A consuntivo dell’annus horribilis dell’ascesa al potere di Hitler, il 31 dicembre 1933, Walter Benjamin scrive a Gershom Scholem: «Sono convinto che da me stesso non posso più pretendere molto». I nuovi padroni in camicia bruna stanno a poco a poco colonizzando anche l’inconscio, tanto che nei sogni di Benjamin prende forma «un atlante per immagini della storia segreta del nazionalsocialismo» (lettera del 3 aprile 1934); la precarietà dell’esule, d’altra parte, indebolisce la facoltà che più di ogni altra potrebbe far fronte all’urto immane: «Una memoria che deve rielaborare le impressioni di una vita soggetta a imprevedibili cambiamenti sarà di rado altrettanto affidabile di quella che ha l’appoggio della stabilità» (9 luglio 1934).
Di cambiamenti imprevedibili è piena la vita di Benjamin, negli anni fatali che vanno da quel capodanno 1933 alla morte sopravvenuta il 26 settembre 1940 (sono passati ottant’anni esatti, e qualcuno se n’è ricordato). L’epistolario con Gershom Scholem, ora riproposto da Adelphi per le cure attente di Saverio Campanini (sino a oggi faceva testo, in italiano, il volume Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, edito da Einaudi nel 1987), delinea una geografia che spazia da Ibiza a Skovbostrand (il luogo d’esilio di Brecht) a San Remo (quello della moglie di Benjamin, Dora), con centro di gravitazione Parigi – ma anche qui la cifra è quella della precarietà, con sette diversi appartamenti occupati tra 1935 e 1940. Nonostante ciò (ed è più di quanto la più allenata resilienza riesca a tollerare), ribaltando la disperata ammissione di sette anni prima, nell’ultima lettera inviata a Scholem, datata 11 gennaio 1940, Benjamin scrive: «Ogni riga che riusciamo a pubblicare è – per quanto il futuro alla quale lo consegniamo sia incerto – una vittoria strappata alle potenze delle tenebre».

Più circoscritta nello spazio, sebbene non meno precaria, è l’esistenza di Gershom Scholem a Gerusalemme, che nelle lettere osserva il montare della marea del conflitto tra ebrei e palestinesi, strumentalizzato ad arte dalle potenze che si preparano a un nuovo conflitto mondiale. «Ci vorrà molto tempo prima che ritorni la calma», annota lo studioso della Qabbalah il 26 agosto 1936, con triste presagio. A Gerusalemme Scholem supplisce anche all’impossibilità dell’amico di custodire il magma disperso dei suoi scritti, che gli vengono puntualmente spediti con preghiera di conservarli «nella più remota camera oscura del suo archivio» (ca. 10/12 settembre 1933; è il passo al quale si è ispirato l’editore italiano per il titolo del nuovo volume). Per un certo periodo Benjamin riflette sulla possibilità di un trasferimento a Gerusalemme: decisione da prendersi esclusivamente, mette subito in chiaro, «di fronte al tribunale della lingua ebraica» (1° settembre 1933), escludendo categoricamente qualsiasi affiliazione politica o religiosa. L’aliyah non avrà infine luogo e la corrispondenza si svilupperà con ritmi alterni, dettati dalle contingenze personali e storiche di uomini per i quali ogni istante coincide con il «momento del pericolo», tra «i merli di Gerusalemme» e «le facciate grigio-azzurre dei boulevards» (lettera di Benjamin del 4 aprile 1937).
Insieme ai saggi e ai memoir dedicati da Scholem all’amico, questa corrispondenza ha contribuito in modo determinante all’interpretazione dell’opera di Benjamin, in particolar modo in Italia. Scholem imposta la sua lettura sull’opposizione tra ebraismo e marxismo, con l’«elemento ebraico» a svolgere un ruolo decisivo: «Ogni sua profonda intuizione, sotto l’aspetto sia creativo sia distruttivo, proveniva dal cuore dell’ebraismo» (Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi 1996, pp. 101 e 110). Il pensiero di Benjamin è per Scholem la «secolarizzazione di un’apocalittica ebraica» (ivi, p. 107); per questo egli reagisce con malcelato disappunto a quella che gli appare la «professione di fede comunista» contenuta nel primo articolo di Benjamin per la «Zeitschrift für Sozialforschung» (lettera del 19 aprile 1934). Da Parigi l’amico replica che «il suo comunismo tra tutte le forme e modi di espressione possibili è quanto di più lontano da una professione di fede», e che per lui si tratta di «nient’altro che il male minore» (6 maggio 1934). Piuttosto che l’autodifesa, tuttavia, è interessante osservare lo spostamento che nella stessa lettera Benjamin imprime al discorso. Parafrasando il celebre graffito del Sessantotto parigino, si potrebbe parlare, per Benjamin, di un marxismo «tendenza Franz» (Kafka). È in Kafka che Benjamin si riconosce senza riserve, per il fatto che «non assume nessuna delle posizioni che il comunismo combatte con giusta ragione».
Le reazioni a caldo della corrispondenza manifestano in anticipo la più meditata tendenza dello Scholem dei saggi a ricondurre alla polarità ebraismo/marxismo il pensiero di Benjamin; il quale, dal canto suo, fa di tutto per svicolare da quella strettoia, appellandosi ad autori inclassificabili come Kafka. «L’opera di Kafka – scrive il 12 giugno 1938 – è un’ellissi i cui fuochi, molto distanti tra loro, sono determinati da una parte dall’esperienza mistica (che è soprattutto esperienza della tradizione), e dall’altra dall’esperienza del cittadino della metropoli moderna». L’affermazione è riferita all’opera dello scrittore praghese, ma potrebbe valere ugualmente come autoritratto, nel quale la dialettica di tradizione e modernità travalica quella, più ristretta, di ebraismo e marxismo. Sintomatica, a questo proposito, la nota esplicativa apposta da Scholem a questo passo: «Benjamin aveva ripreso questa identificazione [di mistica e tradizione] dal termine tecnico Qabbalah, che alla lettera significa “tradizione”, come egli sapeva». Sempre di nuovo, Scholem interroga l’enigma dell’amico, che gli appare come una chimera, alla luce di una dialettica che non può esaurirne il pensiero.
Per Scholem come per Benjamin (fa fede per quest’ultimo il drammatico epilogo della corrispondenza citato all’inizio), tuttavia, «la patria è il testo» (rinvio al bel saggio di George Steiner con questo titolo: Our Homeland, the Text). La corrispondenza consente di seguire l’elaborazione dei fondamentali saggi sulla Qabbalah e sullo Zohar del primo, e la genesi dei capolavori degli anni Trenta del secondo. Nel settembre 1932 Benjamin annuncia l’avvio della stesura di Berliner Kindheit (Infanzia berlinese intorno al millenovecento), a nostro parere il più bel memoir del secolo scorso; due anni dopo, il 17 ottobre 1934, la ripresa del progetto sui passages parigini. Ripresa, perché, come spiega in un’altra lettera, gli «abbozzi preparatori in vista di un articolo per “Der Querschnitt”, che non è mai stato scritto», potrebbero risalire addirittura a nove anni prima (20 maggio 1935): siamo all’altezza della stesura, con Asja Lacis, di Neapel, l’immagine di città che, nell’inversione del transito dal passage al grand magasin, rappresenta una sorta di anti-Parigi capitale del XIX secolo (ci sarebbe da soffermarsi sulla funzione maieutica svolta su Benjamin dai soggiorni napoletani, analogamente a quanto fatto da Martin Mittelmeier per Adorno in un libro recentemente tradotto da Feltrinelli). Benjamin descrive all’amico l’opera in progress come un «tentativo di fissare l’immagine della storia nelle cristallizzazioni più inappariscenti dell’esistenza, nei suoi scarti, per così dire» (9 agosto 1935). Trascorrono pochi mesi ed ecco (24 ottobre 1935) l’annuncio del saggio su L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica. Nel frattempo il Passagenwerk si è cristallizzato (come dimostrato da Giorgio Agamben nell’edizione approntata per Neri Pozza) intorno alla figura di Baudelaire. Le parole con le quali Benjamin anticipa all’amico la trattazione del poeta delle Fleurs du mal descrivono con esattezza l’effetto che la riproposizione di questa corrispondenza produce sul lettore: «Questa visione deve apparire nuova e allo stesso tempo esercitare un fascino difficilmente definibile, come quella di una pietra che riposi da decenni nel sottobosco, la cui impronta ci stia davanti evidente e intatta anche dopo che, con più o meno sforzo, l’abbiamo rotolata via» (14 aprile 1938).
Walter Benjamin, Gershom Scholem
Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940
a cura di Gershom Scholem, edizione italiana di Saverio Campanini
Adelphi, 2019, pp. 463, € 26