncolo (Schloß Runkelstein), decorato con affreschi in stile gotico che illustrano la vita di corte nel medioevo, con molte raffigurazioni di episodi della saga di Tristano. Fu Brigitta, in quella occasione, a far riferimento alla parola bavarese maderi per “pus”.
[53] In Paul Celan, Sotto il tiro di presagi, a cura di Michele Ranchetti e Jutta Leskien, Einaudi, Torino 2001, pp. 432-433 [DG 2019, pp. 558-559]: “Mondo | ti tasta con le dita: tu interroga | le sue durezze, || la mandorla orlata di chiodi: da lei | rassicurati, | che rinvieni a te, ai tuoi | bordi alla luce sensibili”.
[54] PC/GCL, p. 94.
[55] In Celan, La sabbia delle urne, cit., pp. 28-29.
[56] In DG, Kommentar, p. 758.
[57] Paul Celan a Beda Allemann, cit. in DG, Kommentar, p. 758.
[58] Ibidem.
[59] Cfr. nella Collana Poeti tradotti da poeti diretta da Valerio Magrelli, Antigone di Sofocle nella traduzione di Friedrich Hölderlin, versione italiana di Giuseppina Lombardo Radice. Adattamento di Bertolt Brecht da Hölderlin, con un saggio di George Steiner, Einaudi, Torino 1996, p. 6.
[60] Cfr. il saggio di George Steiner in Antigone di Sofocle, cit., p. 180: “Hölderlin traduce in una maniera che suscitò le risate dei suoi primi lettori (tra i quali Goethe e Schiller) e contribuì a confermare la diagnosi di turbe mentali”. In effetti, Steiner dopo aver ricordato la complessa etimologia della parola e i suoi significati arcaici, arrivando a includere nell’aura oscura della parola anche il nome di Calcante (Kalchas), l’indovino greco sotto le mura di Troia, osserva come “gli esegeti moderni” non abbiano trovato altro che circonlocuzioni per questa parola così stratificata, con soluzioni del tipo: “Sembri meditare, proporre qualche idea tremenda o macabra, un’idea esagerata”. Hölderlin traduce semplicemente: “‘Sembri tingere una parola di rosso’ […], a suo agio au pied de la lettre”.
[61] Ibidem.
[62] Celan legge e annota diversi, importanti libri di geologia e scienze della terra; biologia, astronomia, fisica. Ne documento alcuni aspetti nel mio libro di prossima pubblicazione Ricercar per verba. Paul Celan e la musica della materia, Quodlibet, Macerata 2021.
[63] Cfr. Peter Waterhouse, Im Genesis-Gelände, cit., p. 11.
[64] DLA Marbach Celan: (6) -i-, 1v [/September /1958]; Cfr. TCA S, pp. 117-122: qui 118.
[65] Vedi immagine.
[66] Carl von Linné, Systema naturae per regna tria naturae, secundum classes, ordines, genera, species, cum characteribus, differentiis, synonymis, locis, tomus I, editio X, reformata, Salvius, Holmiae-Stockhalm 1758, p. 705.
[67] Cfr. Fabrizio Antonioli-Marco Oliverio, Holocene Sea-Level Rise Recorded by a Radiocarbon-Dated Mussel in a Submerged Speleothem beneath the Mediterranean Sea, in “Quaternary Research”, 45 (1996), pp. 241–244: “Fossil shells of the boring mussel Lithophaga lithophaga provide water depth (pwd) in the Mediterranean Sea. a means for dating changes in relative sea level. These bivalves, The sample site is the Capo Palinuro Promontory (Fig. being among the first colonizers of bare calcareous substrates, can 1), which has a large system of karstic cavities located mark the earliest stages of marine submergence of caves” (p. 241).
[68] Ivi, p. 242.
[69] DLA Marbach Celan: (6) -i-, 1re v; Cfr. TCA S, pp. 117-118.
[70] Peter Waterhouse, Im Genesis-Gelände. Versuch über Paul Celan und Andrea Zanzotto, Engeler, Basel, Weil am Rhein und Wien 1998.
[71] Forse perché assonante con Schliere (stria, striatura, fenditura nelle pietre e nei cristalli, ma anche nel cristallino oculare), un’altra parola sottolineata nei libri di cristallografia e utilizzata in Sprachgitter; cfr. la poesia Schliere (Stria, vedi in Celan, Antologia italiana, cit., pp. 104-105).
[72] Flimmerhaare per Gottfried Benn (Epilog und Lyrisches Ich, 1922) sono le sfavillanti ciglia vibratili delle parole di un io lirico ancestrale, improvvisamente attivo e vivo: “la loro percezione dello stimolo […] risponde alla parola, specialmente al sostantivo, meno all’aggettivo, ben poco alla figura verbale. Essa risponde al segno, alla sua immagine stampata, al carattere nero, solo a esso”. Ciglia che aspettano – dice Benn – la propria “ora”, col suo “valore di eccitazione”, e cioè valore di ebbrezza, in cui si giunge a sfondare la rete delle connessioni, cioè a frantumare la realtà”, e solo allora si apre “lo spazio libero per la poesia”.
[73] Devo a Tommaso Gennaro il riferimento a Parmiggiani. Cfr. Tommaso Gennaro, La traccia dell’addio delle cose. Macerie culturali, urbane e umane nelle letterature del secondo dopoguerra, Sapienza Università editrice, Roma 2017.
[74] Trad. mia. Giuseppe Bevilacqua (in Paul Celan, Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, p. 249) e Dario Borso (in Celan, Antologia italiana, cit., p. 95) traducono “Voci dal viottolo d’ortiche”.
[75] Sulla “risemantizzazione” continua della “mano” cfr. Giulia Puzzo, “Disiecta manus”. Paul Celan: per una lessicografia relazionale, in “Studi germanici”, 9, (2016), pp. 65-98.
[76] “Gras, auseinandergeschrieben” | “Erba, scritta divergente”, cfr. Stretta, in Celan, L’antologia italiana, cit., p. 125 (“scritta sconnessamente”).
[77] “Berühren einander Hänge und Hänge?” | “Si toccano mani e declivi?” – Peter Waterhouse in Im Genesis- Gelände, cit., p. 11, riconosce una “Umgebung”, zona di risonanza intorno alle parole, che si ripetono e si richiamano a distanza, viaggiando sulla ripetizione dei suoni, prima che del senso, e creando agglomerazioni fonetiche, per cui un fonema, una sillaba, può essere un “evento di genesi” (“Genesis-Ereignis”, p. 41).
[78] Peter Waterhouse, Im Genesis-Gelände, cit., p. 12.
[79] La parola Schibboleth, per la sua difficoltà di pronuncia (Schi / o Sibboleth) rendeva verificabile l’origine etnica di chi chiedesse di passare un confine. Nel Libro dei Giudici si narra di come, durante la guerra vinta dai Galaaditi contro gli Eframiti, a chi chiedesse di passare i blocchi di guado sul Giordano, si intimasse di pronunciarla. Una dizione sbagliata comportava lo sgozzamento immediato. Una parola apparentemente pacifica (significa spiga o torrente) può divergere, nell’uso, dal proprio significato, e portare vita o morte. Lo Shibboleth occorre due volte nella poesia celaniana, a distanza di tempo, la prima nel contesto di una poesia che richiama la guerra di Spagna, la seconda concomitante col Sessantotto. Derrida allo Schibboleth celaniano ha dedicato una memorabile e molto discussa conferenza (cfr. Jacques Derrida, Schibboleth. Pour Paul Celan, Galilée, Paris 1986; trad. it. Schibboleth. Per Paul Celan, Gallio, Ferrara 1991.)
[80] DG, p. 136-137. Segnalo su Nazione Indiana le tre traduzioni di Giuseppe Bevilacqua, Luigi Reitani e Helena Janeczek postate da Helena Janeczek https://www.nazioneindiana.com/2006/09/01/psalmsalmo-x3/
[81] Il valore della poesia capace di dire la voce dell’altro, anche “tutt’altro” è esplicitata nel Meridiano, cit. p.
[82] Cfr. Il Meridiano, cit., p. 17.
[83] I termini che seguono sono tutti citati nelle liste di parole riprodotte nel manoscritto “-i- 1958”. Cfr. anche, nella poesia Niedrigwasser (Bassa marea) poesia compresa nella stessa silloge, Sprachgitter, la descrizione anatomica del cuore, che si ritrova identica nella terminologia morfologica delle conchiglie.
[84] TCA M. Nr. 286: 111: “-i- Gedicht nicht augenfällige oder geheime Spiegelung des Kosmos, sondern Gegenkosmos. Das Sublunare als ‘Gegen’-Supralunare (also doch anthropozentrisch?)”. [“ -i- La poesia non è un rispecchiamento evidente né segreto del cosmo, ma un controcosmo. Ciò che è sublunare è [da intendere] ‘contro’ ciò che supralunare (ma allora è antropocentrica?)”].
[85] DLA Marbach, AD/ 3. 3,4 T. Cfr. TCA S, p. 100.
[86] Annotazione in DLA Marbach, PMF D:Celan, Paul Gedichte / Verschiedes Fragmente, Entwürfe “-i-” 2-9.
In copertina: Paul Celan e la moglie Gisèle Lestrange