Marguerite Yourcenar, attraverso la pittura

Con i musei chiusi, ci interroghiamo sulle opere del museo immaginario collettivo. Quali sono le icone che ci mancano di più, o quelle che descrivono le nostre paure e i nostri incubi? Quali quelle che davvero vorremmo poter vedere in questi mesi di crisi esistenziale?

Torno così ad una scrittrice che ho riletto in estate, la cui opera è segnata dalla memoria dei dipinti della storia dell’arte europea: Marguerite Yourcenar. La sua autobiografia in tre volumi (Care memorie, Archivi del Nord, e Quoi? L’Eternité, Einaudi) si colloca nella migliore tradizione del genere; anche per Marguerite Yourcenar l’autobiografia è una forma di ricerca di sé negli altri, un tentativo di specchiarsi nel fondo scuro della storia che la precede. Da subito, come in altri romanzi, si intuisce che la ricerca tra archivi e oggetti di famiglia sia stata approfondita, ma lo sforzo di rendere vivo il passato si affida in gran parte alle immagini.

Joachim Patinir, Il martirio di Santa Caterina, 1515 ca.

In Archivi del nord ad esempio viene presentato così il più lontano antenato della Yourcenar: ‘Verso l’inizio del XVI secolo, compare un piccolo personaggio chiamato Cleenwerck, minuscolo a quella distanza come le figure che Bosch, Brueghel o Patinir collocavano sulle strade nello sfondo dei loro dipinti per servire da scala ai paesaggi’ (Archivi del Nord, Einaudi, p.21). A proposito di una sua antenata, leggiamo più avanti: ‘Snella e dritta nel suo vestito di corte Luigi XV, ricorda più le ninfe del Primaticcio che le languide donne dell’Imbarco per Citera’ (Archivi del Nord, p. 40). E qui diventa chiaro che tra le immagini frammentarie compaiono continuamente sullo sfondo i dipinti da manuale di storia dell’arte.

Antoine Watteau, Imbarco per Citera, 1718

La linea realista della pittura moderna europea – paesaggio e ritratto in primis – permette alla scrittrice di sostenere l’idea che gli oggetti o i luoghi dell’infanzia non possono essere descritti a parole. Generi pittorici nordici, borghesi, che l’Ottocento naturalista ha recuperato dalla produzione del rinascimento per erigerli poi a baluardi del modernismo, servono per comunicare ai lettori quali atmosfere abbia vissuto la scrittrice. Le prime volte che la piccola Marguerite aveva fissato lo sguardo esplorante sui muri delle case di una famiglia dell’alta borghesia fiamminga, trovava questo tipo di dipinti, ereditati dagli antenati. Si tratta di generi minori, popolari, parerga utilizzati dai pittori a sostegno della historia con la funzione di rappresentazione anti-narrativa del mondano, e dai loro committenti con finalità di decorazione e ostentazione. Tra i ritratti di famiglia, ne troviamo uno con una coppia in posa accanto ai loro oggetti preferiti, paragonato al ritratto dei coniugi Arnolfini: ‘i modelli di Van Eyck vivevano ancora in un’epoca in cui gli oggetti avevano un significato in sé; quegli zoccoli e quel letto simboleggiano l’intimità degli sposi; quello specchio quasi magico è appannato da tutto ciò che ha visto o vedrà un giorno. Qui invece quegli interni sono testimonianza di una cività nella quale l’avere ha preso il sopravvento sull’essere’ (p. 126). Intuiamo qui che il canone serve anche per mettere in risalto la decadenza morale del presente.

Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434 (particolare)

Oltre la soglia di casa, ci sono le opere viste in viaggio. La ragazzina Marguerite aveva ammirato i prototipi più raffinati di questi dipinti nei musei d’Europa, viaggiando in Francia e in Italia al seguito di un padre originale e spendaccione che non tollerava la monotonia della vita di provincia al nord. A 12 anni, durante la prima guerra mondiale, si trova a Richmond in Inghilterra e vede i quadri della corona inglese. Dopo la guerra, padre e figlia intraprendono un ultimo tour estivo: oltre ai casino e agli hotel di villeggiatura c’è tempo per andare ai musei, e portare a casa qualche cartolina. Dopo la morte del padre, intorno ai trent’anni, da giovane scrittrice Marguerite continuerà il suo grand tour con gli amici, sempre visitando i musei e portando a casa le riproduzioni popolari dei capolavori della pittura Rinascimentale e barocca. Questa banca d’immagini radicata in una fase primordiale della vita della scrittrice sarà un archivio prezioso almeno quanto i documenti che le servono per scrivere i romanzi. Del resto, come ammette lei stessa in un’intervista alla Paris Review: I could say that all my books were conceived by the time I was twenty, although they were not to be written for another thirty or forty years. But perhaps this is true of most writers—the emotional storage is done very early on.

Nel tentativo di descrivere una verità storica la scrittrice si affidi ad immagini che parlano ad uno sguardo colto, che richiede a volte un’interpretazione preliminare. Un esempio: ne Il colpo di grazia (pubblicato nel 1939), il narratore rievoca il cavaliere di Rembrandt alla Frick collection: ‘un fantasma munito del cartellino con il numero e inserito nel catalogo’. Ancora, nell’Opera al nero troviamo descritte le vedute di Bruegel e Dürer, che dovrebbero servire al lettore per immaginare l’atmosfera delle città.

Rembrandt, Il cavaliere polacco, 1655

Ma dubito che questi souvenirs da viaggiatrice instancabile e figlia di famiglie dell’alta borghesia fiamminga siano davvero un possibile punto di connessione con l’immaginario dei propri lettori. Nonostante siamo nell’era del museo di massa, il tentativo di illustrazione tramite l’evocazione di dipinti del canone occidentale sembra poter davvero toccare solo un piccolo gruppo di lettori. L’immagine sfugge, e il lettore, come lo scrittore, si ritrova a contemplare un vuoto.

In tutta l’opera della Yourcenar, al fondo, percepiamo la fine di un’epoca in cui le opere d’arte non erano immagini ma presenze parlanti, oggetti vivi che nei musei hanno sfinito il proprio potere. Immaginando la visita di suo nonno ai musei Vaticani, la Yourcenar commenta: ‘ad essi [ai capolavori dell’antichità] non si chiede, come oggi alle opere d’arte quando le si prende abbastanza sul serio per chiedere loro qualcosa, di sovvertire l’idea che ci facciamo del mondo, di trasmettere il grido personale dell’artista, di “cambiare vita”’ (Archivi del Nord, p. 95). Usare l’arte per scrivere una storia collettiva significa contemplare nell’abisso del proprio passato ed esperire tutto il vuoto di comunicazione tra parola e immagine.

In copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, Paesaggio con la fuga in Egitto, 1563

È storica dell'arte moderna, assegnista di ricerca all'Università IUAV di Venezia e docente all'Università Bocconi. Si occupa di storia e teoria del paesaggio, del disegno e dei media. Dopo il dottorato in storia dell'arte al Courtauld Institute di Londra, è stata borsista al Centre Allemand d'Histoire de l'Art di Parigi, alla Fondazione 1563 di Torino e allo Zentralinstitut für Kunstgeschichte di Monaco di Baviera.

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